Trent’anni fa nasceva il Premio Lorenzo Montano.
Il passare delle epoche porta con sé mutazioni, smarrimenti, nuove possibilità. Anche per la scrittura. La vita letteraria, nelle sue varie manifestazioni, in questo trentennio è molto cambiata.
Piacevole è riconoscere che anche nel nostro tempo, proprio quello di adesso, la qualità della poesia rimane intatta: questo testimoniano poeti e prosatori presenti nel nuovo numero di “Carte nel Vento”, tutti introdotti dalla redazione di “Anterem”, selezionati dalla scorsa edizione del Premio.
Nel mutamento delle epoche restano intatte molte questioni legate alla poesia: riesce a raggiungere la meta che indica, riesce a colmare il vuoto che racconta, riesce a seguire i richiami che capta?
Nel cambiamento dei mezzi comunicativi rimane intatta la densità delle opere: forse il miglior viatico per il 30° “Montano”, a cui invitiamo poeti e prosatori per proseguire questa lunga storia.
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Il filo che lega queste testi in un poemetto che, fin dalle prime parole, evidenzia una sua lenta e dolente osservazione e interrogazione, inizia da una notazione storica: il calendario azteco che chiudeva l’anno con una coda di cinque giorni, detti nemontemi, da cui il titolo dell’opera, che oscuravano e quasi bloccavano la vita e le attività umane fino al nuovo e rassicurante inizio d’anno. Questo è il luogo metaforico, ma concreto e denso di sostanza, in cui l’autore immerge il suo soliloquio: fatto di parole che sembrano un mormorio di precisazioni malinconiche, un percorso ondulante, morbido, una lenta marea dove la tensione di una tristezza chiusa si avverte sia nelle notazioni esteriori sia nei passaggi interni, lì dove la misura del vedere, del pensare e del sentire “vibra e trema a ogni passo”. E scegliere un luogo temporale di sospensione e paura come centro propulsore della propria scrittura è già di per sé una scelta poetica, perché va ad immergersi e alimentarsi nelle passioni umane che faticano ad uscire e si intorbidano, e spingono prima ancora di aver detto ciò che si incaricherà la poesia di dire. Il lavoro della lingua poetica, con le sue proprietà di espansione e compressione, è l’unico in grado di crescere, imprimersi e liberarsi come forma di vita. E lo fa con un andamento continuo, come se scivolasse in un magma, ma senza cercare agganci per fermarsi.
Nel poemetto c’è un tu, c’è un io e c’è un noi, ma si ha la sensazione che questa intersoggettività sia soltanto un’illusione: quella di chi vuole e sa di interloquire con il mondo, ma questo, invece, altro non è se non il riverbero di un vuoto un “immaginarci senza”. Ed è in questa zona ancora indefinita che Giuseppe Nava entra: tra inquietudini che sembrano non avere né principio né fine, ma un incessante movimento centrale: un gorgo in cui i sentimenti, le emozioni, le visioni, le domande e le frasi stesse che scrivono questo affondano, e risalgono senza boccheggiare, come se respirassero anche sotto o non respirassero affatto. Oppure sembrano svolgersi da una matassa di suoni, di voci dove qualcosa si prende e si accoglie, ma anche qualcosa si lascia e si perde.
Qualcosa nel ricordo del perché si è qui: da quale segno, gesto o senso si arriva; “da quale testo mai scritto”, chiede il poema “abbiamo preso le parole” che ci conducono. Un perturbante insaputo avvolge quest’opera; e involge il lettore dentro l’assillo di un’oscurità senza riflesso alcuno; e nello stesso tempo lo coinvolge senza possibilità di sottrarsi. Perché questa poesia non vuole restrizioni intellettive, blocchi concettuali, ma solo pensosità: pulsazioni significanti che, nel fluire dei versi, prendono distanza come “particelle irrimediabili” stelle lontano che pulsano.
Un universo poetico il cui centro irradia le significazioni visive di un corpo di corpi attorcigliati: uno spazio guardato come si guarda un oggetto vivo ma quasi non umano. Infatti, se si osservano le parti che si intrecciano in linee rette o spezzate, in curve ripiegate o stese, il tutto appare percepito con una strana lontananza, taciuta o in atto di estinguersi “a ogni sonno”.
E’ questo che fa il poeta: scopre nell’esistente ordinario un disordine creativo che non combacia e sborda, rimodulando il segno emozionale e conoscitivo. E lo fa con la consapevolezza (a volte inspiegabilmente incosciente) che la frantumazione del visibile e il suo scivolamento in anfratti invisibili, non ancora detti ma temuti, serve a “sorreggere il passo verso il nulla” : dove le cose emergono in forma e senso indistinti. Lì, in quel luogo di timore e in quel tempo di vacuità, Giuseppe Nava trova e ci esorta a trovare la parola giusta: quella che chiama piano e quasi viene inghiottita prima di essere detta, eppure dice e parla “oltre le ombre che noi siamo”.
***
se ne va il veleno a poco a poco
da quei cinque giorni innominabili
si sposta l’asse delle cose amate e dà vertigine
per noi che ci vediamo nello specchio che fuma
si raggrumano risposte, si staccano le croste
dalla pelle tatuata, si incide la ferita
e si succhia via il veleno, a poco a poco,
non fa male dici, ma l’anno nuovo
deve ancora incominciare
***
cose, mi hai detto, che ho colto tra le spugne del sonno,
cose mai dette, infilate a forza in una ragione,
circoscritte allo schema, ridotte all’etichetta consueta
delle stagioni e le loro promesse, cose, che scivolano via
se l’incoscienza delle forme dona grucce o stampelle
a sorreggere il passo verso il nulla, cose,
che l’inciampo lascia a terra a sanguinare,
e con il sangue disegnarne la memoria che ogni volta
mi scuote la testa in una smorfia, un tic, un no
detto ad alta voce
***
abbi cura di cancellare ogni traccia
i nomi le firme i numeri, confondere le prove e i residui
senza spezzare i rami, camminando all’indietro come gli indiani
sugli stessi passi, sulle impronte, fino a sparire
nel folto dell’ombra
Giuseppe Nava è nato a Lecco nel 1981 e vive a Trieste. Ha pubblicato Un passo indietro (LietoColle 2009) e Esecuzioni (Edizioni d'If 2013, Premio Mazzacurati-Russo). Tra il 2010 e il 2013 suoi testi sono stati pubblicati sulla rivista «Inpensiero» e, in rete, su Absoluteville, Poetarum Silva, Nazione Indiana. Ha curato (con M. Cohen, V. Cuccaroni, R. Renzi, C. Sinicco) l'antologia di poesia dialettale L’Italia a pezzi (Gwynplaine 2014). È redattore delle riviste «Bollettino ‘900» e «Argo». Dal 2012 collabora all’organizzazione del Trieste International Poetry Slam.
Un indicibile bersaglio
Con “Tu che non esisti”, Franco Falasca propone un componimento il cui evidente espressionismo sembra quasi sconfinare nella vera e propria invettiva.
La parola è uno strumento e, usata in una certa maniera, può assumere l’aspetto di un’arma o, comunque, di un proiettile lanciato contro qualcosa o qualcuno.
Verrebbe da pensare contro quel “Tu che non esisti” con cui si apre la poesia, ma, a dire il vero, l’individuare con precisione il bersaglio non pare l’intento del poeta e, dunque, non deve essere quello del lettore.
Tre versi, in particolare, hanno suscitato il mio interesse:
“immerso nelle viscere delle distanze
lontane come l’infinito misurato da un metro
da sartoria”.
Pronuncia non estranea a un surrealismo che definirei esistenziale per il bagaglio di difficoltà del vivere che porta con sé: il poeta si sente sprofondato entro “viscere delle distanze” lontane e non assoggettabili ad alcun tipo di misurazione.
O meglio, di misurazione comunemente accettata, poiché, se al “metro da sartoria” si sostituisse un altro strumento, forse potrebbero emergere alcune connessioni utili a far uscire il Nostro dallo stato d’inquietudine in cui si trova.
Anche la misura è un linguaggio e, a volte, occorre saper costruire modelli maggiormente adatti alla bisogna? Sì ma, in questo caso, quali?
Domanda che non può trovare risposta in un componimento il cui intento evidente è quello di porre un’assillante questione e non di risolverla.
Siamo dinanzi alla sincera testimonianza di un’umana trepidazione che, forse, proprio nel trovare uno sbocco nel dire poetico, trova la possibilità di non diventare assiduo (insopportabile) tormento.
Al penultimo verso, non a caso, Franco parla di una sua provocazione “da artista” che, a mio avviso, illumina un’insofferenza patita ma anche desiderosa di essere condivisa, nella convinzione che il comunicare le proprie sensazioni ed emozioni sia, più che un desiderio, un destino.
E all’umano destino il Nostro è certamente molto interessato.
Tu che non esisti
Tu che non esisti
che non hai voglie
che non hai spessore
che non hai luce
che non hai vigore
che non hai occhi
che sei questa luce assente
questa voglia di niente
che mi hai gettato in questa esperienza
di nulla
condito come un’insalata
credendo che io lo credessi
ma non l’ho creduto
non l’ho digerito
non l’ho vissuto
e ne chiedo il conto
di questa imbecillità responsabile
in questo nulla di fronte a te
che sei il nulla ed il buio assoluto
in questo tentativo di far nascere
qualcosa da qualcosa
che io non ho creduto e che tu non credi
e non vedi
e non annusi
in un turbine di fumo carbone ed ossa
immerso nelle viscere delle distanze
lontane come l’infinito misurato da un metro
da sartoria
ossessionato da sentimenti inesistenti
da inesistenti palpebre
da inesistenti voglie
imbecillità pulsante
restituiscimi altra luce ed altra ragione
o genio vigliacco ed
imbroglione cosmico
che ridi alle spalle
seduto al bordo di immense materie
su cuscini di morbidi atomi
vomitando teorie di questa cloaca
che la coscienza sbrinata
smembra come cellulosa umida
di cui so godere
ma lontano
che so scrutare senza sguardo
che vedo con nitidezza
assente
che adoro inesistente
che assumo da imbecille
che derido da genio
che aspiro da spaurito
che temo da ignorante
che venero da retore
che denigro da uomo
che calpesto da animale
che inseguo da giovane
che annuso da filosofo
che descrivo da poeta
che aggiro da amante
che soppeso da venditore
che spremo alla pari
che disprezzo da vendicatore
che imito da religioso
che mimo da malato
che introietto da attore
che ignoro da figlio
che provoco da artista
che esalto da scienziato.
Franco FALASCA
Nato a Civita Castellana (VT), vive a Roma. Ha prodotto, oltre a poesie e racconti, anche poesie visive, films super 8, video, fotografie, performances. Ha organizzato rassegne e manifestazioni.
Nel 1973 fonda (con Carlo Maurizio Benveduti e Tullio Catalano) l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva con cui collabora fino al 1979; partecipa come artista alla Biennale di Venezia 1976. Suoi testi e materiali vari sono stati pubblicati, oltre che nei cataloghi delle mostre alle quali ha partecipato, anche su varie riviste ed antologie e nei volumi:
UFFICIO PER LA IMMAGINAZIONE PREVENTIVA <file:///F:\web\francofalasca\uip\uip.htm> (con Tullio Catalano e Carlo Maurizio Benveduti) - a cura di Filiberto Menna, Massimo Marani Editore, Roma, 1976
"UNA CASA NEL BOSCO - Prose e racconti", Edizioni Latium/Ouasar, Roma, 1990, vincitore del Premio Letterario Orient-Express 1990“NATURE IMPROPRIE (poesie 1976-2000)”, Fabio D'Ambrosio Editore, Milano, 2004, vincitore del Premio di Poesia Lorenzo Montano XIX edizione (2004-2005) della Provincia di Verona
“LA FELICITA E LE ABERRAZIONI (poesie 2001-2010)”, Fabio D'Ambrosio Editore, Milano, 2011
Il protagonista del racconto di Stefania Negro è un pittore. È un artista che si affida alla molteplicità dei colori per interpretare il mondo. Ma la vita gli riserva una sorpresa. A causa di un danno cerebrale la visione del mondo diventa improvvisamente in bianco e nero. Le foglie che cadono si sono trasformate in leggeri fiocchi di neve. Il mondo sembra sfuggire a ogni definizione. Ma a questa sorpresa se ne aggiunge un’altra. Pur essendo la realtà priva di colori, il “sentire” non è mutato. Non è cambiata la percezione delle cose.
La lezione qual è? La lezione è che non sono necessari i colori per immergersi nella realtà, per riunirsi con l’arché, per confondersi con la matrice originaria, per transitare nell’essenza delle cose. Non importano gli strumenti, non importano le modalità della vista, così come non contano le qualità del tatto e degli altri sensi. Ciò che conta è il “sentire”. E le modalità del sentire sono immutabili.
Brandelli spaziali, frammenti temporali del mondo li possiamo cogliere indipendentemente dalla qualità dei sensi. Nella loro complessità li possiamo percepire sempre e comunque nel fondo dello specchio mentale. È ciò che fa registrare a Kafka: «Sono grigio come la cenere. Desidero scomparire tra le pietre». Insomma, è necessario prendere coscienza dell’inutilità degli “strumenti” nella percezione. È come vedere dopo aver cercato semplicemente di scorgere.
Guai all’abbandonarsi alla cieca fiducia dei dati forniti dalla qualità dei sensi. All’origine del rapporto di scambio fra soggetto e mondo c’è l’alleanza fra sentimento e pensiero. Stefania Negro ci dimostra che è proprio a questo punto che i colori perdono la parola e la lasciano al sentimento.
IL PITTORE DEI COLORI
La luce anima il mio sguardo. C’è una fierezza nei colori che si diffondono come miele , è vita dissipata nelle forme ed è una grande energia di trasformazione e di divenire che non ha una precisa definizione. Ora vedo l’albeggiare, la luce che si confonde e si conchiude nella brina e il volo di questo mirabile uccello, con le piume striate, che si libra in alto. Questo è nettare, nettare di vita, questa vita che si consuma nella dissipazione, odio, certezza, incertezza, trama, voluttà, mistificazione, bisogno, necessità, tolleranza, comunione … vorrei essere proprio quel dispiegamento d’ali, provare la vertigine … ordire l’impossibile, significare l’essere … eppure se sono qui è già realizzata la mia piccola infinita partecipazione al mondo. Voglio che questa cifra d’essere si rappresenti nella tela, voglio che sia significato, voglio che sia colore che scivoli ad oltranza sul margine infinito della forma, della radice ultima dei numeri concreti che si fanno astratti in arte sebbene tutto alla fine si riassume in un meraviglioso congegno di energie che prende origine dal caos e dal firmamento e si applica alla molecola e al quanto. Ora voglio essere io e far parte del tutto, ora voglio sentirmi il colore stesso dei miei dipinti. Rosso, rosso vermiglio perché così è la vita, il sangue, dono mirabile che ci scorre nelle vene, blu e nero come la notte e poi qualsiasi elemento cromatico che mi faccia partecipare all’essere. Esse est percipi diceva Berkeley. E non solo percepire ma soprattutto sentire, sentire, sentire ogni brivido sulla pelle. Ora voglio provare il brivido naturale dell’esserci e comprendere che ogni cosa ha una sua natura e una sua matrice, sentirmi come un fiume che scorre e nulla d’altro, come un fiume di colore per poterlo rappresentare. Voglio delineare il volo, l’istinto intimo di ogni creatura ad essere oltre eppure parte del tutto come una nota in una composizione musicale. I pennelli accarezzano la tela, i pennelli col colore imprimono l’esserci, lo spazio, il tempo, i pennelli danno la forma , i pennelli sono prolungamenti della mia esistenza, del mio sentire, dicono il mio sguardo sul mondo , rappresentano le mie emozioni forti, intense, insopportabili per il cuore e per la mente , insopportabili perché cariche di vita, talmente cariche da procurarmi dolori al petto e tachicardia, io sento e perché sento dipingo e i colori sono la manifestazione del mio esserci. Amo la vita, temo la vita, amo la vita ad oltranza nonostante il carico di delusioni e di amarezze infinite. I miei compagni di viaggio sono tutti coloro che sentono come me, oltraggiati dalle vicende umane ma difensori dei valori, nessuno respira e talvolta ansima la vita come coloro che più ne sono partecipi: artisti, folli, sognatori … ecco sognatori. Ebbene la vita è ciò che sogniamo o ciò che viviamo? Il nostro mondo interiore o l’esterno in cui siamo proiettati, a volte gettati come palle di un cannone. La tela non è che lo spazio bianco su cui si diffonde il mio sentire, sentire l’horror vacui a volte ma anche la pienezza d’esistere, la pienezza dell’esserci che alcune volte mordiamo con troppa forza come in attesa che il nostro spasimo diventi energia e l’energia evento, attimo in cui si produce la nostra vita.
Si rappresenta così il mio esserci: sulla tela.
Organizziamo le nostre vite ma l’imponderabile ci richiama continuamente al sentire che tutto è imperscrutabile.
Il colore è tutto, è la mia matrice d’essere.
Guardo la tela mentre penso e dipingo e vedo il diluvio del colore che straripa, che dirompe…
Lascio i pennelli. Prendo un caffè bollente ed esco in macchina per raggiungere il supermercato fuori città. La tangenziale è dritta e stranamente poco trafficata. Guido a velocità regolare vedendo l’asfalto scorrere innanzi a me senza sosta poi improvvisamente mi appare un’esplosione, sembra un fungo atomico. Non riesco a capire cosa stia accadendo. La testa mi fa male, è un male acutissimo. Accosto in un’area di servizio. Mi guardo intorno…….cosa accade? Tutto è così strano, strano veramente, tutto è senza colore. Solo bianco, nero e maledettissimo grigio.
Scendo dalla macchina e chiedo al benzinaio : “Ha visto l’esplosione?” “Quale esplosione?” risponde guardandomi stranito.
“ Quello strano fungo atomico…non vede non c’è più colore”.
“Guardi credo che lei non stia bene, non è accaduto nulla…”
Sono inferocito, mi sento preso in giro, mi guardo intorno e chiedo ad un passante, ad una donna che esce dal bar dell’area di servizio, ad un uomo grasso che sta fagocitando un panino. Tutti sono perplessi. Nulla, proprio nulla è accaduto. Qualcuno chiama un’ambulanza che non tarda ad arrivare.
Sono impietrito, sconvolto, incredulo, non ho spiegazioni. Non sono in grado di spiegare bene l’accaduto neanche ai medici del pronto soccorso.
Accertamenti, risonanze, tac, elettroencefalogramma.
La diagnosi. Un medico mi guarda e con voce calma e ferma mi dice che ho subito un danno nelle aree cerebrali corticali visive, le aree legate alla visione del colore. Altri danni cerebrali gravi non ce ne sono mi rassicura. Ci sono stati altri casi al mondo.
Una vita senza colore? Un realtà percepita solo attraverso sfumature di grigio? La legge del contrappasso? Il mio eccessivo amore per il colore…
E’ tutto così assurdo. Anche il silenzio è assordante. Cosa dipingerò ora? Uno spazio grigio, a volte nero, a volte bianco? Un’assenza? Un vuoto?
Una trappola enorme mi ha teso il destino. Ho sempre creduto di poter affrontare tutto, di sconfiggere la malasorte, basta volerlo dicevo a me stesso. Basta volerlo.
Mia moglie mi guarda dritto negli occhi, mi stringe le mani fra le sue senza dire nulla, non servono parole. La radio trasmette la mia musica preferita. La legna nel camino arde e fuori oltre la finestra cadono le foglie, sembrano neve, leggeri fiocchi di neve di un bianco accecante.
Chiudo gli occhi e provo a capire il senso di questo accadere.
Schiudo le ciglia, scopro che tutto è diverso, diverso da prima, senza colore, eguale invece è il mio sentire.
Stefania Negro (Lecce, 1965) è autrice di testi poetici, saggistici e critici. Incoraggiata nella sua ricerca poetica da Edmond Jabès, Andrea Zanzotto, Edoardo e Vera Cacciatore, esordisce nel 2007 con Fili di luce compresi negli archi del divenire (Cierre Grafica), con una riflessione critica di Bruno Moroncini. A Roma collabora con Empiria, tenendo conferenze e seguendo il lavoro redazionale della casa editrice. Si occupa di giornalismo e sceneggiatura. Un suo cortometraggio, realizzato con Corrado Franco e Sofia Volpe, giunge finalista al premio internazionale indetto da Cinecittà Internet Film Festival. Collabora con riviste specializzate, tra cui, in particolare, “l’immaginazione”. Un suo contributo teorico, Tutor nei corsi di formazione, è presente nel libro Le remore e il Titanic, vite precarie a scuola, a cura di Luca Antoccia, con prefazione di Tullio De Mauro. Nel 2009 pubblica il saggio filosofico-letterario Erranze nel divenire nella collana “Pensare la letteratura” di Anterem Edizioni. Sempre per Anterem, nello stesso anno esce la sua raccolta poetica La geometria della luce, nella collana “Limina”. La sua terza raccolta poetica appare nel 2011 con Manni Editori, raccolta con la quale partecipa a un reading di Italia Wave Festival, rilasciando un’intervista presente sul sito Rai (edizione Risonanze). Nel mese di luglio 2014 è uscita con Anterem Edizioni nella collana “Limina” la sua ultima raccolta di versi dal titolo “Oscillazioni”.
Che sia quasi esclusivamente una scrittura che abbia come suo orizzonte la meta- poesia, lo dimostra il fatto che in Il bollettino dei mari alla radio, di Marco Pacioni, qualsiasi dato empirico viene riportato alla sua rappresentazione sia letteraria sia visiva, e lo stesso titolo in qualche modo ne rappresenta la cifra: “e naviganti e pescherecci arrugginiti / lungo le coste italiche / e putti soffianti i nomi dei vènti / sulla carta geografica immaginata”. Una riflessione sulla poesia fatta con le vive voci dei poeti (i quali sono invitati a comparire sulla pagina con citazioni o intere poesie), la quale disegna una costellazione di riferimento. L’interesse è forte, dunque, anche verso una poesia polifonica, poiché, come afferma lo stesso Pacioni, il tu esiste prima dell’io. Ma è anche una riflessione che s’incarica di fare il punto sul medium, ancorché poi la poesia venga messa costantemente a confronto con l’opera d’arte. Si veda il richiamo al Pontormo: “stinge il colore / che a tratti / barbaglia / e sembra ridere nella figura / che scontorna”. Se “poesia è fatta per andare / non per restare / disperata allucinazione / paradiso artificiale”, alle immagini artistiche, nella silloge, è affidato un ruolo di puntello, di sostegno. La cartografia culturale che segna, tramite citazioni, i gangli di molteplici percorsi, definisce contemporaneamente, con puntualizzazioni concettuali una sorta di legenda, di memento, quasi una precettistica del ruolo dell’intellettuale (“schiarire il senso il vero”) da tenere a mente: “e la paura di sembrare loro / solo prima contro coro”, ma da sottoporre, anch’essa, a dubbio. Sebbene ci siano delle soglie, le quali, come in ogni vero sistema morale, non bisogna oltrepassare: “e no / non imparare mai / mai la lezione / l’eccezione il male minore / l’autorità necessaria / e il mercato che decide”. Il che, inevitabilmente, trascina con sé anche una critica della cultura, come quando Pacioni segna il baratro tra l’abolizione del limbo ”per gli infanti non battezzati” e il discrimine reale operato dai centri di accoglienza. La critica alla cultura è inevitabilmente critica al sistema sociale che la produce: “kit e brochure / di villaggio tour e colonia penale / per la vacanza / al tempo sospeso nell’evo capitale”. E, quando è presente la natura, lo è già in forma mediata, poiché anche la natura è dato culturale.
***
mar làmina
la spiaggia una legnaia abbandonata
che il moto rode
non guardare solo avanti
la battigia non ha limiti
ma elementi
mare e terra a latere
acqua che s’insabbia e spuma
altr’acqua che sduna
la secca e s’impolla
lasciando biche d’alghe
che i passi sfasciano e rifanno
vedi
né chiama né
così ogni origine si disperde
così l’inizio
addossato ad ogni appresso
scatenata catena
ondata
è il ritmo
***
da una parte all’altra della foto
tu sforbicia
lungo il filo spinato
e ricongiungi i lembi del taglio
sì, rimargina
sì, la cicatrice rimane
***
in treno
nel dopo
guardato su un vetro
viso alberato a viso
caseggiati e passanti
e tutto
in fuga per stare
tra la ferrovia e la statale
la riva e là oltremare
Marco Pacioni (1974) è dottore di ricerca in Italianistica e ha insegnato Lingua italiana, Letteratura, Storia medievale e rinascimentale presso diversi istituti universitari fra Italia e Stati Uniti. Autore di numerosi saggi accademici, ha curato l'edizione de La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli di Luca Della Robbia (Quodlibet 2012), delle «Poesie scelte» di Michele Ranchetti (Anterem 2008), è fra gli autori del volume «Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto. Le edizioni rinascimentali delle tre corone» (Edizioni dell'Ateneo 2006) e del libro su Proust Dalla parte di Marcel (Clichy, 2013). Ha in preparazione uno studio sulle neuroscienze in rapporto all'estetica e un saggio sul filosofo Giorgio Agamben. Attualmente collabora con «il manifesto» e con i periodici «Lo Straniero» e «Alfabeta2». Ha pubblicato poesie in lingua inglese su riviste americane e libri d’arte. Il bollettino dei mari alla radio (Aguaplano 2014) è il suo primo libro di poesie.
Con la poesia di Roberto Valentini entriamo nella precisa fusione tra suono e senso; qui la forma del sonetto non è una rigida gabbia, il guscio entro cui abitare sopravvivendo poeticamente.
Nella capacità generativa della lingua convivono termini classici rivisitati e inedite aperture al senso.
Due sono i registri che Valentini ci apre: la portata emozionale del testo e, sullo stesso piano, la sua trasposizione al reale.
Così si procede da “un vago requisito degli occhi”, attraverso le “orchestre dei sensi”, fino all’“euforia che sequestra il pensiero”.
C’è in questa poesia una costruzione che, parola dopo parola, porta a una continua sospensione che diventa, verso dopo verso, tensione.
Nella tensione che anche grazie agli enjambements viene creata, si prepara un terreno fertile per far risuonare le parole secondo i canoni della loro più vera espressività. Nella loro verità che, attraverso la sonorità del verso, genera un senso nuovo e ulteriore.
Qui infatti il ricordo non procura dolore, viene sigillato per sempre, per sempre cristallizzato in un tempo determinato.
***
Anche il ricordo del tuo bel vestito
color cinabro come la parete
di questa mia stanza, induce la sete
di cercarti in un vago requisito
degli occhi. Dal lampadario un tinnito
segnala i tuoi rintocchi. Quali mete
diranno dove le nostre incomplete
speranze troveranno lo spartito,
gli attimi più giusti, una melodia
di tumulti, diffusi fatalmente
da orchestre dei sensi? Nell’euforia
che sequestra il pensiero e più irriverente
dei nostri animi fiuta l’anarchia,
forse sapremo che anche il mondo è niente.
Roberto Valentini, nato a Milano, dal 1999 lavora come insegnante nella scuola secondaria superiore e sopra(v)vive a Bernate Ticino, al confine occiduo della provincia milanese. Laureatosi in filosofia all’Università degli Studi di Milano, ha collaborato con la cattedra di Storia della filosofia contemporanea II quale redattore della rivista “Magazzino di filosofia” diretta dal Prof. A. Marini; attualmente, oltre a proseguire tale attività, è fra i curatori del relativo sito web di filosofia contemporanea (www.filosofiacontemporanea.it). In questi anni ha pubblicato, fra gli altri contributi (recensioni e florilegi), saggi sull’insegnamento della filosofia, sul cinema di Kubrick e Il gesto di Alcesti (“Magazzino di filosofia” n. 19/2012), una interpretazione letteraria di alcune tematiche della riflessione di Maurice Blanchot (nell’ambito di una collana della rivista è in corso di stampa il testo ampliato, unitamente ad un altro poemetto). Ha presentato un proprio lavoro nell’opera collettiva Vita, concettualizzazione, libertà (Mimesis, Milano, 2008).
Sue liriche inedite, articoli, escursioni di carattere saggistico-espressivo ed un racconto sono presenti sul sito web della rivista letteraria “Lunarionuovo”, diretta dallo scrittore e saggista Mario Grasso, e sulla rivista “L’EstroVerso”.
Ha pubblicato le seguenti monografie: Dante a rovescio. Il XXXIV canto dell’Inferno capovolto (Tricase, 2012) ‒ un esercizio di stile da porsi in un’ideale contiguità, si parva licet, con quelli proposti da Umberto Eco; le raccolte poetiche: Il peso dell'ombra (Prova d’Autore, Catania, 2013); Il male degli occhi, (Puntoacapo Editrice, Alessandria 2014); Fra Terra e Luce, antipodi dell’Uomo (c.s.).
Grande Nebbia. Palude. Crisi.
Giovanni Guanti sembra registrare una generale sfiducia nelle righe oziose di linguaggi sdrucciolevoli come pioli infangati che s’inabissano nell’insignificanza .
Eppure disseminati nel testo non mancano vocaboli che esprimono una residua positività del dire, una versione potabile della parola che, dunque, risulta elemento/alimento capace di ricatturare (…) riflessi di oro sporco e altri colori/sapori.
E’ un’alternanza di voci che ammettono un intatto fascino della discesa fino alla riva di un fiume (un fiume di parole?), che si autosospendono perché la scena o lo schermo non erano più visibili al pubblico (dunque niente era più rappresentato), che vivono e rivivono di molteplici interessi ( inverni messicani compresi ), che, forse malate, respirano arie fetide chiazzate con giallo.
Grande Nebbia come una complessa partitura immaginaria ( altra diversa aliena estranea ), per chitarra e strumenti vari, che, dopo ogni esecuzione, chiede di essere suonata ancora.
BIG FOG
prosimetro trilingue n. 13 per voce recitante e chitarra anche immaginaria
non pubblicabili? grazie per l'invito a stamparmeli in proprio
visto che oggi è così economico
resta intatto il fascino della discesa fino alla riva di un fiume qualsiasi che non irrìga giardini tagliati in quattro spicchi né abbraccia come il Pishon l'edenica terra di Havila ricca di philosophicum aurum
e resta inspiegabile l'incanto del ricongiungermi ai mucchi d'erba putrida protesi sull'acqua avanzando tra le ombre delle chiatte da ghiaia tratte a riva se ce ne sono
catabasi tra i relitti della Rivoluzione industriale
smog = nebbia + fuliggine sive Laborintus
quasi laborem habens intus boreali zuppe di fumo e anidride solforosa eruttati da ciminiere e marmitte finché l'oro autentico non si riaccumulerà in versione potabile
vede lo ammette anche lei sono righe oziose e poeti ce ne saranno sempre troppi
ma con la crisi incombente l'editore piccolo e virtuoso è a rischio d'estinzione
seppure immerso a bagnomaria cautelare nella prosa dickensiana: “At such times almost all the senses have their share of trouble. Not only does a strange and worse than Cimmerian darkness hide familiar landmarks from the sight, but the taste and sense of smell are offended by an unhallowed compound of flavours, and all things become greasy and clammy to the touch”
venerdì e giorni ancora più neri a raffica collassi ulteriori mai
definitivi quanto durerà questa crisi? amico ha mai sentito parlare
della Guerra dei Cent'anni? non c'è più trippa per gatti
tranquillo non me ne cruccio sono un po' certosino
vesto fumo di Londra a prescindere
God save our souls e se può anche queste croste di vita sul fiume deprezzate dagli intenditori miraggi di pittori della domenica risarcitori di più buie giornate viavai sull'acqua di fascine pecore sacchi di iuta anche gondole all'attracco di fondamenta sotto piazze rischiarate da fiaccole e paludi costiere a difesa di indecifrabili città – sarde? maremmane? – in primo piano scortecciatori di sughero e carbonai (non bruciatori di carbone ossia falsi alchimisti)
ci vorrebbe Lucrezio che cantò la peste di Atene del 430 avanti Cristo per condensare la Killer Fog del 1952 in versi degni delle – chi dice 4000 chi 12000 – vittime
days of toxic darkness
days of choking cloud
da comporci una ballata country ecologicamente impegnata
Lei non è uno sprovveduto lo vedo dal curriculum
Vede male bene vedeva invece carloemilio
distinguendo povero Cristo dal poverocristo
in ciascuno di noi poeta o meno
secondo i più recenti studi
ma statistiche e bilanci non sono adamantini
bensì sdrucciolevoli come pioli infangati che s'inabissano nell'insignificanza
a Londra tra il 5 e il 9 dicembre 1952 colarono a picco nella bruma legioni di povericristi poi risarciti dal Clear Air Act del 1956 con restrizioni severissime all'altezza dei camini e la deportazione forzata degli impianti industriali più inquinanti extra moenia
nulla salus eppure sono contento d'averli visti quegli sgorbi da quattro soldi e anche il Tevere itterico per il troppo fango che serpeggia sempre amabile per quanti danni abbia fatto dai tempi di Lucrezio a oggi
CE MANCA TUTTO NUN CE SERVE NIENTE OKKIO!
mirabilmente loquaci mura di Roma anche contemporanea
Si usa ma non si getta se non nella mischia maschia
delle cose profonde penetra il fondo e alle più superficiali
accarezza il pelo traslucido
nel caso probabile di nuove crisi ne uscirà
diversa altra aliena estranea e più forte la poesia che sa
imporsi necessità e priorità: ricatturare i flussi e riflussi incontrollati di oro sporco e stroncarne gli scambi transnazionali malavitosi anche se
non mi lascia una flussione le parole proferir
si giustifica sempre così il servo furbo ingozzandosi spudoratamente
Leporello (mangiando e bevendo di nascosto)
(Questo pezzo di fagiano,
Piano piano vo’inghiottir)
Don Giovanni
(Sta mangiando, quel marrano!
Fingerò di non capir)
e poi mi scusi professore a chi vuole interessi (soprattutto se legge
preferibilmente poesia) quanto segue per esempio nel prosimetro
quindicesimo dopo il crack dell'inverno 1994-95
metà dei messicani precipitò sotto la soglia della povertà? Sbaglia.
Ci interessiamo proprio di tutto. Inverni messicani compresi
inversions are frequent on winter nights
soffiai il naso il fazzoletto si riempì di fiocchi di neve nera
after the ground has cooled down
respiravo aria fetida chiazzata di giallo
so much that it begins to chill the air closest to it
aspiravo una condensa di particelle di catrame
causing mist to form as water vapour precipitates on dust particles
avanzavamo a tentoni rasente ai muri
breathing in acid aerosol irritated the bronchial tubes
le Autorità intimarono bambini a casa per non smarrirli
acid aerosol produced large amounts of mucus
concerti rappresentazioni teatrali e proiezioni cinematografiche furono sospesi
perché la scena o lo schermo non erano più visibili al pubblico
lo sai anche se non lo ammetterai
mai e poi mai anche se non stamperai assonanze
da poco come queste che disciplinatamente restano
al loro posto per mia scelta e mia massima colpa
costi quel che costi nell'altrui giudizio
che non mi costa poi nulla sì sì che lo sai
se gli architetti del sistema finanziario avessero costruito una casa sarebbero stati trascinati in giudizio per negligenza e gravi vizi di progettazione le strutture portanti crollano e come sempre avviene le macerie travolgono i povericristi che hanno l'unico torto di trovarsi là sotto
me ne resto dunque dabasso al mio posto
che chiaro non è ma chiara mente
mira al cuore di tutto mirando anche a Te
Giovanni Guanti, (Roma 1952) dopo gli studi classici si è laureato in Filosofia teoretica con il massimo dei voti e la lode all'Università di Torino nel 1976 sotto la guida di Sergio Givone; parallelamente ha svolto studi musicali nei conservatori di Alessandria Milano Perugia e Firenze, diplomandosi in musica corale e direzione di coro (1978) e in composizione (1982).
Titolare della cattedra di Elementi di Composizione per Didattica al Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria dal 1980 al 2005 e professore a contratto di Estetica musicale e varie altre discipline musicologiche presso le Università di Perugia e Pavia (sede di Cremona), dal 2005 è professore associato di Storia della musica all'Università di Roma3, idoneo dal 2014 all'ordinariato.
Nei suoi scritti si è occupato prevalentemente di filosofia della musica, di rapporti tra quest'ultima e le altre arti, di autori quali Tartini Beethoven Schumann Busoni e Cage.
Tra afasie e nuovi mondi
Rovesciato il classico interrogarsi sulla possibilità o meno di “esprimere l’inesprimibile”, di cui si sono occupati vari autori, Mara Mattoscio con “Inesprimere l’esprimibile” mette in luce il senso di disorientamento per la perdita delle parole che, come evidenzia, da “essenza del possibile” sono diventate “sfasate fuori centro, fuori respiro”, all’interno di un più generale smarrirsi come condizione individuale e intellettuale a partire da un persistente senso di vuoto e dalla perdita di sé.
Tuttavia quello che l’autrice definisce, nella sua biografia, come “un irrimediabile amore per le parole” rovescia l’assunto dichiarato dal titolo in una possibile fiducia nel pensiero e nel dire, in quello che ci indica come “salto in lungo dell’anima / di parola / in parola”, lungo cartografie insieme visibili e ignote, immaginate e segrete.
E, con il recupero delle potenzialità della parola, il muoversi di Mara Mattoscio, in un incedere tremante come “corda / di violino solitaria” tra l’inesprimere e la meraviglia, trova un suo dire anche corale, a partire dal richiamo a “Howl” di A.Ginsberg e dalle dispersioni delle “migliori menti”, nell’afasia di una generazione in cerca di sé, lungo le mappe di un’esplorazione sofferta e inappagata in cui però, come ci indica l’autrice, “la scoscesa incompletezza // che sempre avanza, / pensa nuovi mondi”:
Durare
Sono difficile
come un passo di montagna.
Sola nel nulla
da cui si vedono altipiani
densi di luci brulicanti.
Scoscesa
Scomoda
Scivolosa a me stessa
In perenne arginare
la tensione
che chiama vita nelle viscere,
il movimento incompreso
che mi sale dalla terra,
troppo in fondo.
Il profilo mi trema
mi suda
ma non cambia,
se non per qualche cespuglio
distante
e qualche piccolo fiore
di montagna
che nessuno vedrà.
O per qualche dura
roccia
che mi si spezza addosso
e scivola di vita
e chiama piano l’attenzione.
Buona speranza.
Cartografia per un viaggio
Capo dello spirito
Capo
del magnete
del mio disegno
Capo della
vista
degli ultimi orizzonti
Capo delle mani
Capo dell’energia
di chi vive
da parte
In rosso
dalla mia mappa a scomparsa
occhieggia
-a tratti-
il capo segreto.
Mara Mattoscio è nata a Pescara nel 1983. Vittima di un irrimediabile amore per le parole, si è laureata in Lingue e Letterature Straniere e specializzata in Lingue, Letterature e Culture Moderne, sempre privilegiando l’intreccio tra letteratura, teoria filosofica e arti visive, in particolar modo il cinema. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Anglistica con una tesi sulla rappresentazione del corpo di genere in autori sudafricani di lingua inglese (Nadine Gordimer e J. M. Coeztee) e nei relativi adattamenti cinematografici. Da questa tesi e da altro materiale ha tratto alcune pubblicazioni accademiche e un'ininterrotta passione per la teoria e la scrittura postcoloniali. La sua scrittura creativa, invece, è rimasta fino a questo momento una questione privata – ad eccezione del racconto La sintesi, incluso nel 2007 nell’antologia a cura di Massimo Avenali Entrata d’emergenza. Dodici nuovi accessi all’Abruzzo (Giulio Perroni Editore). Inesprimere l’esprimibile è la sua prima raccolta di poesie.
I testi di questo libro si risolvono in forme prevalentemente brevi, quasi liquide, solo all’apparenza pacificate nella sintassi.
Al contrario, il lessico risulta improntato alla pura e semplice potenza: “rovine screpolate come dita”.
In questa prospettiva, nel tono piano dell’articolazione, le minime fratture e i piccoli spasmi di questa scrittura acquistano grande forza e potere disgregante e, soprattutto, sottolineante: “…una saliva di cose non dette/- ordinare le stoffe per dolore…”.
Parallelamente, nel mondo che le poesie portano alla luce, non esiste un rumore di fondo che alzi in modo consolatorio l’asticella della percezione rendendo sopportabili i normali eccessi dell’esistere.
Sono vuoto e silenzio i punti di riferimento, lo zero strumentale necessario ad ogni misura. Cosicché, con uno sguardo quasi didascalico, all’interno dei minimi e strettamente controllati paesaggi oggetto dei versi, questa scrittura acquista l’energia e universalità della vera constatazione.
***
il doppio ritratto si appende a creatura
pasto ceruleo di miniature affrescate
zampettano le gocce in pozze di fango
a capestro sulla strada di casa
***
dis-velarsi mature
quando la saliva gocciola
sul punto più oscuro del verso
e stringersi addosso
ogni punteggiatura anomala
per sradicare minuti di silenzio
dalle braccia stanche
spezzarsi nella caparbietà di un pozzo
nel nervo gonfio di spigoli
la vittima dei sacrifici
e del pensiero che ritrae luce
***
vegliavo sull’ombra come una madre sconfitta
dedicavo alla voce l’occasione del rimpianto
e resta ancora – e ancora
una sapienza giustificata ad est
nel simbolico darmi come una pietra liquida
contro i fianchi della mia stessa natura
Antonella Taravella nel 2012 ha creato “Words Social Forum”, sito di cultura artistica che comprende varie tipologie di arte.
In poesia ha pubblicato, con le Edizioni Smasher, Vertigini scomposte (2009), Sbocciata nelle viscere (2011), Aderenza (2012).
Come ogni anno, il Forum Anterem si terrà presso la Biblioteca Civica di Verona. Gli appuntamenti saranno ben tredici e si svolgeranno dal 7 novembre al 14 novembre 2015. Nel corso della manifestazione saranno premiati i vincitori del Premio Lorenzo Montano, XXIX edizione.
Nell’attesa, segnaliamo che vincitrice della sezione “Raccolta inedita” è Silvia Comoglio. La sua opera è stata pubblicata nella collana La ricerca letteraria delle Edizioni Anterem.
Il libro – di cui anticipiamo le poesie di apertura e la postfazione di Giorgio Bonacini – ha per titolo Il vogatore.
Noterella liquida per “Il vogatore”
a Silvia Comoglio
Questo libro è un guado a fior di labbra. Il solco-solcato dalla voga procede a ritroso.
Ritroso (e ritrosia) di cui occorrerà dar conto.
Il solco intanto è il tratto-fratto, il taglio delle labbra aperte al mormorare e subito chiuse, la scia di chiglia mai definitiva
ma sempre aperta/chiusa: dietro di noi? Forse.
La paginetta attinge, in un secchiello forato, quella che il buon borghese chiamerà (liquidandola) una melodia fluviale: noi sentiamo invece
dal colabrodo sillabico ogni fonema quando cerca (e trova) un suo rimbalzo.
La voga del resto non può che essere percussiva,
ma certo non perduta, come parrebbe, nella malia del flutto, il corpo
però non esce sulla rena mai: perché?
Forse perché non è di corpo che si vuol trattare, qui – ecco la ritrosia –
ma del lungo palo intinto (ah scrittura!) , del lavorio di braccia sul canale (verbale) senza gondoliere e, naturalmente, della sua scia labiale (ah moto delle labbra e non-parola!)
Nessun naufragio del resto incombe, il rischio in queste onde è tornaconto dei segni issati dall’accento senza però sortire
dalla lingua, essendo questa l’acqua che monta nel tratto-fratto, alle labbra marea inclusa.
Avanti, dite? Ma no: indietro. Ecco il ritroso a cui il filo di una voce si addipana: il flutto
del tempo si ricapitola perché qui, signori, si va alla fonte, spolpando la lingua del suo scoglio, pesce che si delisca e splende in tras-lucenza (o: licenza, che dir si voglia).
Per questo l’isola è ancora e sempre là davanti, non fosse che si scava navigando la voce
se la terra del nome sull’onda a specchio, tremula e vibrante, si scolpisce.
13 ottobre 2015 Paolo Donini