In questo nuovo numero, la redazione di “Anterem” presenta alcuni dei finalisti dell’edizione 2014 del Premio Lorenzo Montano.
Quello che nasce dal Premio, da ventinove anni, è un luogo che sempre si rinnova e in cui incessante è il ragionamento intorno alla poesia. Tutto questo avviene non solo mediante testi e teoria, ma anche tramite letture dal vivo, commentate in diretta, all’interno del Forum che annualmente ospita gli autori segnalati e finalisti.
Ricordando a poeti, narratori, saggisti ed editori che fino al 15 aprile 2015 il Premio è aperto a tutti i contributi, scarica il bando della 29^ edizione, auguriamo buona lettura.
Silvia Comoglio, da “Via Crucis” (Puntoacapo, 2014), nota critica di Rosa Pierno
Che ci sia uno sfaldamento nella descrizione è cosa prevedibile poiché oggetto della narrazione è il racconto della via Crucis. Raccontare della tortura e della resurrezione tramite gli oggetti che sono presenti sulla scena immaginata comporta una trasformazione, in direzione del tutto paradossale, superante il limite della congruenza: “immoto soffio”, “ciottoli silenti” a testimonianza della loro impossibilità di diventare simboli in un simile racconto. Ma implica anche una restituzione caotica del mondo divenuto contemporaneamente tutto interiore: sarà qui il luogo ove si potrà affermare che esiste un dentro dello specchio, un”’alba appena simulata”: il vero qui, infatti, non si raggiunge più con l’ordine, ma con la sostituzione, anche contro ogni evidenza, tal quale, d’altronde, accade nel miracolo della resurrezione. Sarà proprio la ‘mutazione’ a dare la stura alla scala metafisica: così la fine “fiorisce di eterno” e “l’albero ha lo specchio dentro la sua foglia”. Ogni cosa appare capovolta e da concreta si fa mentale, dove il mentale pretende d’essere l’assoluta verità.
Saltati tutti i punti di riferimento, il mondo non può più essere comprensibile: “Sono mondo – in cui l’estremo non posso più capire”. E conseguentemente le cose sembrano esclusivamente intuibili, non più logicamente correlabili. Una sintassi fratturata a livello lessicale impedisce che si formi un senso compiuto, favorendo una rotante sovrapposizione di schegge d’immagini che non si raccordano, appunto, mai in una figura intera. Tale esito è d’altronde esplicitato non solo formalmente: “il buio da me scritto per leggere e capire”. Boe disseminate indicano una sorta di corrimano: specchio, silenzio, respiro, alberi, luce, corpo, tempo, sasso in una cartografia personale che rifà il percorso della narrazione evangelica in maniera personale, indicando questo testo come un simulacro che ha valore testimoniale. Siamo sostenuti in questa ipotesi da un discorso che si fa sempre più autobiografico: “ il limite che viene di tempo a cominciare / rovescio di fessura del rovo della terra / dove, a gemito che sono, il ventre si rimbalza”. La parola viene innalzata come parola unica che tutto sovrasta: “nel bagliore dell’unica Parola che immobile si espande / serbando ripetutamente l’ora e sempre vissuto a prima volta”. C’è una contrazione del convertire, in finale, dove persino le parole paiono soggiacere a una verità rivelata: e non a caso è un’immobile verità che improvvisamente si fa decifrabile: “in cima, in cima alla collina, dove il labbro /in forma di prodigio, intesse tutto il balbettio, in vibrante semplice discorso”. (r.p.)
Sesta Stazione
Nòmini chi sono, tra gli orti e questa casa,
in un tempo a parola già prescelta, chi prese
un ramo del mio volto, se essenza, sono,
immota della fonte, o enìgma restato nella traccia
di un sacro stupore delle labbra. Nòmini e descriva
l’ocra che ricopre la cima di montagna,
e l’àlbero e la nube, e quésta stessa terra, e il témpo
di sopra queste teste che è bagliore, bagliore necessario
di un cantico sospeso nell’estasi di istanti
pròssimi di soglia, di – irrompere di mondi del tutto –
trasparenti, “a – mattutino colpo dìvampato in cielo
biànco, a margherita –
Undicesima Stazione
Vada questa notte dritta dentro casa,
passando per il viale a mura che si abbassa
sfondandosi negli occhi, un viale, un viale senza luce
dove la voce che si sente è sull’orlo –
dell’orrido più puro, flebile sul corpo
sfatto e ricomposto in ordine di croce. Vada –
dove saliranno tra gli alberi leggeri, bianchi di cicogna,
tutte le buone terre, le palpebre dischiuse, a scalzo –
moto della luce. E sia, a casa, il Tempo che ripete
l’estremo attimo che tocca l’albero a bisogno
di un tronco più leggero, e il tutto e il mare e il mondo –
a chiodo trapassati forzando inauditi! voli di discesa,
fragori di semplici e ritorti nomi sigillati tersi –
alla finestra ---
Silvia Comoglio è nata nel 1969 e vive a Verrua Savoia (To). Laureata in filosofia, ha pubblicato le raccolte Ervinca (2005), Canti onirici (2009), Bubo bubo (2010), Silhouette (2013), Via crucis (2014). Suoi inediti sono apparsi nel blog “La dimora del tempo sospeso” e nelle riviste “Il monte analogo” e “Le voci della luna”. E’ presente nei saggi Senza riparo. Poesia e finitezza e Blanc de ta nuque, entrambi opera di Stefano Guglielmin, e nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta, a cura di Davide Ferreri e Emanuele Spano.
L’esperienza che si fa in poesia – dove sempre chi scrive e chi legge è chiamato a sentire e provare il senso – è un’ interconnesione di segni tesa a imprimere, in modi mai preordinati, il suo tracciato. Può essere un torrente impetuoso, un sentiero in lieve ondulazione, una scarica a nervi scoperti o una serie modulare di pensamenti, ma in ogni caso prende la lingua e la porta in un luogo difforme dove “si ricomincia il mondo da un dettaglio”. Così, Simone Zafferani, in questa raccolta dispone la scrittura con un andamento che, partendo da un fondo d’ombra sale in superficie portando con sé la luminosità che anche dal buio sprigiona. E lo fa lentamente, grazie un pensiero poetico che arriva con onde basse ma crescenti. Questi versi sembrano immersi in una dimensione quasi di pacificazione, tra la parola che prova a scardinare il senso ordinario di una realtà che appare ma non è, e le cose che si attaccano alla mente con la loro voce impensata, non di questo mondo. Ma è solo un’illusoria pacificazione, perché rinominare ogni volta l’esistente iniziando da particolari che sganciano la comunicazione per incontrare una nuova significazione, vuol dire riconoscerli solo nel momento in cui combaciano con il dire essenziale del poeta (me con me, in modo osceno, precisa l’autore). E la parola attraversa la sua stessa intimità, anche brutalmente, per “tenersi saldamente all’infinito”, con uno sforzo concettuale e ideale che prova e riesce ad accedere a una percezione che ridefinisce il fulcro di ciò che ci fa stare agganciati a un inizio e una fine, rendendo impossibile la linearità del camminamento, solamente con “quattro parole di puntello”. Ma è proprio la fermezza di questo legame che consente di dire e udire i riverberi, gli echi, i richiami dell’ultima indefinita parola che ridisegna la prima, in perpetuo movimento “su una rotta diversa”.
Sembra poco e sembra semplice il sostegno di quattro parole, ma qui non si “puntellano rovine”: il mondo di queste poesie è forse fragile e sciupato, ma imprevisto perché ombroso e luminoso insieme, frutto di una voce dimenticata e riscoperta, con un suono nuovo e qualche volta commovente. In poesia anche una sola sillaba che abbia valore sostanziale è inizio di un mondo che restituisce la sua universa intonazione alle cose; e la loro presenza reale a chi le ascolta; e uno sguardo penetrante a chi si lascia avvolgere dai segni che si incontrano nell’esistenza poetica visibile o invisibile.
Zafferani, in questi testi, ha un gesto d’attenzione particolarmente lieve ma deciso nel riconoscere che la verità non è tanto la certezza di aver compreso e saputo, ma paradossalmente di dimenticare. Non per oscurare o alienare il nostro essere, ma perché “l’avventura è...imparare a non sapere”, per rinascere e per poter toccare, con sensibilità inaudita, una nuova figurazione fisica e mentale. Ci sono poesie, in queste pagine, particolarmente dense di senso e nello stesso tempo leggere, ariose, duttili nel dire l’impatto che la scrittura ha quando diventa vocalità ferma ma dal tono fluttuante, di tenerezza pura e precisa che è sentimento di forma e consapevolezza. E in questo luogo niente viene abbandonato: anche una “poesia nata male”, anche la considerazione solitaria del silenzio racchiudono in sé accadimenti come doni speciali, in una originaria e trasparente identità che solo la poesia può comprendere e portare dentro. E anche quando la riflessione prende la via della visione pensante che cattura un’azione, l’oggetto visto può scomparire in quanto tale ma rimanere in noi, scambievolmente lettera e metafora, dove la parola dell’autore, anche nell’ astrazione, si muove sempre “senza/alcuna contraffazione”. (g. b.)
Da “L’imprevisto mondo”
tenersi saldamente all’infinito
a quattro parole di puntello
e al centro un covo di grazia
e più al centro un magnete di gioia
- durissima, inscalfibile –
che regola il moto e le distanze
quando l’anima aerea s’intrattiene
coi lutti occasionali del suo andare.
dalla sezione Angelo della vicinanza
***
resta esposto e toccato,
piantato nelle radici
con i loro giusti saliscendi.
Guarda
come siano amiche le vicissitudini
venute a cercarti.
Non suturare
troppo le ferite, impasta acqua
ossigeno e sale come tu senti,
non come ti dicono.
Non regolare troppo
l’arbitrio e i fili che lo tengono.
Ascolta
la pulsazione più bassa e danzale sopra
con ritmo non suo e non tuo ma
naturalmente prossimo, come tu fossi
un angelo della vicinanza.
***
ogni giorno un dettato, una preghiera,
sillabe messe a mente, successione senza scarto,
nessuna violazione e nessun urto,
un solo senso unico.
Teoria
e benedizione, voce senza
alcuna contraffazione.
***
con pazienza d’artigiano
mettere a posto il dolore.
Sommessa, tenace
opera della sistemazione.
Tenersi accanto tutto
e guarire per contagio
e crescere per emanazione.
Simone Zafferani è nato a Terni nel 1972, vive a Roma. Ha pubblicato i libri di poesia Questo transito d’anni (Casta Diva, 2004), vincitore al premio Lorenzo Montano 2006) e Da un mare incontenibile interno (Ladolfi Editore, 2011), finalista ai premi Sulle orme di Ada Negri 2012 e Laurentum 2012). Sue poesie sono uscite in riviste (“Smerilliana”, “Poeti e Poesia”, “Atelier”, “L’Ulisse”), in plaquette e in antologie.
L’arte della sapienza
‘La solitudine della Sapienza’, di Sofia Demetrula Rosati, è un’articolata riflessione in versi concernente il tema dell’umano conoscere.
Introdotto da un esplicito “prologo”, il componimento si apre con una pronuncia emblematica:
tra le mani compassi
le geometrie euclidee non compiacciono
il cuore si esercita sul ritmo e non
procede ma persiste
subito seguita da un’altra non meno esplicativa
la saggezza ha la stessa consistenza del tempo
anticipa costantemente il suo ritardo
Che cosa dire?
Certamente l’umana esistenza è esposta all’incertezza e all’enigma, nondimeno migliorare è possibile: davvero rilevante, perciò, è l’umana attitudine a interrogarsi.
Quanto, poi, alla poesia (praticata dalla nostra autrice con non comune scrupolo), si tratta di un dire particolarmente propenso a ridimensionare i riduttivi schemi logici per evocare un quid nel cui ambito gli uomini sono immersi più di quanto potrebbe, a prima vista, sembrare.
Insomma, per Sofia Demetrula, scrivere versi è la risposta, perché per lei il gesto espressivo veramente originale è fecondo proprio per il suo ricondurre il segno idiomatico all’esordio dell’incontaminato impulso.
Senza dubbio
la fioca luce del sole non intende
dare senso a ciò che illumina
nondimeno il poterlo scrivere è vivida testimonianza riguardante il mondo e chi lo abita.
Non resta altro da fare che impegnarsi nell’opera d’arte alla quale tutti si possono dedicare, ossia quella, appunto, di abitare meglio il mondo?
Questo sembra lo scopo ultimo di ogni conoscenza e, in maniera implicita, l’invito rivolto, dopotutto, dalla nostra poetessa. (m.f.)
la solitudine della Sapienza
dialogo con Qohélet - di Sofia Demetrula Rosati
prologo
s’interroga il sapiente Qohélet, l’uomo più scomodo dell’antico testamento. colui che non mette in dubbio il suo Dio, non chiede nulla e nulla si aspetta. non è il Giobbe che ci sollecita ancora oggi insinuando il pensiero di un Dio che, a fronte di una totale devozione, non sa elargire in base a criteri di giustizia. no, il Dio di Qohélet sembra, egli stesso, solo di fronte alla Sapienza. sembra totalmente disorientato da essa. non sapere come dialogare con Lei. non esiste Sapienza tanto grande da non poter essere offuscata da un unico solo errore. e allora a che serve inseguirla, desiderarla, possederla. se poi, Lei, non si fa possedere.
e allo stesso modo s’interroga il Poeta. l’essere per il quale il dubbio è l’unica certezza. s’interroga su quella stessa Sapienza che tra le sue mani si fa strumento consapevole d’inafferrabilità.
dialoga il Poeta con Qohélet e si fa sincronia di voci. lacerando con quesiti che conducono all’impossibilità di risposta. e se anche la Sapienza fosse, in ultima istanza, asapiente? se la Sofia non fosse altro che un’egocentrica manifestazione di sé? se l’atto stesso del conoscere fosse un passaggio diretto perché la terra torni ad essere polvere. e tutto solo fumo di fumi? e se solo la parola scritta riuscisse a farci aggrappare a qualcosa che somigli a delle sagome in carboncino? se la parola scritta fosse l’unica Sapienza? non per il contenuto, ma per il tratteggiare. se fosse proprio questo movimento, il movimento dello scrivente a dare ordine a ciò che non ha mai chiesto di essere compreso? e se la poesia fosse l’ordine ultimo al quale poter accedere? l’unico senso. la conoscenza di ciò che non può avere senso?
dialogo
1
Qohélet
Un cuore saggio procede diritto
Un cuore storto divaga
Io
tra le mie mani compassi
le geometrie euclidee non compiacciono
il cuore si esercita sul ritmo e non
procede ma persiste
la saggezza ha la stessa consistenza del tempo
anticipa costantemente il suo ritardo
storto è all’opposto per diritto
2
Qohélet
E il sole che si leva
È un sole tramontato
Ogni sarà già fu
E il si farà fu fatto
Non si dà sotto il sole
La novità
Io
ogni ripetizione sorprende l’istante nuovo che
la precede e quello che la insegue per ispirazione
la novità è in tempo relativo
non vedo nulla che non sia già stato
l’eternità inaridisce i terreni e li rende incolti
3
Qohélet
Che cosa è che fu
Se quel che fu è
E se Dio fa che torni
Il fuggito?
Io
se il fuggito torna
determina un percorso
l’inizio e la fine si avvicendano nella costruzione
dello spazio e del tempo il fuggito
percorrendo coniuga il verbo che si fa carne
quel che fu fu
quel che è è
4
Qohélet
E l’altezza mette paura
Ti agguantano spaventi per la via
E il mandorlo biancheggia
La cavalletta s’intorpidisce
Il cappero pende inerte
E l’uomo se ne va
Alla sua casa indefinita
Tra i piagnistei rituali
Delle donne nel Suk
Io
spaventare l’altezza per il
trionfo del nulla
anche se sono a terra
calpesto sudari sgualciti
la stagione è incerta
tra un finire d’inverno
e un’estate che avvizzisce
l’uomo se ne va
di lui solo un tratto in carboncino
le donne fanno festa nel Suk
5
Qohélet
Per qualche mosca
Si guasta un vaso d’unguento
Di profumiere
Poca stoltezza offusca
La gloria di un sapiente
Io
In un campo di stolti
poca sapienza dà gloria eterna
il giudizio condensa l’odore del giudicato
in piccole ampolle vendute a poco prezzo
al mercato delle spezie
6
Qohélet
Sapienza è meglio che ordigni da guerra
Ma quanto bene si perde
Per un unico errore
Io
Che fece il gran rifiuto!
ebbe a dire il poeta schivato
7
Qohélet
E vedo tutto il lavoro di Dio
ma a tutto quel che accade sotto il sole
un senso l’uomo non riesce a dare
gli uomini si affannano a cercare
senza poter trovare
e il sapiente che dice io so
resta senza trovare
Io
la fioca luce del sole non intende
dare senso a ciò che illumina
gli uomini cercano con le spalle curve
e la testa china tra la polvere
con poca saggezza qualcuno
raccoglie ciottoli lungo il cammino e
con passo pesante il viandante
spaventa le lucertole stese al sole
8
Qohélet
Due coricati insieme
si scalderanno
Ma a chi è solo
quale calore?
Io
la solitudine non consuma le ossa solo calore
un falò di libri ho dovuto organizzare
per la lunga attesa del gelo
ho sperimentato giacigli di parole
coricàti sul letto le nostre scapole non
hanno bocche per dialogare
voltàti ognuno dal proprio lato
con una pietra focaia in mano
senza sapere cosa farne
La traduzione del testo di Qohélet qui utilizzata è tratta da: Guido Ceronetti “Qohélet. Colui che prende la parola”, Adelphi edizioni, Milano, 2001.
Una prosa ricca di anfratti sonori e descrittivi quella di Maria Angela Bedini, una trama specchiante catturata dalla cornice dei due paragrafi in apertura e chiusura:
La città che mi abita nelle vene è una fortezza scura, io la porto come si porta un dolore…
E là oltre la marea e le onde screziate udivo volti di santi spalancarsi…
Si tratta di un susseguirsi di prospettive “gemmate” dove gli elementi naturali e stilistici (vento, architetture, costole erbose, volte annerite, radici, ardesie dei tetti, , altane e cantine) confluiscono in una sorta di vena maestra impetuosa e minuscola tanto da somigliare a una gemma che dorma dentro l’astuccio di un ramo. (m.c.)
La città che mi abita nelle vene, incipit
Maria Angela Bedini è nata a Buenos Aires dove ha trascorso l'infanzia. Svolge attualmente attività di ricerca presso l'Università di Ancona. Ha pubblicato le raccolte di poesia Trasgressioni (1987), Essenze assenze (1991), Ma il vuoto fu scarso a sparire (in «Nuovi poeti italiani 4», Einaudi 1995) e La lingua di Dio (Einaudi).
La cultura è l’oggetto delle evoluzioni linguistiche di Severi, il quale prova sulla propria pelle abiti altrui tramite, appunto, linguistico travestimento. Retorica domanda quella che l’autore affida al lettore: “seminagione / sillabe di diserzione // filano segni di alba, non di croce / divinas // litteras in vulgi linguam transfusas / sapere // è sangue nelle arterie / è prima voce?”. Tutto si consuma nella materia linguistica, ma anche prende vita nuovamente rilanciando, poiché la lingua è terreno esperienziale, ove persino la mistica trova il terreno più adeguato per i suoi esercizi. I due poemetti, il primo su Ferdinando Tartaglia, il secondo su Angela da Foligno, si intrecciano con la storia delle vittime del Petrolchimico di Porto Marghera e con elementi prelevati a viva forza dalla contemporaneità. La pagina diviene un terreno di coltura e di raffinamento, dove il solo prodursi della scrittura estrinseca un pensiero riflessivo di raffinato pondo. E’ la scrittura l’orizzonte a cui guardare e il suolo da percorrere, in un’evidente presa di posizione da parte dell’autore su quale sia il ruolo da assegnarle contro un senso che le pre-esisterebbe. Scrittura che vale anche come rilettura dell’esperienza altrui: il vistoso scarto tra lo stile di Tartaglia e quello di Severi, ad esempio, vale come differenza esistenziale, come prova della diversità individuale. In fondo, il commento stesso riceve qui una motivazione carnale ci verrebbe da dire!
Sulle pagine di Luigi Severi ritroveremo punti in cui la scrittura cerca distanza dall’esperienza diretta e altri dove vuole prenderla invece in carico a testimonianza dell’effettiva consistenza dell’esercizio scritturale, che è anche esercizio pragmatico, non solo mentale. Forniamo un esempio di come, a nostro avviso, la scrittura di Severi riscriva il testo di Tartaglia in altra forma: “ ma cercare di rendere / ma tornare in unione / ma cercarti nei muri”. E un esempio di come la via mistica di Angela da Foligno (e si sa quanto la scrittura mistica sia un paradosso) viene qui coptata da elementi che inseriscono la contemporaneità con estrema naturalezza nel rovello interiore: “c’è anche il fatto della favola preferita / del colpo di telefono a quell’ora precisa / del regalo mandato per posta”. Naturalmente non c’è un esito salvifico, una risposta che saturi il rovello, il dubbio, la ricerca sul linguaggio e, del tutto coerentemente, Severi si mantiene sul medesimo periglioso crinale. (r. p.)
dalla sezione I. Primi esercizi spirituali
Di geometrie ulteriori
(Tartaglia matematico)
Tartaglia celebre matematico
inciampato in te stesso e nella maglia
della tua prima infanzia, l’ansia
di ogni accento selvatico, di ogni ferita
avrà una sua ratione calchulabile,
un suo pregio geometrico / tracciabile
e poi questa fatica
di instabile, di cenobita
satanico a tentare i nessi angelici
(tra le algebre di un conto a una candela)
la sinfonia ronzante dei pianeti, l’odore
di bruciato dopo il colpo
Conclusioni provvisorie
(di veglia)
I
In ascolto assoluto,
stasi di quercia arcaica
di radici traverse, a fondo
di un’ultima terra, a legno nudo.
Non per la maestà della scomunica
ma per ogni dolore inefficiente
ogni sudore di convalescente,
capillare sommerso della storia
(per grumo nella gola
per tutti i libri letti
per ogni voce minima
ogni battito di non-memoria
II
Scrivere migliaia di pagine
che nessuno leggerà mai
sanguinare parole
cicatrizzate sole
è già una prima
definizione
Conclusioni provvisorie
(nel sonno)
I
alla sconfitta inferta
fino alle sale nere
delle voci più fragili
straniere
la certezza dei pochi
che hanno bronchi impeccabili
il dovere dei molti
la maceri
ma la tavola algebrica
sotto i colpi più logora
la mia rabbia più dura
prosciuga
II
il talento dei muti
il passo degli inabili
il silenzio degli esuli
imparare a difendere
ma cercare di rendere
ma tornare in unione
ma cercarti nei muri
manomessi, implorarti
(non ho altra ragione
che attendere
Luigi Severi è nato a Roma nel 1972. Ha scritto saggi sulla letteratura rinascimentale e sulla letteratura novecentesca. Suoi versi e racconti sono apparsi in diverse sedi cartacee e telematiche.
Nel 2006 è uscito il suo primo libro di poesia, Terza persona (ed. Atelier).
Il fare poetico, nel suo difforme andamento (ricco sempre di implicazioni altamente evocative e dirompenti), fa sì che il tempo e il luogo vissuti, immaginati, ricordati, e in ogni caso scritti (anche solo nel silenzio del proprio pensiero), nel lavorio interiore che il dire porta in superficie per dare nome e sostanza ai sensi delle scrivere – e sottrarre a questi le omologazioni e le conformità della lingua ordinaria – conducano spazio e durata a mischiarsi, a confondersi, a scambiarsi le funzioni percettive e concettuali. E questo produce uno spaesamento nella significazione che ribalta il prima e il dopo: dilatando o concentrando movimento e stasi, dentro e fuori, ombra e luce. Ed è propriamente ciò che si prova leggendo IL DISGELO di Greta Rosso.
Emerge nei suoi versi l’inquietudine di una consapevolezza che ridisegna le normali categorie conoscitive svuotandole del loro sentire soggettivo. Ma con un atto di privazione apparentemente assurdo: la sottrazione “di un sentire che non potevo/ avere, ma c’era...” Ecco lo spostamento nella dislocazione di un sapere: il venire meno di un senso d’esserci che ha il suo nucleo in un sentimento brulicante di vita, ma impossibile. Come un ricordo o una visione che non dovrebbero appartenerci eppure ci sono e continuamente ci vengono negati. Solo un atto poetico di lucidità e sregolamento estremi, o forse anche solo istintivamente destrutturato in fluidità e lampeggiamenti, può rendere consistente un’esistenza sgretolata, una parola intrattenibile, una voce come questa, che “lascia una scia di polvere”. Frammenti che non velano ma rivelano agli occhi qualcosa di irripetibile, perchè continuamente oscillante fra allucinazione sensoriale e acutezza concreta, luminosa. Una coesistenza dove l’immagine allitterante, in termini auto inglobanti come “lascia” “scia”, non emerge semplicemente come dato tecnico, ma (conscio o inconscio che sia) come vero e reale motivo ricombinante, dove il vedere si ritrae e lascia spazio all’attrito.
Ma verità e realtà in questi testi perdono il sentore oggettivo che li caratterizza nell’ordinarietà del linguaggio, per trasfigurarsi in ciò che fa poesia: nel caso specifico, un pensiero accidentato, graffiato, ma anche aperto a riconsiderare le trasformazioni, per cui la scrittura è necessariamente obbligata a rischiare, se non vuole decadere a insignificanza. Nei testi di Greta Rosso c’è tanto fremito e tanto disperdimento: una dissipazione emotiva, però, non ingenua né artefatta, ma coerente con la natura e la frattura che un vivere teso a “sprofondare nell’assenza”comporta. E’ un movimento a margine, un camminamento al limite di un bordo dove la presenza poeticamente umana si raccoglie e si stringe in una spazio in cui la parola di sé appare irriconoscibile, fantasmatica, lacerata in un rovesciamento dove ciò che è non sembra. Perché non ci sono agganci solidi in questi poesie, nulla che determini banali sicurezze. L’autrice intuisce il sapere fondante di ciò che scrive: perforare il senso e con “la gola dolorante...incastrare le parole...”, polverizzare le dimensioni certe per intrecciare e reindirizzare (anche zigzagando o raggomitolando) un pre-sentito sofferto, nel tempo sbagliato un “il disgelo mio/mal profetizzato.”
Una poesia, questa, che svolge la sua qualità corporea in modo tale da far pensare a parole uscite come trasudate, lente, curvate da un’attrazione fisica nevralgica che piega costantemente l’articolazione semantica della frase, nel suo spazio di sommovimenti ma anche di velature lievi, di sussurri e scioglimenti. (g. b.)
Da “Il disgelo”
***
era qualcosa di più forte del fango secco sotto le nostre suole, era
un’intubazione che lasciava la gola dolorante
così da incastrare le parole là in basso, da qualche parte.
non ci saremmo arrischiati in ulteriori prove di forza.
bastava il fatto di essere lì, uno di fronte all’altro,
i volti scomposti e umidi.
***
espone la perdita fratturata, scomposta, scolpita
ne estrae le parti eguali, la rende pulita e netta.
controlla i frammenti, li conta, li elimina.
resta infine il ricordo asettico di ciò che fu.
un quadro irripetibile che non entra negli occhi.
***
il tuo corpo di pietre nell’erba tremenda delle periferie
lascialo alla foschia, alle tettoie d’amianto e alle cantine disperate.
prenderà commiato come un solo commento sul tempo.
come un mattone, una stella, un tragitto dimenticato.
***
era usanza turbare, sollevare veli
senza essere eccessivi, censurando
pesantemente, moltiplicare le parole
come popolazioni socialmente
avanzate, rovesciare i bicchieri
dopo aver bevuto, trovare un
agio nel gelo assoluto del
pavimento.
Greta Rosso è nata a Casale Monferrato il 16 luglio 1982 e risiede in Valtellina (Bormio -SO-). Ha pubblicato in volume “Cronache precarie” (Aìsara, 2009) e “In assenza di cifrari” (Lietocolle, 2012), nonché diverse poesie su siti web quali Nazione Indiana, AbsolutePoetry, Viadellebelledonne, Imperfetta Ellisse, e sulla rivista cartacea Il Foglio Clandestino. Nel 2013 si è classificata terza ex aequo al Premio Baghetta (premio del pubblico) e prima al Premio Isabella Morra (sezione poesia edita).
NON SCRIVERTI
tra i mondi
Paul Celan
Alle riflessioni di Morelli sulla poesia e sul nostro presente, si potrebbero aggiungere altre note, altre considerazioni, altre domande … si fa poesia solo con elementi verbali o anche con altri segni? … con il linguaggio alto della letteratura o anche con scarti e frammenti di vocaboli?…sappiamo dalle avanguardie, da Duchamp, che l’arte non solo si crea o si elabora ma si può anche trovare …la poesia può essere traccia di una memoria, presagio, semplice ricordo, composizione metrica ma anche elenco, lista, annotazione…
La severa riflessione di Romano Morelli, giustamente, associa la forma del mondo al linguaggio sottolineando che nessun campo semantico, comunque, è in grado di dar conto pienamente dei grandi eventi che accompagnano l’umanità. La poesia, con più veggenza e con più timore è questo che, spesso, ci ricorda. (m. c.)
Ancora una riflessione sulla poesia e sul nostro presente.
L’attuale - anche se tutt’altro che recente - assoluta, singolare solitudine dei poeti è solo un punto di partenza, il più evidente forse, ma certo non il più importante, per affrontare il tema del rapporto tra presente e poesia.
È una questione che è stata sondata, pensata, percorsa molte volte.
E’ un fatto tuttavia che rimane sempre una certa quale insopprimibile insoddisfazione: è come se il bisogno di ritornare ad indagarla risorgesse incontenibile, come se, anche per la poesia, quel ripensamento dei fondamenti che percorre tutta la cultura dell’Occidente moderno non avesse poi consolidato granché nonostante i dibattiti e le evidenti conquiste. E’ come se, malgrado le certezze che tanto spesso assomigliano così tanto a dati acquisiti, su ogni nostro prossimo passo - quello che dovremo fare domani - continuassero ad incombere e ad accompagnarci sempre le stesse ottuse domande, la stessa paura, la stessa paralizzante incertezza.
Da tempo i poeti vivono distanti, si pèrdono e muoiono insepolti.
Il poeta oggi si trova, contro la sua volontà, contro la funzione stessa che il linguaggio gli assegna, nella condizione di un mandarino, come il fisico, il matematico, il filosofo che operano ormai su realtà talmente distanti dalla coscienza comune da essere incomprensibili - e quindi sono incompresi, e quindi ineluttabilmente soli.
La grande poesia europea si trova ad essere l’avamposto estremo e quasi perduto della coscienza dove arrivano, si interpretano, si trasmettono le informazioni su ciò che di visibile sembra apparire dell’oscuro destino che ci aspetta.
Oggi, da quest’inospitale e quasi irraggiungibile punto di osservazione è possibile indovinare (mentre nella città, dove l’aria comincia a mancare, si continua ad amare e a odiare come al solito) che non solo la via è smarrita e che davanti a noi si stendono solo misteriose, perverse, impraticabili opportunità, ma soprattutto, che quella che avevamo creduto la via percorsa in realtà una via non lo è mai stata: tutt’al più si è trattato di una serie di fortunate, sciagurate coincidenze, tratti sterrati, radure, guadi immeritati.
Non solo: oramai le osservazioni convergono sul fatto che siamo evidentemente impreparati all’evidenza di dover cominciare a costruire la nostra, quella vera, quella che ancora non c’è. Ciò è tanto più disperante perché non sappiamo dove dirigerci.
Intanto, mentre la città crede di vivere, l’inatteso incombe.
Ecco perché non della città parla oggi la poesia europea né delle parole della città essa si può servire; ma con fatica e dolore si forgia invece le parole rozze, dense, brucianti, che dicono l’orrore e la paura che ci stringono e ci crescono attorno.
La poesia europea degli ultimi due secoli è una ferita, è il luogo sensibile della coscienza europea: esposto, indifeso, dolorante e reattivo come una ferita sempre aperta.
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I. L’uomo è linguaggio. L’uomo diventa tale nel e con il linguaggio. Nulla esiste per l’umanità senza o al di fuori del linguaggio. Nessuna cosa esiste, nemmeno l’uomo, là dove manca la parola. Il linguaggio dà forme al mondo e lo apre all’azione dell’umano.
II. La poesia è, tra i tanti aspetti del linguaggio, uso totale, potenziato e creativo. Attraverso la pratica del linguaggio in tutte le sue risorse costitutive (semantiche, sonore, strutturali) la poesia lo mantiene vivo, produttivo, strumento e luogo di conquista, creazione e comunicazione.
III. La poesia è stata – e lo è tuttora – il regno dove sentimenti, emozioni, esperienze, ricevendo i loro nomi, sono diventati patrimonio culturale cioè strumenti trasmissibili ed utilizzabili per comprendere, dare un senso a ciò che l’individuo sente e che, altrimenti, rimarrebbe nascosto, oscuro.
IV. A un certo punto, nell’Europa del XVII secolo, per una serie di avvenimenti economici, storici, culturali concomitanti l’antico equilibrio tra uomo e mondo si è spezzato, quell’equilibrio che era durato tanto da introdursi nella mente e nei nervi dell’umanità come naturale, l’unico.
Attorno a questo asse ruotavano tutte le concezioni necessarie e sufficienti all’essere umano per fondarvi un senso: destino, sapere, morale, linguaggio. Ora, alla luce dei cambiamenti sopravvenuti, gli antichi fondamenti della condizione umana nel mondo cominciano a non funzionare più, a non rendere ragione delle domande, delle nuove emergenze in cui l’umanità europea si trova a vivere e a dover decidere.
Le risposte alla necessità di rifondare il rapporto uomo/mondo sono state molteplici, diverse, anche radicalmente diverse, divergenti. E’ stato un vagare alla cieca, sulla spinta dell’urgenza, verso terre sconosciute senza potersi mai fermare.
Noi, oggi, siamo ancora nel pieno di questa dolorosa migrazione.
V. Da più di due secoli ormai la poesia accompagna in questo viaggio l’Europeo.
La poesia può e deve continuare ad essere se stessa, ciò che è stata per tanti secoli: lo strumento per l’identificazione, l’espressione, la comunicazione di sentimenti, esperienze, pensieri. Ma si trova oggi obbligata, come tutti gli strumenti umani moderni, non solo a svolgere il suo compito, ma anche, allo stesso tempo, a ripensare il suo rapporto con il mondo: deve parlare contemporaneamente del dramma dell’umanità in viaggio nella tempesta senza direzione e di se stessa, del linguaggio.
La poesia porta, in questo errare, la croce della mancanza di fondamenti, della ricerca di fondamenti, della libertà da fondamenti. Nella poesia di oggi si esprime l’angoscia atterrita di ogni errare: il bisogno atroce di una meta e della pace, nel ripetersi inevitabile, in un’attesa forse vana, del sacrificio delle nostre piccole, ma uniche vite.
VI. La potenza senza freni della tecnica, liberato definitivamente l’uomo dalla natura, apre davanti a noi un mondo senza confini dove l’unica presenza che sentiamo è quella di un mistero infinito.
Essa ci arricchisce di inaudite potenzialità, ai limiti del comprensibile e, oggi come oggi, oltre il governabile. Le macchine che abbiamo messo in moto e che ora avanzano spinte spaventosamente solo dalla forza della loro inarrestabile logica ci hanno gettato in un tempo che è troppo lontano dai nostri vecchi millenni dove avevamo radicato le nostre concezioni di vita, spazio e tempo.
VII. Come Europei abbiamo fatto esperienza precoce, significativa e ammonitrice dei pericoli di cui sono gravidi questi grumi in corto circuito: la prima e la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, la proliferazione atomica, la rapina cieca delle risorse del pianeta. Nessun campo semantico, oggi, in grado di accogliere pienamente questi orrori né di dire il futuro che si prepara.
Qui abita il poeta, in trincee tanto profonde da sembrare tunnel oscuri che sboccano verso l’inesprimibile non-ancora-umano.
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La scomparsa della nostra vita sulla Terra è l’orizzonte entro il quale siamo chiamati a vivere, ad agire, a consumare le nostre così brevi vite. E con la coscienza che nessun Dio, ma noi, solo noi siamo responsabili, noi, così deboli così bisognosi d’aiuto, così tragicamente, assolutamente soli con noi stessi.
Questo è, deve essere, l’orizzonte terrificante della poesia occidentale. Di questo la poesia deve tentare di parlare, rendere ragione. Alla luce di questo sole desolante dobbiamo cercare di costruire la nuova dimora. Ogni altro orizzonte è falso, consolatorio, truffaldino, mortale.
Semplicemente dunque, la poesia deve cercare le parole per parlare di ciò di cui ancora non si può; deve tentare di dare un senso a ciò che ancora non può averne.
E con lo sguardo fisso sulla verità del baratro deve cercare di mantenere in vita la speranza.
Romano Morelli è nato a Liegi, Belgio, il 13 giugno 1953. Vive e lavora a Padova.Ha pubblicato due volumi di poesie: “E’ non è”, presso l’editore Rebellato, 1988 e “Questo essere”, Mimesis, 2013.E’ autore inoltre di un saggio su Hölderlin, “Su Hölderlin e il sacro”, nel volume collettivo: “Teologia della follia”, a cura di A. Martin e M. Geretto, Mimesis 2013.
Contro comodi oblii
Le battenti sequenze proposte da Giovanni Campi richiamano un universo poetico come sospeso in una sorta di statico dinamismo che apre varchi nella lingua per chiuderli subito dopo.
“nessun giorno senza notte”
è il titolo immediatamente replicato dal primo verso nel suo quasi identico contrario
“nessuna notte senza notte, e tutte”.
Primo verso che presenta sul finire quelle due brevi parole “e tutte” capaci di dare l’avvio all’intero, articolato, meccanismo compositivo di un testo che si sofferma ma non si ferma, che indugia eppure corre.
La forma è allusiva e tenacemente enigmatica.
Un enigma davvero complesso, quello di Giovanni, che riguarda
“la luce e ’l bujo, se di sole o luna”
ossia l’universo inteso come cosmo, congiunto, per via poetica, con l’umano linguaggio vissuto quale necessità espressiva mancante d’inizio e fine e, perciò, quale divenire della comunicazione nel suo stesso farsi, tra certezza e incertezza, suono e silenzio, splendore e oscurità.
Leggendo questi versi, avvertiamo un coinvolgimento inconsueto, una sensibile partecipazione rivolta verso l’esterno come verso l’interno e, alla fine, riconosciamo che il nostro stare al mondo è parziale e totalizzante, minimo e immenso, specifico e generale.
L’ossimoro quale forma di vita?
No, perché in questo caso è espressione di un’integrità maggiore in grado di opporsi a quel rigido determinismo che spesso si nutre di comoda disattenzione, di opportunistico disinteresse.
Emerge, così, in maniera netta, la radice etica di una versificazione il cui originale (quasi provocante) dire getta luce sulla complice superficialità di tanti atteggiamenti quotidiani tesi a mantenere nell’ombra taluni tratti non proprio edificanti.
Siamo al cospetto di una poesia morale?
Sì e anche coraggiosa. (m. f.)
nessun giorno senza giorno
(detti sdetti di gc)
nessuna notte senza notte, e tutte
l'insonni, come suoni sono – nulli
e nullannulla giorno men trastulli
la data tolta e stolta a voci sdutte
e quale sorge come giorno senza
essendo desta d'esso stesso giorno
la luce, adesso, d'esto bujo 'ntorno
contorno e non ritorno d'un'assenza?
dischiuso 'l chiuso d'uso sen consumi
il senno 'n sonninsonni, senza sogni
per ciò, né men che meno men bisogni
l'abuso 'l giorno 'n notti grumo a grumi
dissimulando símile la notte
a 'l giorno 'n copia o quasi 'l ver a' falsi
' sentieri d'ieri l'oggi pone 'nvalsi
a cosa? forse torre torri rotte?
fortezza 'ndéboli babèlbabèlica
minuta derivata 'n dismisura
di nulla sfigurando ogni figura
di giorni e notti, e spira – la matèrica
in spira e spira 'n fuga 'l moto immoto
opposta uguale ne ricerca diastole
la luce e 'l bujo 'n spera: spera 'n sistole
allora 'l frullo d'ali qual tremuoto?
innebulando senni e segni 'n vaghi
sentieri detti per errarerranze
di rada forma ' verbi ' nomi dianz'e
dipoi, se sdetti – van, e 'nvan divaghi
di giorno o notte non saper saperne
la luce e 'l bujo, se di sole o luna
l'imago: vago 'l dire d'altro o d'una
allora, e se superne o forse inferne
se forse nera o forse no, la luce
non bianca: allora come dire l'una
o l'altra, e l'un'e l'altr'o se? nessuna,
nessuna luce d'ora in poi, né 'n nuce
la luce allora nera come dire?
la volta avvolta nella notte senza
il giorno, senza luce, pura assenza,
cosí di notti e giorni a non finire
fino alla fine della notte – solo
che non finisce, giorni senza giorno
nascendo, senza luce, - tutto - attorno
s'intenebri 'n nonnulla: cielo e suolo
ma l'ultima non dire né tacere,
ascolta: ché ' silenzj forse parlano:
improprj verbi non comuni cavano
vocando – suoni, e vocj e cerchi 'n spere
perché per cosa 'l giorno dopo notti
insonni o quasi, come prima, allora,
essendo l'esser luce – nera dire d'ora
in poi la notte, l'una, e tutte, innotti
finché la fine possa non poterne
ancora, d'esser sé, ma come? e quale
di questa fine 'l fine? forse 'l male?
non c'è la fine, no, per cosa averne?
aver d'averne cose cosa come dire
di giorni e notti senza fin finiti
non piú cælicoli, gli dèi, se miti
'nqujeti, non equorei, e senza mire
se quasi bujo 'l giorno nel finirsi
la notte dir che incombe – come cosa?
s'incúba forse d'íncubi? non posa
di sé che tènebre? e mai da sfinirsi?
dirada 'l bujo 'l giorno ne gl'inizj
di che símile al símile s'assímili:
lo vedi o non ancora? le invisibili
visioni ne risveglj, e ' precipizj
vertiginando immoto moto d'ess'o
non esser copie o quasi d'esemplare
esempio l'émpia d'émpiti émpj 'l dare
tra l'una traccia e l'altre 'l voto 'l fesso
che come cosa dire d'ogni giorno
se non che come se non fosse notte
di poi, tra poco: dopo 'l giorno, rotte
che sian le rotte, via, non c'è via 'ntorno
ricorda: non di men dimenticare
di ricordare – cosa? non ricordi
di cosa, non di chi, dei suoni sordi
d'allora 'n voci di ora da invocare
che d'ogni giorno non si attenda niente
se non il giorno stesso, o d'esso giorno
la luce, ché la notte tutto intorno
la luce par sparire, e tutto e niente
ma quale giorno 'n cielo, o se: che forse
la terra 'n terra non di sé ricopra
talun talaltro corp'o cosa? ad opra
di chi, questa opera? non sen accorse?
e pure, a volte, 'n cielo, c'è, di giorno,
come una luce, non si dica questa,
del sole, no, non è soltanto questa,
la luce, forse quella – del ritorno?
ancora non ancora, se la notte
non c'è ritorno: l'ultima, da farsi
disfatta, e dirsi sdetta, 'n giorni apparsi
spariti, 'n sonni insonni, questa notte
ascolta: cosa ascosa 'l tuo volere
accolga pure giorni e notti quali
che sono adesso, e d'essi – tali ' mali
Giovanni Campi (Caserta, 1964). Suoi testi sono in rete (La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, etc.) e in varie antologie; vincitore della settima edizione del premio MAZZACURATI-RUSSO “i miosotìs” delle Edizioni d'if, è in attesa di pubblicazione del volumetto "babbeleoteca minuta" nella collana medesima; di prossima pubblicazione è anche il dialogo "l'irragionevole prova del nove" per i tipi della Smasher Edizioni nella collana "orme di teatro".