La capacità di dare un senso nuovo alle cose e superarle, creando una dimensione estranea alla sfera personale, posiziona la poesia lontano da ogni forma di privata recitazione.
Quando l’autore si dissimula nell’opera, celandosi tra le sue parole, consente al testo di acquisire un valore comune, diventare un bene di tutti.
Questa caratteristica può essere uno dei tratti che accomuna le scritture ospitate nel nuovo numero di “Carte nel vento”, che nasce dai testi presentati alla precedente edizione del Premio Lorenzo Montano.
Gli autori scelti sono tutti introdotti dalla redazione di “Anterem”, come è accaduto in diretta durante il Forum 2015.
Ricordando che è ancora in corso la nuova edizione del Premio, giunto ai 30 anni di attività, auguriamo buona lettura.
In copertina, Laura Cingolani, “Sonnambula n. 7” (acquerello di caffé su carta da disegno stampata)
scarica il bando della 30a edizione
La sostanza della forma.
Epifania per diversa agnizione.
La parola racchiusa nei suoi dintorni.
Codice di visione in assonanza simbolica.
Mimesi grafica del sonnambulismo e azioni.
Veglia a occhi chiusi oppure sonno a occhi aperti?
La figura è ritta, in leggero ritmo, costante movimento.
Contemporaneamente ricorda, pensa, vive, crea astrazioni.
Con moto accorto, andante non prolisso, produce riflessioni.
Si riflette nello spostamento lieve. Il pensiero è interiore.
Porta consueti smarrimenti e volontari nuovi inciampi.
Come fa un uccello “poco incline all’orizzonte”.
Viene assalita da altri spaesamenti temporali:
“mai più capii se c’eri veramente”. Un
segreto donato dal vento notturno.
Consumato dal sogno il destino
quale nuova tregua offerta.
Nota biografica di Laura Cingolani
Angelo Andreotti è un poeta colto.
Si avvertono, nelle sue scritture, oltre alla passione per il dire poetico, anche tutte quelle capacità che derivano da un lungo e paziente esercizio di studio del mezzo espressivo.
E dunque, all’interno di forme classiche, con linguaggio alto, si può facilmente notare l’esito di un meditato lavoro di equilibratura degli esiti sonori e ritmici in una interessante convergenza fra scelte lessicali e appropriate cesure dei versi: “così come di notte dell’ombra/si perde notizia/e della luce/si cerca ovunque traccia…”.
Ma si avverte anche l’urgenza di completare l’approccio puramente estetico con modalità espressive che diano conto di un diverso e meno scontato spessore di pensiero (proseguendo la citazione dello stesso testo): “…(benché entrambe si stiano abbracciando/a parole spogliate nel buio)…”.
Un enigma, come avverte Duccio Demetrio nella postfazione, lirico e filosofico insieme.
Da un lato la luce come fattrice della visibilità del mondo e del suo racconto e dall’altro l’ombra come misterica fonte di comprensione, insieme composte nelle loro declinazioni naturali, narrate sotto lo stesso cielo e mai completamente separate.
Anzi, propriamente, rese inscindibili dallo stesso pensiero che prova a definirle.
Prologo
Come nascosta nel verbo di un àugure
non ebbe fine la luce al suo inizio,
fu dopo,
fu quando si vide occultata,
a se stessa negata
scivolando
nel vuoto dietro a un corpoaccarezzato.
Sentì mancarsi
e si mancò,
volse in ombra
ecco:
si fece mondo
e per sempre incarnata fu anche spazio.
Poi in alternante sovrapposizione
fu forma delle cose,
mentre l’ombra
che luce non guarda
l’andava amando.
1, I
E man mano che arriva
la luce riordina il mondo, allude,
imbevendosi d’aria
fa largo alle cose.
Le accoglie in colori appropriati,
ne annuncia i luoghi con semplice gesto,
pienamente tutto amando
nell’ospitale offerta di orizzonte.
Ciò che di oscuro resta
è reso dallo sguardo dei veggenti
nella parola imparata da capo,
benché nulla sia prescritto,
benché nulla venga aggiunto.
Angelo Andreotti vive a Ferrara dove dirige i Musei d’Arte Antica e Storico-Scientifici. Nell’ambito della scrittura creativa ha pubblicato: Porto Palos, Book 2006; La faretra di Zenone, Corbo 2008; Nel verso della vita, Este Edition 2010; Parole come dita, Mobydick 2011.
Sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste, sia cartacee che on-line.
Fa parte del gruppo fondatore dell’Accademia del Silenzio di Anghiari.
Recensione immaginaria di un film immaginario di Emmanuel Carrère (2014)
Emanuele Canzaniello ci parla di Patmos di Emmanuel Carrère e ci indica per prima cosa che si tratta di un film girato «come un documentario». «Di questo film si è ospiti» precisa Canzaniello. Gli crediamo e leggiamo il suo testo come una recensione cinematografica. Ma dobbiamo ri-crederci. Mano a mano che procediamo nella lettura, infatti, ci rendiamo conto che questo testo che abbiamo iniziato a leggere “come una recensione” va letto «come un documentario», proprio come il film. Non solo. Ci rendiamo conto che si tratta di un film immaginario, che Carrère non ha mai girato… Un gioco di specchi si svolge su uno schermo immaginario, lo stesso che si articola nella scrittura che Canzaniello, in una studiata divaricazione tra la vita mondana del turismo e le preghiere dei monaci scuri.
Si avverte nel testo di Canzaniello un’estrema cautela nel parlare di questi movimenti, una profonda vigilanza critica e in qualche punto anche l’insoddisfazione nei confronti di quanto va scrivendo, perché provvisorio, così com’è provvisoria l’immaginazione. Lo rivela nel finale, quando, abbandonando ogni finzione, Canzaniello si rivolge senza mediazione direttamente a noi lettori invitandoci a trovare la chiave di interpretazione di questo immaginario film.
In un estenuante corpo a corpo, noi lettori impariamo a esasperare la pratica del dubbio, un dubbio che fende come una crepa la comprensione della realtà, soprattutto quando l’immaginario prende il sopravvento.
Nota biografica di Emanuele Canzaniello
Un’ascesi mondana, e un’ascesa a Patmos, al monastero di San Giovanni Teologo. Una sequenza iniziale sul mare intorno all’isola, in traghetto, prima di arrivarvi. Celebrità monastiche, cocktail di anziane dame policrome che hanno conosciuto i ricordi di Dalmazio, dell’Impero mentre moriva. I signori possono accomodarsi, le mura sono bianche, la vista è splendida. Di questo film si è ospiti naturali. Stabilisce per noi parentele e filigrane di Albertine, fa di noi una fuga ed è lui stesso a fuggire da noi. A pochi fotogrammi di distanza, una festa, luci sul mare, qualcuno lascia suonare La Pianista, una signora impeccabile e guantata che entra in un peep-show e raccoglie e annusa un fazzoletto inseminato.
Girato come un documentario, Patmos, di Emmanuel Carrère è un movimento centrifugo di elementi biografici manipolati con grande abilità. Proprietario di una casa sull’isola, lo scrittore francese dirige la propria architetturale visione del promontorio e della vita eremitica. Vara un documentario di finzione, dove lui stesso più che recitare è in scena, abita il film, perché lui abita lì, in quella casa così simile all’omaggio di pietra che arrossa la punta del Massullo, la villa caprese di Malaparte. Ed è intorno alla sua casa greca e dentro le ville povere abitate dal mondo in un preciso momento di agosto, che scopriamo Dio. Nato dai materiali accumulati per un documentario sul monastero dell’isola, sull’ortodossia di croci e d’oro dell’estremo Egeo, il film conserva innumerevoli tracce di mosaico, tessere magnifiche, di quell’intento iniziale. Conosce i luoghi di preghiera e li percorre, ma è indifferente al gusto apocalittico che vende bene l’isola. Una severità piena di sole ne intaglia la fotografia. Per quella via in lamina d’oro si veste e celebra nel film una storia eccentrica, un elemento che altera il profilo del documentario spoglio. Ma del documentario conserva il mondo e in quelle pieghe si diverte a modellare abiti di taglio perfetto. Il coniugio è presto celebrato tra le feste liturgiche e la mondanità sacra, ma non è invadente, non è manifesto, è piuttosto casto. Ci si accorge appena che dall’ora del lavoro in monastero, si scenda la sera in giardini che ospitano il turismo celebre. Una conduttrice della televisione italiana o il re di Grecia, legittimo per sola discendenza, in legami di parentela con l’ultimo Luigi decapitato di Francia. Un lontano parente di cui parlare con affettuosa apprensione. Michel de Grece recitato par lui même, sodomizza il pubblico con la sua scatologia universale. Narra di come il mondo sia diviso e divisibile in tre ordini distinti, e di Patmos ne fa il modello miniato. Al vertice dei pudori e di tutti gli onori vivono les gens, incastonate nella grazia delle dimore di Chora, sotto le mura monastiche. Essi sono re e ricordi dei re, alcuni sono indicati invece come discendenze di lontane divinità, familiari al turchese delle mura di Babilonia. Poi vengono gli inglesi, subito dopo dio. Patrimoni non intaccati dalla perdita della schiavitù, i cui figli vivono di spiagge, chiari come la sabbia. Subito dopo gl’inglesi viene il pop, le celebrità inattuali, vecchie copertine, artisti e galleristi. Non digradanti ecco poi le mansioni del sesso d’alto lignaggio, la prostituzione museale e monumentale di gens raccolta lì da tutto il mondo. Riciclaggio e redenzione, liquidi indiscutibili e sempre accolti della finanza giovane. Su tutti il vero privilegio è la genealogia. Il secondo ordine è già gleba, costituito com’è da non-gens, da chi sostiene tutte le attività del creato. Michel de Grece dice di averla vista all’opera in un libro d’ore di stupenda fattura. Come tra la nobiltà e il popolo vi è il nulla, così il n’y a rien tra questi primi due ordini estivi, e in questo nulla solo il turista sopravvive, senza nascita, senza nome. La cosa più preoccupante, avverte il principe, è che tra i turisti ci sia chi aspiri a far parte della gens, una devianza che meriterebbe il carcere.
Al centro di questa come di tutte le conversazioni c’è Carrère, si parla con lui, e attraverso lui godiamo di una catabasi mondana, divertente, altera, perfettamente falsa, impassibilmente vera. Tra gli invitati, senza distrarci troppo, un giovane uomo dichiara di essere un rifugiato politico, di aver ucciso Berlusconi; non ha nemmeno trent’anni. Parla di un colpo di pistola, di azalee. Poi ci sono le bellezze, i più giovani sono ungheresi, armeni, così perfetti da sembrare appartenere a razze estinte, a ordini di templi mai riportati alla luce. Si prostituiscono, probabilmente. La tonalità dei gesti, il ballo quasi immobile e l’accoglienza dimostrata alle parole di alcuni anziani, e in alcuni casi, la posizione inginocchiata o semidistesa si fanno notare in mezzo agli alberi. Pisanello, una sant’Anastasia, qualcuno sta per partire, castelli traforati su in alto.
E in alto la vita dei monaci scuri, il sandalo e la preghiera. Non stupitevi di questa difficile amalgama, il film non soffre schizofrenie, anzi gode di questa studiata divaricazione e si dimostra molto prensile in entrambe le ricostruzioni, archeologica l’una quanto l’altra. Carrère prega con loro e si fa tramite dei due set, presiede alle duplici cerimonie, confonde i suoi ospiti e non impressiona gli eremiti, che lo lasciano stare tra loro come si fa con le mosche. E lui ricambia, per lo più non inventando storie; finge di ricordare quello che gli è stato riferito, di mettere insieme dei fatti sparsi, di circostanziarli in una forma che ha il gusto della conversazione, opposta e affine al silenzio suggerito dalla regola. Ma quello che conta è altro, il vero centro di tutto è il cuore di un uomo solo, il cuore dell’igumeno. Non uno sconvolgimento ma costantemente una meditazione, una meditazione su qualcosa d’invisibile al cinema. Una casistica minuta e una vasta teologia dell’amore; il profilo di un uomo invecchiato ma imponente, dalla barba in cui nidificano le Scritture, dalle labbra di vino. Il monaco igumeno dell’isola monastica ama e ama una donna, risorsa e ispirazione carnale. Non conosciamo il monaco, né ci viene presentato bene da Carrère, ma conosciamo lentamente il suo tormento. Non importa che egli ami, non è la tentazione il suo cardine, non il discrimine della carne e dei corpi, il tremore del film è la febbre ferma dell’amore che non può riaversi, non può riavere se stesso e non può cibarsi d’altro. L’abate ortodosso sa che nemmeno in confessione potrà rivelare ad altri il suo segreto. Sa che cedervi al pensiero è già colpa, eppure l’incessante grazia del film vuole altro, allude ad altro. In immagini e gradienti di silenzio è in questa natura di confessione impossibile dell’amore che è ospitato il materiale ottico ispezionato, allocato in quello scarto come nella vera cava dell’Apocalisse. Un incesto dell’animo con se stesso. Il monaco può accettare di amare, ma fuori di sé non può rendere nulla di quest’amore, può aspettare che passi. Restituire quest’attesa in pochi gesti, pochi volumi di corpi nello spazio, restituire la pace che può esserci sulla pelle segnata di una mano, sondare la preghiera come esorcismo contro l’amore, vedere quella condizione di sudore, questo conta nella singolarità dello sforzo filmato.
Conta meno che l’igumeno venga ritrovato morto tra le mura della sua cella, morto appena prima o appena dopo aver ricevuto la sua donna in confessione. Lascerò che seguiate da voi il finale, dopo la visione, a voi la scelta tra le due ipotesi che resteranno ancora in piedi: il suicidio prima che avvenisse la confessione o l’omicidio successivo.
La dissoluzione dell’io
Nell’orchestrazione seriale, con cui Mario Campanino organizza l’impianto narrativo di “Vendesi uomo”, viene messo in scena lo smembramento dell’io, frammentato, fatto a pezzi, messo in vendita.
Dopo la premessa “Vendesi uomo / senza rima e senza uscita / del resto completo / e opportunamente disassemblato”, quasi un controcanto laico della silloge “L’angelo morto”, si assiste all’esposizione della merce corporea e umana, con annunci che alternano, con apparente distaccata ironia, mercificazioni e affetti, denuncia e tenerezza.
Solo l’anima non subisce lo stesso destino, forse perché irriducibile all’io o forse solo non a disposizione: “Non vendo anima / smarrita”, scrive l’autore.
Il procedere disincantato per negazioni e affermazioni, per rifiuti e adesioni non esclude però alla fine un atto di fiducia, anche se solo in un possibile amatore, poiché scrive Mario Campanino, al termine delle offerte di tutto quanto è stato smembrato: “Vendo istruzioni / di possibile riassemblaggio”.
Una fiducia nell’uomo, nel pensiero, nella parola? Una speranza che la premura possa riportare all’integrazione delle parti?
E cosa conta: ridare corpo e unità all’io, all’esser-ci di cui prendersi cura oppure stare dalla parte dell’anima, di ciò che non si vende e non si può frammentare, dell’essere irriducibile e smarrito?
***
Vendesi uomo
senza rima e senza uscita
del resto completo
e opportunamente disassemblato
sì segni di usura
no malfunzionamenti
causa cambio fede
e riduzione spazio
in relativo disimpegno
con realizzo di vuoto.
***
Vendo cervello
in buono stato apparente
uso pensieri buoni e cattivi
completo di subconscio e super io
controllo movimenti e linguaggio
gestione riflessi e semicoscienze
anadato qualche volta in sovraccarico
poi opportunamente svuotato
e ricondizionato per nuovo utilizzo
confezione in scatola cranica.
***
Vendo capelli
tonalità iniziale nero
sviluppo in variazioni castano
e cadenza finale bianco
salvo perdita componenti
in spazi tra righe in mezzo
per debolezza d’attacco
in contrasto con le cose fisse
come i motivi classici
e le vecchie paure.
Nota biografica di Mario Campanino
Un illuminante dire
Con “Non hanno scuse”, Giancarlo Stoccoro presenta un calibrato componimento le cui chiare pronunce sono semplici eppure infinitamente complesse.
Si veda ad esempio:
“le derive fragili del paesaggio
luoghi assoluti sottratti alle radiografie”.
Qui si crea un’immagine poetica il cui immediato emergere tende a continui arricchimenti: si tratta di una raffigurazione dai profili definiti eppure aperti a complessità capaci di crescere con il procedere della nostra riflessione.
Non siamo al cospetto di un gioco di specchi né di un colpo di zoom o di un’osservazione al microscopio, bensì d’intense sequenze tali da mostrare innumerevoli implicazioni nel cui àmbito il lineamento linguistico si offre e, nello stesso tempo, promuove un divenire.
La poesia si conclude con i versi:
“quando la notte spezza le catene
e si fa per tutti sogno luminoso”,
ossia con un’immagine che dal gusto per il paradosso sembra estrarre un’intima esistenza che il lettore riconosce come propria.
Non è facile proporre connessioni di parole suscitando negli altri un’immediata adesione che non consiste nel mero significato, bensì in un’emozione condivisa.
Quella “notte”, ora, è la nostra notte e quel “sogno luminoso” è il nostro sogno luminoso: ci ritroviamo in un territorio linguistico in cui abitavamo da sempre senza saperlo.
Una persistenza esistenziale si è illuminata e noi l’abbiamo immediatamente riconosciuta: qualcosa, che c’era già, si è aggiunto.
Il lavoro dei poeti consiste nel rendere gli uomini maggiormente consapevoli, conducendoli lungo una via di conoscenza che si serve, anziché d’inflessibili nessi
causali, d’immagini e di suggerimenti, d’emozioni e di grumi di senso: lungo tale via ci accompagna la semplice complessità di Giancarlo.
Non hanno scuse
invitano a gesti plateali
le derive fragili del paesaggio
luoghi assoluti sottratti alle radiografie
ai parenti stretti alle memorie
in epigrafe sui muri
Fino a ieri contavano
ancora le appartenenze gli sguardi
rubati dietro al cancello le ombre
più prossime al sacrificio dei corpi
quando la notte spezza le catene
e si fa per tutti sogno luminoso
Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia: Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005), attualmente in traduzione in lingua spagnola. Da parecchi anni, oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche.
Suo è il primo saggio che esplora il cinema associato al Social Dreaming (sognare sociale/ sognare assieme) che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: Occhi del sogno. Cinema e Social Dreaming (Giovanni Fioriti editore, Roma, 2012).
Ha frequentato intorno ai vent’anni il circolo letterario comasco Acarya e sue poesie sono presenti nell’antologia “Voci e immagini poetiche 3”. Ha partecipato al premio Lerici Pea 1988, vincendo la medaglia nati dopo il 1958, con la poesia L’ombra dell’aquilone premiata da Giorgio Caproni.
Sono state segnalate poesie sullo Specchio della Stampa (2/12/06) nella rubrica “Scuola di Poesia” e in “Dialoghi in versi” (17/08/2007) da Maurizio Cucchi.
Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge di poesie Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo, tra le opere vincitrici del concorso internazionale Lago Gerundo 2014- 12° edizione, (presidente di sezione Giancarlo Pontiggia). È in corso di stampa per l’editore ticinese Alla chiara fonte la raccolta breve Benché non si sappia entrambi che vivere. Per Nomos editore è in attesa di pubblicazione la raccolta poetica Consulente del buio, con la prefazione di Giovanni Tesio.
Un singolare pedinamento quello di Daniele Bellomi, in dove mente il fiume, condotto osservando l’evoluzione di un organismo e quella del linguaggio che, a sua volta, lo segue dappresso: “anche la fonte risultasse, fosse riconosciuta, prima / vede il primer, l’enzima, aspetta la ligàsi, legarsi, /leggasi”. Se nel linguaggio l’assonanza funge da similitudine, ma in maniera non fondata, che cosa avviene nello sviluppo dell’embrione “fino a quando la materia si compatta, diventa gelatina”? L’istituzione di questo binario d’indagine viene estesa a tal punto da far dubitare che esista contatto, tangenza, somiglianza tra materia (genericamente intesa) e linguaggio. Solo certi passaggi, fulminanti, che avvengono (“vediate, deviate”) consentono di coniugare le sponde altrimenti inaccostabili. Ma anche certe raffinate contrapposizioni colte sulla soglia del visibile: “si vede contro luce mentre ora, content, ancora contro, lei resta muta”. Ciò rende più complesso il quadro, pur tuttavia non se ne traggono concettualizzazioni esaustive: si disegna però la situazione di fatto, si rende visibile il modo in cui formuliamo il pensiero, ciò che creiamo con la famiglia delle somiglianze: il che è già un’enormità. Allo stesso modo, la traduzione tra idiomi differenti convoca un ulteriore problematico piano: quanto hanno di simile due concetti espressi in due lingue differenti “pleurer, è come pioggia”? Il corpo onnipresente, invasivo, tra il proprio e la protesi sul tavolo anatomico, diviene piano dove viene analizzata, auscultata, la propria identità. Sul banco degli imputati, è sistemata una società di massa deprimente e impoverente, che scambia make-up ed extention per valori. Ed è anche una ricerca dei valori quella che si dipana sulla pagina e che corrode come acido quando il genio poetico è in azione! Passaggi sorprendenti dalla sala operatoria alla sala cinematografica. Dall’organico al meccanico. Dove malattia del corpo umano è per estensione malattia del corpo sociale, assunto nella forma dell’immaginario collettivo o anche forma prescrittiva delle sue regole e dei suoi divieti: “ non riesco ancora a capire i divieti sulle sponde dei laghi” e “compio leggere deviazioni dalla norma”. Da questo deposito d’immagini che si forma sulla pagina, se sono rese esplicite le modalità di collegamento tra le varie forme di conoscenza prodotte dal pensiero, dalle percezioni e dalle immagini, resta peraltro altrettanto evidente il piano non omologabile, falsamente relato, almeno relato arbitrariamente, che introduce alla libertà, operando il passaggio tra un soffocante io, una soffocante collettività, e l’apertura stessa, tutta da sentire e pensare e vedere, fosse pure in assenza!
lftb
nonostante le ore spese provano a trovare lemmi,
captatio, ulne che macchiano le dita, materia per discorrere
di apparenze, fill in the blanks. urla: sono meduse e sono
dentro ai demos, poi soltanto filo, spinano l’urna, la carcassa
che conosceranno: escono dal tempo speso, tagliano filler
nella cartilagine, risulteranno come scarti da ciò che resta
nel vano della bestia, tirati via dal ventre, trasmessi dentro
ai tubuli, rimasti freddi nel contatto: carne bleu
perchè vediate, deviate dalla nuda consistenza, usando
il vostro fuoco se riuscite a credere sia giusto, se rimane
traccia sulla pelle, rash per cui qualcuno addenta roba
erosa dallo sfondo: che lo crediate giusto perchè si deve,
si vede controluce mentre ora, content, ancora contro,
lei resta muta, è assente, non può sentirvi.
dispose
parte la guerra dentro un margine di fuga, per dove manca,
sarà forse il marker del sangue che non c'era prima, preso
dentro a fare sfogo di se stesso. prendono a non guardare
più nel primer dello specchio: quello che resta è solo guerra
quando se ne andranno, pregando che tutto sia finzione,
disposti al ritiro degli assalti laterali. hanno una funzione:
arrivano diretti alle sorgenti radio, al solo prezzo reso
ormai possibile. passerà, dalla capienza al taglio netto
col presente; passerà, se dai terreni di coltura provano
il rilascio dei batteri, battery, catalizzando i resti dove
niente potrà essere di nuovo; passerà: circonderanno
le pianure per emettere un segnale, conosceranno
meglio la condensa dei campi, la frequenza dei carri,
ed archi, arches, protesi a fare voti irradieranno punti
vitali e non dissimili da gabbie, gathering. passerà, come
una spiegazione a caro prezzo, verrà per liberarci
di ogni cosa. funziona, per impulso, in ogni storia.
Daniele Bellomi (1988). Suoi testi, online, su “GAMMM”, “Nazione Indiana” e altri; in rivista, su “il verri” e “Trivio”. Vincitore del Premio “Opera Prima 2013”, pubblica il suo primo libro “Ripartizione della volta” coedito da Anterem edizioni e Cierre grafica.
Gian Paolo Guerini ci presenta una raccolta di duecento paragrafi, apparentemente in prosa, chiedendoci espressamente di considerare l’opera come un poema, dove ogni paragrafo, di diversa lunghezza per numero di righe, è un verso. Dunque un’architettura unitaria, non per visibilità, ma per composizione. Certo, non è cosa infrequente, oggi, nel panorama poetico che si apre a nuove sperimentazioni formali e sostanziali, proporre testi che si staccano dalla tradizione formale e sostanziale, comprese quelle d’avanguardia, e così anche in questo caso, l’intitolazione a “poema”, ha le sue specifiche implicazioni. Intanto non ne ha la struttura, né tradizionale né in variazione codificata o anarchicamente variabile, mentre si presenta con un sottotitolo, verificabile e vero, ma fortemente ironico.
Dunque l’intenzione dell’autore sembra appartenere a una sperimentazione complessiva della struttura e del senso pensante, incarnata in un’opera che deforma la significazione, ma senza toccare la grammatica o rompere la sintassi o il lessico. Sposta invece, in direzioni inedite, il sommovimento del dire nella sua comprensione intersoggettiva. E in merito al dire – in sé, come qualità fondante il sentire della scrittura poeta, e nelle specifiche modalità in cui si snoda questa raccolta – Guerini scrive:”...a volte è come una malattia...un’ossessione che non ti lascia mai la mente libera...”. Siamo, come si vede, dentro l’ascolto profondo di ciò che la scrittura sente; quindi all’interno della percezione propria del segno poetico. Un segno, inciso e corporeo, particolarmente speciale, che disorienta e ammutolisce un lettore che vi cerchi agganci semantici nominalmente riconoscibili. E ciò perché in questa raccolta tutto il discorso è su un piano di significazione altamente dislocato e disorientante, sia nei confronti dell’ordinaria misura del discorso sia rispetto a una lingua sensitivamente mossa come quella di ogni forma di poesia.
Ogni verso-paragrafo è una particella di concretezza surreale, che dà all’insieme l’aspetto interiore di una figura deformata, senza che questo impedisca però di proiettarsi all’esterno con naturalezza. L’ordine sequenziale propone e spesso imbriglia una selettività di motivi interni di ardua lettura. Un’oscurità necessaria però: perché dal suo interno lascia filtrare una luminescente nebulosa di sensi, che punteggiano un percorso, lampeggiando in direzioni inusitate ma percorribili.
E un’indicazione precisa della poetica di Guerini ci viene dal titolo di questa raccolta: Un attimo prima di desiderare, dove la mente poetica si trova in uno stato di coscienza e di presenza autoriflessiva, ma orientata verso il bordo e in procinto di un passo ulteriore. Un avvicinamento al baratro dove la parola perde suono, ma anche un avvicinamento al vuoto, che risucchia scombina e riporta a nuova vita i tratti distintivi significanti. Guerini ci dice che la scrittura è certamente un atto desiderante, ma che, mostrando la sua incompletezza, non può risolversi nel gesto desiderato: pur non raggiunto, ma sempre in tensione congiunta. Anche là dove affronta la contraddizione, o la nevrosi, che intimamente scombina la normale, prefigurata e comunemente sentita, come vitale alla poesia, realizzazione della pagina scritta. E infatti al quindicesimo verso scrive: ”Nell’attimo in cui le parole si sentono svanire, quale disdetta per loro, incarnarsi nel testo”. Ma nonostante questo, il poema, con estrema allucinata lucidità, continua. Vi si trovano motivi parabolici, vicini all’illuminazione zen, di de-significazione, sottrazione, diluizione, dissuasione del senso; momenti che sfiorano una lirica malinconia (...una nuvola in corsa sa sempre dove vanno i corpi nudi a chiudere gli occhi); elencazioni: motti, detti, quasi proverbi epifanici e cerebrali, che contengono, per inciso, frasi che inutilmente tentano di raddrizzarne il senso (nel languore, (le mattine a letto, senza rumori per strada, solo il ricordo della risacca mentre contemplo la neve che scende) l’ordito sopito polverizza l’insolenza); la lista dei venti che in scrittura soffiano con allitterazioni e rime, fonosimbolismi assonanti, consonanti, risonanti, che improvvisamente diventa bottoni, asole, isole e relitti che dialogano fino a diradare il loro dire, “eterni con la paura di non durare e immediati con il desiderio di svanire.">
***
Si prova sempre a limitare l’imitare. Per esempio, parlando del tempo: “Come
l’arsura che chiede d’essere placata, un sorso è la cucitura d’una camicia
annodata ai fianchi, d’una stesa tra il bucato in fiamme all’incrocio dei
venti: quello che si dice e quello che si tace fanno i giorni, e come i giorni
fanno la vita, gli istanti persi sono ritrovati, nei giorni andati e in quelli a
venire; qui, ora, può essere il passo che faccio verso di me; perché ogni
passo avanti è un passo in meno”. Ma ci si casca sempre: data per
definitiva la speranza, ci si arrabatta con le parole, come se potessero
parlarci.
O parlando di naufragi: “Nell’attimo in cui le parole si sentono svanire, quale
disdetta, per loro, incarnarsi testo. La parola scandaglia la sua cavità, in
bilico tra afasia e alienazione. Interrompe un passo e irrompe in un
sentiero inaffrontabile, gode prima di desiderare”.
Eppure, non posso dire di non avergli creduto, solo che ho ceduto alle lusinghe
dei libri, credendo di poterci trovare qualcosa che fosse qualcosa in più al
qualcosa che si incontra ad esempio nel tamponamento di un furgone
portavalori o a una pedalata tra la neve.
Per una lettura integrale dell'opera: http://www.gianpaologuerini.it/20_un_attimo_prima/pdf/un_attimo_prima_di_desiderare.pdf
Nota biografica di Gian Paolo Guerini
Maurits Cornelis Escher “con elevato virtuosismo tecnico” realizza le sue note illusioni spaziali, Giovanni Campi, almeno nella prima parte di Tetragone m’usi che musica non m’usa propone analoghe illusioni (non compiute illusioni verbali, però): Man mano che varcava la soglia, da cui n’era varcato, non sapeva più dire fosse dentro o fuori, ecc.
Insieme ad Escher arrivano sulla pagina tutti gli altri “indiziati”: Alice nello specchio, Le città invisibili e I destini incrociati, Samuel B. con il suo guscio pieno di vuoto, gli Angeli Sterminatori, la Tempesta, e Allen/Urlo...tutti insieme Padreterno e Figuranti a dire, sopra le righe, una geometrica celeste preghiera senza soluzione di continuità di notte il giorno…un quadro d’insieme ma senza insieme…
tetr’agone m’usi che musica non m’usa
Il Signore era ai quattro lati d’una figura che potremmo definire come un teatro da burattini, ma senza piú burattini né burattinajo, o come uno scacchiere, o scacchiera, ma senza piú pezzi: le torri, cadute, e no, né re né regine, né manco nel c’era una volta; del cavallo nulla, se non la mossa, ma no, nessuna mossa né altro da fare.
Agli angoli, avanti a sé, o dietro di, i pezzi di quella grantorre e di questa, la minuta. Come se la partita finita da sempre non fosse per altro mai stata giocata, erano pezzi del resto delle torri cadute, pezzi fatti a pezzi, rovine. Tra i resti di nulla ne immaginava alcuni come porte. Man mano che varcava la soglia, da cui n’era varcato, non sapeva piú ove fosse: se dentro o fuori. Qualora dentro, gli si diceva d’uscire. Qualora fuori, d’entrare. Talora si pensava dentro e fuori insieme, o fuor di sé e ritornato in sé; talaltra, riuscitone fuori senza per altro riuscire ad alcun ché. C’erano, ora li vedeva, gli occhi volti indietro, avanti, il passato da venire, avvenuto, e cosí il futuro, c’erano, ora li vedeva, altri resti, altre rovine: pezzi di scale, non tutti i gradini, no, solo alcuni, solo parti. Man mano che d’un grado saliva, man mano che d’un grado scendeva, non sapeva piú ove fosse: se sopra o sotto. Qualora sotto, gli si diceva di salire. Qualora sopra, di scendere. Talora si pensava sopra e sotto insieme. Senza soluzione di continuità di notte il giorno del, di giorno la notte del: si destava al sogno d’un quadro d’insieme ma senza insieme, luogo & tempo ora mai comuni, quasi la memoria, non facendosi storia, fosse disfatta in storie senza storia. Nel corpo a corpo d’anime animate in agoni d’agonía, forse già morte, forse mai nate, si destava al destarsi d’esse, anime dal corpus esangue che langue al presente dell’assenza; anime di ricomposte lame che, fredde, fredda d’un colpo d’una e tutte le colpe; animelame che, diacce, diaccia di tutte e una colpa, d’un colpo ferite, d’inferire nel conto alla rovescia: tre, due, uno, zero prima della fine, prima dell’inizio nel diritto del rovescio, nel diritto a uno, due, tre.
L’ultimo desiderio, prima della fine. Prima della fine del desiderio, non desiderare alcunché, che non possa finire, né possa finire di desiderare ancora. Ancora.
L’ultima parola, prima della fine. Prima della fine delle parole, non dire alcunché, che non possa finire, né possa finire di dire ancora. Ancora.
Ancora, prima dell’inizio. Prima dell’inizio del desiderio, non desiderare alcunché, che non possa iniziare, né possa iniziare a finire il desiderio. Prima dell’inizio delle parole, non dire alcunché, che non possa iniziare, né possa iniziare a finire di dire, di nuovo. Di nuovo.
Di nuovo si destò al sogno d’una rivelazione, ma senza averne memoria, se non come d’una profezia da inverarsi ancora o non piú, senza averne percezione, se non come d’un’oscura chiaroveggenza: ai quattro angoli della terra, questo guscio pieno di vuoto, quattro angeli o custodi. Forse, da un lato, gli angeli custodi, uno per ogni torre assegnata non si sa da chi, da custodire, e, dall’altro, gli angeli sterminatori, uno per ogni torre assegnata si sa da chi, da sterminare; forse i custodi della porta cui chiedere d’entrare, cui chiedere d’uscire, forse i custodi della scala, cui chiedere di salire, cui chiedere di scendere. Eventi rilasciavano e venti trattenevano, o, al contrario, il granvento del destino avanti ventava ad essi adesso, o ad uno soltanto; forse l’uno non era affatto uno d’essi, non era uno di nessuno, o sí, era uno di nessuno. Era ora il tempo ch’era stato: una tempesta, tradotta parola tradita dall’accento diviso, acuto senz’acuzie, grave senza gravità, suonosilenzio; una tempesta, tradita parola tradotta dall’accento gravido d’ogni ordine & significato, sí, ma avvolto nella volta del cielo in ogni disordine & gradus ad, in una e piú strofe all’ingiú volte, volte all’insú: una catastrofe, e piú. Nel cielo, la volta e i veli penduli nella volta di bocche spalancate dall’urgenza posteriore all’ultima preghiera erano sono e urlo, da disvelare e rivelare; saranno il nomade nome dell’ade, la monade d’abitare, da cui essere abitati, nella spiega da spiegare, dispiegare, ripiegare, a ché il significato sia solo sfiorato, sia solo tocco e toccato: a ché mani lievi suonino, d’uno strumento fatto di vento, una musica di gratia per ogni disgrazia. Era ora il tempo ch’era stato futuro: una tempesta, detta progresso. Era ora il tempo che sarà passato: una tempesta, detta regresso a infinito. Intanto che nel dolore implacabile ci si senta sentiti e che nel male incurabile ci si sappia saputi: per tutti i popoli oppressi, per tutti i morti, era ora il tempo che sarà per essere. (Pausa).
E che sarà? E che sarà mai? Sarà mai? Sarà ora? (Pausa). Sarà, ora, tempo? (Pausa).
(Tempo).
Giovanni Campi: suoi testi sono in rete (La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, Carte Sensibili, Poetarum Silva, Versante Ripido, etc.) e in varie antologie; vincitore della settima edizione del premio MAZZACURATI-RUSSO, il suo libro d’esordio è il dialogo "l'irragionevole prova del nove" per i tipi della Smasher Edizioni nella collana "orme di teatro".
La lingua poetica di Annamaria Ferramosca è complessa e poco prevedibile, fondata sulle intrusioni, di forma e di senso: “…forme disperse disperate da deportare/in fili d’aria files” ma anche: “nascita che ritarda ancora/grido che non erompe/eppure ogni istante si rompono le acque/e terre dilavano in diluvio”.
C’è in molti dei testi un solido principio di necessità, posizionato all’inizio delle strofe, da cui la strofa stessa si sviluppa, allontanandosene a spirale, aumentando mano a mano lo spessore evocativo, per poi chiudere con un repentino riavvicinamento verso il mondo reale: “neve parola bianca/delicato peso che dice/l’usura della terra e preme/piano preme sui rami/per infinite lentezze da vendicare/-tonfi sulle auto lasciate sotto i pini-“.
E c’è un gentile e misuratissimo senso del dramma, mentre descrive di questo assalto caotico della vita, di questo di allarme perenne di cui siamo tutti oggetto, configurando perfino una qualche forma plausibile di redenzione: “…forse soltanto allora potremo raccontare/di atlantidi affiorate/di infiniti modi per sprofondare/uno per riemergere”.
Dalla sezione “Urti gentili”
***
mai più riproducibile o seriale
questa lingua vorrebbe solo arti-colare
bellezza tornare alla prima neve
all’origine sillabica del fiume
puro occhio
con la lingua vorrei solo esultare
soffrire delle cose sulle cose far luce
anche feroce - sventagliando laser -
o velarle le cose di compassione
coprirle scoprirle interrogarle
romperle corromperle
ammalarle infettandomi guarire
restandomi nella voce – irrimediabili –
i segni del contagio e della cura
Dalla sezione “Ciclica”
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scavo a mani nude negli angoli
avida dietro vite minuscole
sul fondo la finitezza che disàncora
ci sarà un punto segreto su cui far leva
dove affondano le radici
si assestano le fondamenta
termine di terracielo confine limpido
dove culmina la vertigine ammicca il démone
da cui spiccare il volo
nella chiarità o nell’abisso?
Annamaria Ferramosca, salentina di origine, da molti anni vive e lavora a Roma. E’stata per alcuni anni cultrice di Letteratura italiana all’Università Roma3. Fa parte della redazione del portalepoesia2punto0.com, dove da alcuni anni è curatrice della rubrica non autoreferenzialePoesia Condivisa da lei ideata>. Ha presieduto il Premio di Poesia De Palchi- Raiziss e fatto parte della giuria del Premio Davide Maria Turoldo e del Premio Don Milani.
Ha pubblicato in poesia:Il versante vero, Fermenti, 1999;Porte di terra dormo, Dialogo Libri, 2001;Porte / Doors, Edizioni del Leone, 2002, traduzione inglese di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti; Curve di livello, Marsilio, collana elleffe a cura di Cesare Ruffato, 2006;Paso Doble, Empiria, 2006, raccolta di “dual poems”> (poesie bilingui a quattro mani), coautrice Anamaría Crowe Serrano, con traduzione inglese di Riccardo Duranti ;> Canti della prossimità, silloge contenuta in La Poesia Anima Mundi, monografia a cura di Gianmario Lucini,
punto acapo editrice, 2011(con cd audio); Other Signs Other Circles (Altri Segni, Altri Cerchi ), raccolta antologica di poesie 1990-2009, Chelsea Editions,New York, collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, 2009, Introduzione e Traduzione di A. Crowe Serrano.
Nell’evaporazione dei sensi
È alla ricerca di una forma che non abbia forma, nella decomposizione della materia e nella dispersione dei sensi, la versificazione rarefatta di Loredana Lacroix-Prete in “Aeriforme”.
Come l’evaporazione di una sostanza allo stato gassoso o di vapore, tutta la vasta gamma di sensi e sentimenti che l’autrice mette in gioco, nel loro tendere alla rarefazione, parte da un punto di ebollizione sottostante.
I sensi hanno attraversato la terra e stati si direbbe di ebbrezza e ora l’udito si esprime, come leggiamo, attraverso “sfiniti / gemiti”, “sordi / battiti”, “suono / vacuo”, la vista in “rifrazioni // occhi / dilatati”, l’odorato in “incogniti / odori” e “sazie narici”, così come “evaporano / emozioni / di / scintille / vacue”.
La ricchezza delle percezioni sensoriali è scarnificata da Loredana Lacroix-Prete con aggettivazioni che spostano la terrestrità dei sensi all’assenza di forma propria dell’aria, l’eliminazione formale di articoli e preposizioni e la disposizione del testo contribuiscono a denotare la disidratazione del senso.
Senza, però, dimenticare che l’aria non è solo informe rarefazione ma anche principio vitale: se da un lato l’autrice evidenzia la “necessità di dissolversi”, dall’altro non può fare a meno di richiamare, pur nel mutismo della voce, ciò che “espande / di / infinite / forme / passione / morde / debordante / fiamma / cerca / respiro”.
1.
sazie narici
smembrano
coralli
invadono
nuclei
rotola
aria
mesce
vapore
6.
c o n t r a p p e s i
finzioni
irrigidiscono
membra
disseccata
e s s e n z a
imporpora
fluttuazioni
scarnite
10.
come onda
informe/sdrucciola
su
timpano
sigillo
gravidi
posticci
inverni
infervora
aria
insani umori
Loredana Lacroix-Prete è nata a Brindisi.
Le sue poesie sono decomposizione, immagini, frammenti, ricordi che s’inseguono in battere e levare, in un tempo monotono. La staticità di questo quattro quarti scandisce la dinamicità.
Aeriforme fa parte di un progetto di scrittura sugli stati della materia.
La sua prima raccolta pubblicata è Liquido (2014).
Blanchot in esergo ci ammonisce, ammonisce tutti gli umani che “non sanno nulla dell’immensa disfatta verso cui vanno, ignari di se stessi”.
Gregorio Tenti, mediante la scrittura severamente controllata di questo poemetto tripartito, partendo da molto lontano, dove tutto è interno a tutto, ci porta poco a poco, attraverso quelle terre trapassate nel profondo e proseguendo il viaggio verso le bianche carcasse di eterno, a condividere il nostro destino prefigurato da Blanchot.
Fino alla stazione ultima, nel terzo tempo del poema, quello della risalita. Qui infatti partiremo di buon’ora e arriveremo / senza che il sole cali, sicuramente verso i luoghi di nuove superfici per la parola, probabilmente dentro l’ultima incertezza o verso l’inaspettato.
Qui il poetico sovverte le convenzioni. L’atto del poeta ancora una volta esprime la sua unicità, rivendica il diritto di innalzare alte difese contro il rapido decadimento di ogni cosa.
Quanto circonda un poeta può essere abisso oppure incanto: ovvero, ripensando al testo di Tenti, incanto dell’abisso.
Nota biografica di Gregorio Tenti
Non sanno nulla dell'immensa disfatta verso cui vanno, ignari di se stessi, nel brusio monotono dei loro passi sempre più rapidi che li portano impersonalmente con un grande movimento immobile. (…) Ma la caduta è forse questo, il non poter più essere un destino personale, ma la sorte di ciascuno in tutti.
Maurice Blanchot
I.
dalle intestina ci stringiamo al sole, noi lo siamo tutto è interno a tutto
verosimilmente una solarità invernale che resiste nuda a occhio umano, l’alleanza o ancora quel calore
che si vede concrescere al sole ampio delle sue grinze. le costole partoriscono alle folle
le tribù dai polmoni pieni di carne tengono l’estinto stretto per le sue resine - e noi generosi e scoscesi restiamo assolti ad altro intendere, interni ad altro parlare: uno stesso fiato dice di noi, vicini; di sé, della voce.
quella tessitura quel perlaceo digitare sarà materia di queste terre, le strade e le occasioni, quando sarà finito, diranno solo della nostra sparizione ne saremo portati come acque
per le parti quiete e le altre gravità
che causano persone - e riposate corna imbiancate -
il corallo sordo lappa ogni precauzione
e tu la veneri in saggi frammenti
non sia però questo riflesso impugnato non sia nulla, nonostante tu sia
mosso nel sole, da quando
sai di essere cieco, non visto altrove.
la città ha dieci ali di meshnet su cui far correre altri desideri. la chela dell’aria ci dissemina.
i senza vento gridano dai territori giunturali il canto immobile delle api immobili.
II.
Spinoza ebbe un figlio dalle viscere del mondo dai suoi
piedi luminosi - quelle terre trapassate nel profondo
dalle navi senza ventre; punisci ora te ne prego
i fiumi che il silenzio ha fatto cosa sola con le loro
cuciture. potremo, come dolci navigazioni allora
essere della pelle del mare
potremo rendere al sole le nostre schiene arcuate
ad ogni messa in acqua mattutina. ora non
abbiamo mani per proseguire
i fili delle nostre dita, la cruda terra che occorre
alle narici, la Qasba il favo aberrante
siamo gusci che vivono. ma ad ogni poro
una pista senza destinazione, il calibro
di tutta una vita.
andiamo lungo le bianche
carcasse di eterno - e loro cantano all’unisono
della cecità sottratta
che l’amicizia prenda le condotte
che maceri gli antichi minatori, dicono. ora
il soccorso invade e non passa.
III.
un giorno saremo in superficie, lì le cose
vanno meglio. incontreremo
tutti i vicini assieme, il loro torace immenso
che si articola e non saremo soli
un giorno dovremo andare.
partiremo di buon’ora e arriveremo
senza che il sole cali. lasceremo le stanze
aperte e le pareti dei nostri bunker piovosi; ci sarà chiesto di
dimenticare, lo faremo… in macchina
mi chiederai di cosa vivremo.
potremo anche morire, lo sai,
ma sarà facile. resteremo.
Là dove tutto dorme sgorga come latte un getto sincero di coscienza, là dove è veglia affiora come automa il flusso misterioso di un canto. Le sonnambule sono creature che abitano l’interstizio profondo tra questi due stati. Vanno tentoni, cieche e visionarie, ricercano cenni e segmenti nell’ignoto, mentre con lento movimento il passo incede. Trasportano energia estetica necessaria alla propria esperienza, veicolano corpo e verso, il loro stato di trance decifra e genera enigmi.
L’arte, come forma di sonnambulismo consapevole, libera e trasmette un flusso guida, una voce fuori campo sempre in bilico che attraversa e che attraversiamo: per causa di, grazie a, nonostante, malgrado, al di là di. Tutto.
Opere esposte alla mostra Fragili guerriere:
SONNAMBULA
Poesia visiva - Acquerello su carta da disegno stampata – 2015
SONNAMBULA
Poesia tridimensionale - Uniposca su Lego - 2015
SONNAMBULA
Intervento su quadro recuperato - 2015