Se poesia è “agire al di sopra di ciò che si riesce a pensare”, come scrive Nanni Cagnone, se “i poeti interrogano il linguaggio al di sotto delle sue falde discorsive, che così tanto assomigliano alla superficie anonima delle cose”, come afferma Flavio Ermini, esiste sicuramente molto spazio da abitare poeticamente. Ovunque si pongano, i poeti smascherano il mondo osservandolo dai margini. Tra al di sopra e al di sotto si apre senza protezione una zona multiforme, una lunghissima crepa, l’ombra di un’inappartenenza, un’atopia dove radicarsi, una continua partenza, un esilio senza terra da raggiungere, una ferita che non sanguina.
Tutto quello che segue, a partire dal ricordo di Tiziano Salari, nasce dall’esperienza del “Montano 2014”, tra poesia, saggio e prosa poetica.
Ricordando a tutti i poeti, narratori e saggisti che l’edizione 2015 è appena iniziata scarica il bando della 29^ edizione, auguriamo buona lettura.
Immagine di copertina: dipinto di Paolo Corsino
Relazione tenuta l’8 novembre 2014 a Verona, nell’ambito del Forum di Anterem
Per ricordare Tiziano Salari
Un altro dire
“Di un altro dire”: un dire di cui il pensiero e la parola di Tiziano Salari sono fortemente intrisi.
Partiamo allora da questa suggestione: che Tiziano Salari sia qui, come altre volte in passato, all’interno di un Forum dedicato ad “un altro dire” proprio in quanto, di questo altro dire, errante e intenso testimone.
Non possiamo permetterci, nel delineare un suo ricordo, altro che seguire le suggestioni che provengono dalla lettura dei suoi lavori; autorevoli critici ne hanno accompagnato e valorizzato i percorsi saggistici e poetici prima e dopo la sua recente scomparsa.
Che Tiziano Salari sia, nello stesso tempo, ospite e viandante di un altro dire è la prima impressione che suggerisce la sua ricerca, volta a cogliere le connessioni tra pensiero e parola poetica, a partire dalla convinzione della “centralità di ogni esperienza nel linguaggio”(Sotto il vulcano. Studi su leopardi e altro), e insieme tesa a dislocarsi, a sfidare visioni tradizionali, “disarticolando” come scrive “le mappe conosciute“ (Il Pellegrino Babelico) verso “nuove forme di pensiero…radicate in un terreno inesplorato” (Essere e abitare. Appunti di lavoro dell’Autore).
L’impressione successiva deriva dalla vastità dei temi e dei modi con cui tale “terreno” incognito viene esplorato, scavato, creato da Salari nella sua ricerca inesausta.
A partire dalla pluralità di approcci e di punti di vista, in un intersecarsi continuo di filosofia, critica letteraria e poesia, con cui, nel solco delle analisi che nel novecento hanno attraversato filosofia, ermeneutica, psicoanalisi, linguistica, Salari affronta questioni e relazioni ontologiche e poetiche.
Per articolarsi poi nel capovolgimento delle modalità espressive tradizionali che lo conducono all’interrogazione filosofica nei lavori poetici e, viceversa, ad evocazioni di immagini e sensazioni nei lavori saggistici e di critica.
E ancora, riprendendo alcuni titoli dei suoi lavori, collocandosi “Sotto il vulcano”, nella riflessione che, a partire dal tragico in Leopardi e dal radicarsi della ginestra nel deserto, si muove nella vertigine di quel “(Il) grande nulla” che nel pensiero e nell’arte del novecento troverà il suo fiorire.
Oppure ne “Il fruscio dell’Essere”, nei suoni e negli echi che mettono in gioco, insieme, la poesia e l’essere, a partire dalle “desolanti suggestioni” che, nella citazione di Baudelaire salgono verso l’alto, nel tentativo “di tradurre in canzone il grido stridente del Vetraio”, fino a quella diversificata sperimentazione poetica e sonora che nel secolo scorso arriverà a musicare il silenzio.
Nei labirinti e nelle erranze del dire
La suggestione che deriva dalla lettura dei lavori di Tiziano Salari è che la sfida all’inesplorato sia un continuo viaggio, tragico e vibrante, nel pensiero e nel linguaggio, nella filosofia e nella letteratura, tra i libri e nelle metropoli, all’interno delle biblioteche e del corpo, nell’umano e nel mondo, nel nulla poetico e in quello esistenziale, nella poesia e nelle macerie della contemporaneità.
Percorrendo molteplici e contrarie direzioni, abitando e dislocando gli opposti, ovunque si annidino i luoghi nascosti o i frammenti dispersi dell’inesplorato.
Che si muova in un luogo reale o letterario, nello spazio del mondo o del pensiero, nella biblioteca de “Il Pellegrino Babelico” o nei paesaggi metropolitani e poetici di “Essere e abitare”, ne “Il fruscio dell’Essere” o ”Fuori di sesto”, come titolano alcune opere, la sua ricerca, sempre tragicamente irrisolta, oscilla tra i meandri e i terrori dell’incognito, che non consentono vie d’uscita e di senso, e il terreno instabile della vita, dai molteplici sensi dispersi, dolenti.
Dislocandosi nei luoghi del chiuso e dell’oscuro, in una biblioteca, una torre, una selva, una metropoli, che, pur riverberati di rimandi e pluralità di voci, restano intricati, murati o, viceversa, nei luoghi dell’aperto e della dispersione, della viandanza, del dolore.
Nei labirinti e nelle erranze del dire.
“Tra il labirinto dei corpi e l’inizio della parola”, come sottotitola la raccolta di saggi curata con M.Fresa “ La poesia e la carne”.
Ci chiediamo allora dove inizi e conduca la parola che sa di dover fare i conti senza tregua con i labirinti del proprio oscuro e della propria indicibilità e che, nello stesso tempo, si perde e disperde nelle sue erranze interminate.
Quale tragica fine evidenzi la condizione del limite e, nello stesso tempo, quali nuovi inizi e rinascite questo limite consenta, nel “sublime della ripetizione”(Il Pellegrino Babelico), nel rispecchiarsi, a volte deformante a volte illuminante, di voci.
E a quali abissi e disfatte porti l’erranza senza limiti, nei territori disgregati e inospitali, e insieme a quali leggerezze, evaporazioni, “tra le torri evaporate dell’essere”(Fuori di sesto) o verso l’irreversibile nulla.
In ogni caso, suggerisce la voce sofferta di questo pensiero insieme babelicamente recluso e libero, il dire è smarrito, sradicato, straniero.
“Essere bilingue, multilingue,” scrive Tiziano Salari “disorientato e/ straniero nella propria lingua/in una sola lingua sradicato “ (Il fruscio dell’Essere).
Abbracciare l’inconciliabile
Ci domandiamo quale dire possa riuscire a sostenere tale disorientamento.
La suggestione è un dire che nei lavori di Tiziano Salari si fa interrogante e meravigliato, pensoso e vibrante, vertiginoso e desiderante, dolente e vitale.
Perché la sfida è appassionata, il rischio quasi insostenibile.
Un dire che si fa altro, sradicato tra il perdersi nei meandri dell’assenza e della morte e il desiderio fisico e conoscitivo che vorrebbe toccare il senso dell’essere e dell’esistere.
Nel tentativo di abbracciare l’inconciliabile.
Un tentativo che nei lavori poetici di Salari si muove tra i “perversi connubi di strazio e beltà”(Il Pellegrino Babelico), tra il rischioso sfidare la vertigine e gli abissi, il vuoto, il nulla e un dire desiderante che abbraccia finitudine e bellezza, assenza e presenza, mortalità e vita, nell’affrontare, con “parole che ci scuotono nel profondo” (Il grido del vetraio) , il tragico e il carnale, il desiderio e il dolore, il destino individuale e quello dell’umanità.
3 Così come, nei lavori di riflessione sulla poesia, il pensiero scorre tra le tensioni di una lettura critica attratta, da un lato, dalla voragine del nulla e, dall’altro, da una parola radicata nella vita, in una sofferta carnalità, tra, riprendendo i titoli di alcuni suoi lavori, “Il grande nulla:percorsi tra Otto e Novecento” e “La poesia e la carne. Tra il labirinto dei corpi e l’inizio della parola”.
Da un lato la sfida mortale per la bellezza e la verità di un suono, di un dire da strappare alla divinità, con “Le tentazioni di Marsia”: “La poesia è dunque una sfida a dio? Una sfida alla verità?” (Le tentazioni di Marsia. Su quel che resta da fare ai poeti e ai loro critici), si chiedono Fresa e Salari, curatori dei saggi.
Dall’altro la ricerca continua “sui sentieri infiniti della vita”, come scrive Salari, per “uno spazio nuovo di congiunzione nella scrittura per la poesia e la filosofia”, che con “Le asine di Saul” capovolge le vie dell’erranza in destino.
Alla ricerca del destino del dire poetico, la riflessione di Tiziano Salari sulla poesia è in dialogo continuo, come attestano alcuni sottotitoli “Il grido del vetraio. Dialogo sulla poesia” “Essere e abitare. Da New York a Parigi. Dialogo sulla poesia e le metropoli” e come evidenziano il confronto continuo di punti di vista e la passione di cui sono pervasi i suoi lavori, tesi a nuove forme di pensiero, a un altro dire che pronunci, insieme, consapevolezza e inquietudini, analisi critica e smarrimenti.
Tra rispecchiamenti e abbandoni dell’io
Ci chiediamo quale soggetto possa osare questo altro dire, tragico e inquieto.
Non può che farsi altro il soggetto di Tiziano Salari, in oscillazione continua tra autobiografia e spossessamento, tra rispecchamenti e abbandono dell’io.
Il pensiero, l’arte, la musica, la poesia del novecento sono stati attraversati, consumati dal bisogno di spossessamento e di dimenticanza dell’io.
Scrive Salari: “Oh spostare lo sguardo dalla pietà/per se stessi all’infinito accadere,/all’essere da cui sgorgano gli eventi,/ ai perversi connubi di strazio e beltà” (Il Pellegrino Babelico).
E ancora: «curvo sul balcone scruto nel fondo di un me stesso sempre più affievolito, disserro i palpiti di un io dissolto» (Quotidianità della fine).
La frantumazione dell’identità, che si mostra in modi diversi, nel doppio, nel sosia, nell’ombra, nello straniero, fino al suo oblio, attraversa le opere poetiche di Salari da “Grosseteste e altro” a “Strategie mobili”, da “Alle sorgenti della Manque”a “Il Pellegrino Babelico”, da “Quotidianità della fine” a “Il fruscio dell’Essere”.
Dall’arte informale alla musica casuale, l’opera, nel novecento artistico, poetico e musicale, prende il sopravvento rispetto all’autore; scrive Tiziano Salari: “l’opera reclama/il sentimento di sé/per mezzo della forma/nella perdita del nome” (Quotidianità della fine).
Tale perdita non può che determinare una dislocazione dalla centralità del soggetto alle questioni legate al senso, alla verità e, nello stesso tempo, dopo la perdita di ogni fondamento di verità, allo smarrire del senso, al vuoto.
Tra ricerca della verità e insensatezza
“Non so decidermi” scrive Salari “a rinunciare al concetto di verità, e alla ricerca delle vie per attingere la verità” (Essere e abitare).
L’interrogazione sulla parola poetica fa costantemente i conti, nel suo pensiero, con la “ questione della verità e del rapporto tra poesia e filosofia” (Essere e abitare.
Appunti di lavoro dell’Autore), nel solco delle riflessioni filosofiche ed ermeneutiche novecentesche, ma, come scrive, “in una sorta di dislocazione della critica su un terreno confinante con una nuova e inesplorata teoria della conoscenza” (Essere e abitare. Appunti di lavoro dell’Autore).
La sua ricerca filosofico-letteraria sulla verità spazia dagli aspetti ontologici a quelli conoscitivi, da quelli estetici a quelli etici, tra “poesia pensante” (Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro) e dimensione etica, come testimonia l’attenzione al pensiero e alle opere di Leopardi e Spinoza.
La suggestione è ritrovare le vie labirintiche e dell’erranza anche nella tensione alla verità del dire, tra la ricerca del senso della verità dell’essere, che, assistendo, come scrive Salari, “alla deriva della tradizione filosofica occidentale” (Essere e abitare), si scontra con l’impossibilità di trovarne i fondamenti, e la dimensione della vita, quest’ultima divenuta oggetto e destino sia della poesia che della filosofia nell’età post lirica, dopo la fine della tradizione occidentale di entrambe.
Di fronte alla perdita dei fondamenti ontologici della verità, la suggestione di un dire che cerca la verità nella vita: propriamente “sul terreno della nuda vita” (Essere e abitare), scrive Salari, “come l’uomo, gettato nel linguaggio, senza più fondamenti … si radichi nella vita e nelle diverse forme di erranza” (Essere e abitare.
Appunti di lavoro dell’Autore).
Di fronte allo screpolarsi del senso, la suggestione di un dire desiderante che vorrebbe abbeverarsi a rivoli di senso: “guardando/in faccia il dolore fino alla sorgente/impietrita, nelle iperboree/regioni dove il senso/in tante parti si screpola” scrive ancora Salari “e ciò che ci intrattiene nei mondi/è la desiderante mancanza di un rivolo/di senso a cui abbeverarsi”. (Il fruscio dell’Essere).
Per giungere a ricercare, nelle forme dell’abitare, come afferma, “non tanto il senso, quanto quel soffio di vitalità o di morte che mantiene in vita le differenze, e fa sprigionare, dal fondo di ogni situazione umana, “ l’Essere che vale fra tutto l’Essere”: la poesia” (Essere e abitare).
“In bilico sull’orlo”
Un dire altro, quello di Tiziano Salari, che si muove tra visibile e invisibile, luce e oscurità, tangibile e intangibile, “nello svuotante vuoto” come scrive “ che separa
il visibile dall’invisibile/mantenendosi in bilico sull’orlo/nel colmante colmo dell’essere”(Il fruscio dell’Essere).
E ancora tra il ricercare l’inudibile e il fare risuonare il dire: “questo suono non è altro che l’eco di un altro suono/che non è stato mai udito/ma preme attraverso gli accordi/imbrigliati nella zona/più antica della mente” come scrive, nella tensione “di fondare un nuovo mondo/che a diversa sorte ci riserba/nega l’accesso, scavando/un’incrinatura nel fruscio dell’essere” (Il fruscio dell’Essere).
“In bilico sull’orlo”, tra vertigini e vuoto, tra finitudine e oblio.
La suggestione è che a trovarsi “in bilico sull’orlo” sia l’intera umanità: tutti i filosofi, i poeti e gli scrittori convocati da Salari nel rispecchiarsi dei suoi labirinti, gli esseri erranti tra le meraviglie e le desolazioni dell’esistere, le figure assunte a simbolo dello smarrimento e della crisi.
In bilico tra il dire della tradizione poetica e filosofica e un dire altro, che si spinga in un pensiero “fuori di sesto”, oltre gli estremi tracciati da un compasso rassicurante nei modi del conoscere e dell’abitare il mondo.
Tra il nulla e gli “strimpellatori rock”
Dolente e “Fuori di sesto” è il dire che fa i conti definitivi, come scrive Salari nel suo ultimo, omonimo, lavoro poetico, con “l’attimo/da carnefice”, il “male/assillante” e “nell’attimo il precipizio dell’oblio” quando “i mattini di luce vagante di collina in collina gravavano come una colpa sui fuggitivi dal nulla, che vanno verso il nulla” (Fuori di sesto).
Nel suo sradicarsi dalla contemporaneità, nel saluto che pronuncia, lasciati alle spalle, “agli dei di Hölderlin e al cielo stellato di Kant/nel divenire noi postumi di tutto il bene e il male/della Storia” e nell’incamminarsi irreversibile verso il nulla, come afferma: “Andare, il viaggio nella steppa sconfinata, nel deserto, sulle acque dell’oceano./ Poi ci voltiamo, il nulla. Dal nulla andiamo verso il nulla” (Fuori di sesto).
Una storia personale e dell’umanità che, come ultima suggestione, ci viene consegnata da Tiziano Salari, tra il “silenzio interiore” e il brusio esterno, tra, come scrive, “il cupo rovescio del mondo” e il cerchio ampio di vite”, tra “il nulla” e gli “strimpellatori/rock” (Fuori di sesto).
Forum Anterem 2014 “Di un altro dire“ 8.11.2014 Laura Caccia
Dalla prefazione di Mauro Germani: Da dove provengono le visioni che ci consegnano questi nuovi versi di Marco Ercolani? Esse sembrano venirci incontro un attimo prima del loro dissolvimento, colte nel loro passaggio segreto, in quella zona di confine – prossima e familiare insieme – in cui poesia ed esistenza si sfiorano e poi si tramutano l’una nell’altra, per dileguarsi infine nell’ombra totale. (...)
***
Pelle contro pelle,
ombra contro ombra,
con l’impulso di rinascere ancora,
furiosi e muti.
Fingere di non scrivere più, per estasi.
Per estasi, scrivere ancora.
Le pietre tornano vento, se sono guardate.
Rotolano libere, non gravi.
Slanciate oltre la terra, fiamme fuse nell’aria,
scelgono il loro inizio.
Ci sarà mare, domani. Un blu senza limiti.
***
Sprofonda nei bellissimi giorni.
Nessun punto della sua pelle che non gli appartenga.
Molte vite per accarezzare quelle ore.
Nei giorni splendidi si dice che le voci tremino,
e le dita. E gli occhi cambino colore.
Nel sonno futuro un si minore, inudibile.
***
Nessuna forma, ma un canto trattenuto dalla voce.
Una parola stretta nelle labbra premendo la lingua.
Questo guardarsi ora.
Il lungo strappo negli occhi.
I ritmi dell’aria, i riti del respiro.
Le montagne capovolte, le nubi fitte.
Cresce pietra nelle frasi non dette.
Finestra chiusa. Fine di tutto. Parole mai scritte.
Ritrovare un punto, nella neve, culmine della bufera.
Dopo, l’ombra totale.
Marco Ercolani (Genova, 1954). Tra i suoi pensieri dominanti: la scrittura apocrifa, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia. Pubblica, per la narrativa: Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte e A schermo nero. Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura e L’opera non perfetta. In coppia con Lucetta Frisa scrive L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane e Sento le voci. Nel 2010 pubblica il suo primo libro di versi Il diritto di essere opachi.
Dalla postfazione di Giampiero Marano: (...) Nicola Ponzio trasmette e condivide con il lettore più attento una conoscenza, e non semplicemente un’esperienza. Nel libro si alternano due voci, graficamente distinte dall’uso del corsivo e del tondo. La principale è quella di un cadavere di donna in decomposizione, abbandonato sulla riva di un fiume. La seconda voce, più difficilmente identificabile, è quella di un voyeur, ma nello stesso tempo coro o anghelos tragico, che riferisce le fasi della putrefazione senza adesione, quasi con freddezza da anatomopatologo. (...)
E’ lecito rintracciare l’origine del Mio nome nel tuo nome nella dialettica mai risolta fra l’aspirazione a svelare il mondo mediante il linguaggio e la consapevolezza della sortedi precarietà liquida toccata inesorabilmente alla parola. (...)
da Dell’acqua
***
dell’acqua profonda è sodale
la lingua che dubita, annaspa
e s’incava – che duplica
e inquieta, abitando l’erranza
***
sommergimi, - rispecchiami dissetami
e poi affogami. – esfoliami il viso
e rinfrescami, stringimi. – infangami
rifrangimi svaporami. – macerami il fegato
e poi schizzami, sbiancami. – gonfiami
i seni, inumidiscimi. – corrodimi
scolorami inondandomi. – levigami
i piedi e poi trascinami, lavami. – impregnami
i capelli quindi avvolgimi, increspami.
dissolvimi cullandomi decantami.
da Agnizioni
***
accendi l’umiltà con le parole
dove c’è disfacimento.
tra l’aconito e un telo di nylon
disteso nell’atrio.
accedi a questi luoghi marginali
seminando le sembianze.
esponi alla presenza il tuo linguaggio.
***
scrivo. tu non mangi con me? qui –
dove la morte non ha regno.
ho metabolizzato pane
e tempo. tu non leggi con me?
qui c’è l’ombra, - qui l’acqua.
il delta che comprova la mia orma.
Nicola Ponzio vive e lavora a Torino. Poeta e artista visivo, ha pubblicato Gli ospiti e i luoghi (Nuova Editrice Magenta, 2005), L’equilibrio nell’ombra (Lietocolle, 2007), Esercizi del rischio (e-book, Biagio Cepollaro e-dizioni, 2007), Scanning (con fotografie di Paolo Mussat Sartor, Corraini Edizioni, 2014).
[Prima lezione di Luce]
I
Le sette sorelle parlanti spossessano d’innocenza
le sette sorelle più non guardano dall’alto se dall’alto vedi.
Effusa dal mare tra sciara del fuoco e vento
imparare è solo perdita, perdita di bellezza.
II
Memento anima! Innocenza sei e tornerai.
Nel giardino liquido il giglio bianco protegge
il fuoco dai margini taglienti d’ossidiana
e il sartiame rizza gli alberi nella tempesta di vetro.
III
Ciascuno abbia pietà della sorte.
Niente, non c’è più niente. L’aria ha preso
del niente la forma. E il resto solca un mondo
spinto per la strozzatura d’una bottiglia.
IV
Non posso rifare lo stesso percorso.
Corpi raggiano e rimango solo per vederli
non smettere di cadere.
Cædere!
V
Non sorprenda morire. Precedono sontuose corolle
mentre impreparata continui valigie
ripieghi corredi di luce.
Tu, anima: raggio che cade!
[Prossemica]
So cos’è una distanza:
il tempo della palpebra
sull’occhio. Non avvicinarti
alla dimensione nascosta.
La lingua muta
lo spazio parlante.
Non puoi mandar via
selvagge distanze di fuga.
Non capire tutto
intatto è il regno.
L’orma sorge dal gorgogliare
di dorsale divina.
E non c’è niente di umano
nel senso della fine, nel capo
sul muro a secco: è il posto
delle zagare. Lasciatemi in pace.
Vivere di continuo è sisma. Slaccia
talora le mani. Nulla ricordo ma la vita
da sé a se stessa rinvia. Ho tenuto
nel grembo l’esilio, m’ha tenuta.
Non il dolore - unisce
separatezze, elimina spazio -
ma il nome differisce l’approdo.
Nell’intervallo, la musica.
Miseria vivere dove tutto è presenza.
In prossimità limbale fletti il tono
nella rivelazione niente da salvare.
E non manco di nulla se ciò che manca non esiste!
Non la presenza ma lo spazio timbrico.
Nessun intervallo qui e ora.
E l’altrove un’invenzione
sì, ma da raggiungere a volo.
***
Ci riconosce l’urlo
da questo zollarci
come nascondigli, semi
con le mani spaccate dal vero
la promessa, nel remoto
d’uno specchio d’acqua
in fondo alle gallerie esagonali
della biblioteca perduta.
[Release]
Qui non c’è timbro
né storia
solo me transitorio d’attacco
nella vuota insorgenza
- ascesi in ampiezza
ciò che non percepisco
mappa di tràdite onde
non comprensibili d’isola in isola -
Credi sia storia prima
dell’estinzione e altro non è
che decadimento
diminuzione d’ampiezza
o morte
o dio.
Appena nell’invisibilità
divento me non divisibile
inviluppo trino che non tiene
ma lo spettro subisce mutamenti
- sublime non trattiene sublime -
instabile être vivant
tento l’intonazione del mare.
Maria Grazia Insinga è nata in Sicilia il 20 aprile 1970. Dopo la laurea in Lettere moderne, gli studi in Conservatorio e in Accademia, l’attività concertistica e di perfezionamento e l’insegnamento nelle scuole secondarie, si trasferisce nel 2009 in Inghilterra per poi ritornare in Sicilia nel 2013. Si occupa di ricerca musicologica - ha censito, trascritto e analizzato i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo - suona in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte presso l’Istituto “Vittoria Colonna” a Vittoria (RG). Ha ideato il Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale” - La Balena di ghiaccio - che si pregia del sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando e del patrocinio del Cantiere del Seme d’arancia di Emilio Isgrò.
Antonello da Messina, Virgin Annunciate, 1476 (Palazzo Abatellis, Palermo)
Alla fine scopri che il tuo vero grande amore è stata una porta. Cesare Viviani
Eludiamo il corporeo. Come la musica, puro movimento che elude l’oggetto da cui proviene. O come il timbro della voce leggente che elude la plumbea dimensione dei caratteri tipografici. Oppure le pagine dell’Annunciata – puro zefiro d’ali - che eludono l’angelo. Musica e parola leggente, frutto di discretizzazione del continuum, sono oggetti metafisici. È vero. Ma è vero pure che hanno un unico obiettivo: raggiungere la corporeità del fruitore sorpassando le sovrastrutture intellettualistiche.
La mia meta è fisica. E nella scrittura, nell’arte questo significa forse tornare al corpo tradendo in parte quella visione metafisica ma senza potere da essa prescindere. È un procedere dalla fisica sinestetica della nascita alla metafisica di una crescita razionale fino ad arrivare - di nuovo - alla fisica della maturità (o dell’aurea dissennatezza!).
Va bene, va bene..! La bellezza risulta dalla capacità di discretizzare il continuum sinestetico nel discontinuo del pensiero, della parola e dell’arte… bla, bla, bla; ma io sento, sento l’urgenza fisica di riportarla poi con un colpo di scena nuovamente all’informe primigenio tramite la corporeità del suono, della prosodia, di una scrittura “timbrica”.
Questo mi induce a utilizzare anche un sistema musicalmetrico: riprodurre un suono di cui si è perduta la corporeità per il tramite delle dita tamburellate in arsi e tesi. E le parole trovano posto nella composizione - il loro posto - quasi si trattasse di un’accordatura nella geografia del verso. Spostarle, poi, diventa difficile per me. Più alta avverto questa difficoltà maggiormente soddisfatta è l’urgenza di suono, di corporeità.
La rivelazione dell’Essere e di ciò che è esistente (dunque cultura) non è improvvisazione, inattesa e comoda epifania; ma lavoro che affina la congerie dell’esistenza nel discontinuo dell’arte e della parola solo per ricondurla consapevolmente (magari anche stoltamente) al continuum di un tempo primo. In questa deperibilità della bellezza – ché la bellezza sta nella deperibilità della bellezza! - in questo disfarsi del corpo che vuole tornare alla terra c’è la ricerca – la mia ricerca - di unità, di eternità, di poesia.
Varcare la soglia è riportare il noto - razionale frutto di affinamento per così dire metafisico - verso l’ignoto. Significa trasformare quel processo - che conduce il codificato esistente (cultura) al continuo del flusso primigenio (natura) - in un luogo fisico, un varco. Lo spazio timbrico ha in questo contesto un’importanza determinante. Il timbro, il suono è l’ultima coordinata concessa che mi consente - anche a occhi chiusi e in anticipo sul pensiero - di trovare la strada, il coraggio di varcare la soglia. Di vedetta sul Caos a occhi chiusi, dunque, m’abituo al dettaglio che era metafisico per ravvisare la parola al solo tocco d’avorio. I suoni più piccoli, lo so, rimarranno impigliati nelle zampe alate di serafini senza sosta e continueranno a posarsi su rami altissimi a sostenere l’eminenza del luogo, del logo…
La porta meta fisica è passaggio dal sacro al profano; secolarizzazione dell’immagine di Cristo in Uomo-Cristo-poeta. Ma sollevare il mondano al sacro, secolarizzare il sacro equivale forse a sacralizzare il mondano. Mi vengono in mente i portali delle Chiese, metafora di Cristo dove Cristo è metafora clipeata di se stesso: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (Gv 10, 9). Dall’ordine al caos, l’unica presenza divina con funzione apotropaico- tutelare è, quindi, il suono e in ultima istanza la flagranza della poesia, di uno zefiro d’ali.
L’universo linguistico fortemente simbolico che prolifera attorno al sema ‘porta’ sottende al cambiamento di stato, al passaggio. È Ermes - psicopompo protettore dei passaggi fatti via terra
- a incarnare lo spirito di questo attraversamento. Il messaggero di dio funge anche da interprete
e dal suo nome deriva, infatti, la parola ermeneutica, l’arte di interpretare i significati nascosti. Non per nulla, è anche il dio degli oratori, della letteratura, dei poeti nonché rappresentante del lógos. Non per nulla, il piccolo messaggero inventa nel suo primo giorno di vita la lira con la quale incanterà Apollo.
Se la metafisica è anche ricerca del fondamento, ossia di ciò che spiega il reale, “la porta meta fisica” è la ricerca del fine o della fine, del suono inteso come ponte di passaggio tra il mio
pensiero e il mio corpo, il discontinuo e il continuum, il razionale e l’irrazionale, la lucidità e la dimensione onirica, tra il fondamento e il fine, la fine.
Nadežda Mandel’štam, moglie del poeta Osip Mandel’štam, scrive: “Mi sembra che per un poeta le allucinazioni dell’udito siano una specie di malattia professionale. La poesia comincia così. Molti poeti l’hanno detto, dall’autrice del Poema senza eroe allo stesso Mandel’štam: al loro orecchio risuona ossessiva, prima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale. Mi è capitato di vedere Mandel’štam che cercava di liberarsi da uno di questi ritornelli, di scuoterselo di dosso, di sottrarsi al suo potere […] La Achmatova raccontava che, quando fu assalita dalla melodia del Poema, avrebbe fatto qualunque cosa, pur di liberarsene: si mise pure a lavare i piatti, ma senza risultato. A un certo momento, attraverso il tessuto della frase musicale si facevano improvvisamente strada le parole e allora le labbra cominciavano a muoversi. È probabile che il lavoro del compositore e quello del poeta abbiano qualcosa in comune e che la comparsa delle parole segni il momento critico che distingue fra loro queste due forme di creazione” (L’epoca e i lupi, trad. di Giorgio Kraiski).
Quando la notte scuote le ossa, oscillo come una scultura di Calder contigua al cosmo per divina differenza e mi espando, discontinua. Non vedo muschio: il mio ago scuce il Sud, l’isola nell’isola dell’isola. Sono pronta. Chi mai vorrebbe trovarmi! I musici non ci sono per nessuno; vivono altrove a fomentare la notte in ascolto da ere, a discretizzare da quel tempo primo pulviscoli di scomposta bellezza e a riportarli poi oltre la soglia del sonno, del suono.
È in questo percorso che la parola sancisce la sua definitiva volontà a distaccarsi dal noto per rivolgersi all’ignoto irresistibile, alla sua musica, alla residua flagranza della luce, alla porta azzurra. Maria Grazia Insinga
Dalla prefazione di Alessandra Pigliaru: (...) La nominazione è faccenda assai complicata.
Determina un soggetto che abbia coscienza di essere tale e una lingua da considerarsi familiare.
Nominare le cose conforta sulla possibilità di mantenere in vita l’ossessione del passaggio. Eppure alla nominazione è sottesa un’ambivalenza linguistica di fondo. Insieme al nome, come suggeriva Blanchot, si decreta una sentenza di morte. Un trapasso necessario potremmo dire, proprio perché nominare riferisce di una scomparsa e insieme di una resurrezione nella parola.La poesia, che non soccombe all’ombra dell’algido concetto, mostra questo turbamento del linguaggio in tutto il suo tremore. Nei pressi di una nominazione tradita e riconsegnata alla visione poetica, incontriamo l’opera di Enrico De Lea. L’iride si stempera e racconta di un occhio che sonda al di là. (...)
***
Vuoti come ombre, eppure sono
carne che vocifera, corpi di donna o d’uomo
con ogni alibi morale, cogli umori animali.
Per la semente, per la testimonianza
assente – il passo del dominio sui dirupi.
***
Come una moneta di antico conio
che risuona a terra, nel distico
di un interstizio e lungo il tempo – nel tempio
sconsacrato d’ogni vicolo, senza
che un ciottolo leso e levigato possa
darsi pena della sottostante scure.
***
Neri suoni a costruire case,
dove l’acqua possiede il corso
dei corpi nell’agire. Nel mistero
della fondazione originaria,
dagli occhi verso oriente
l’ulivo con la vite ed ogni pietra
nell’utile erigersi.
Per vie d’acqua il legname
che tradimmo.
***
In un’ascesi che non ha memoria, nulla
del deserto, ma una sorte di arenaria spenta,
col racconto paterno, col racconto spezzato
in un’arabia di ruderi, nel greto
degli olivastri, nati a salvazione ed a sembianza,
in cima e col teatro celeste, ancora nulla.
Enrico De Lea (nato a Messina il 25.7.1958), dal 1988 vive nell’alto-milanese, dopo aver vissuto in Sicilia tra Messina e la Valle d'Agrò (in particolare Casalvecchio Siculo), a nord del taorminese.
Ha pubblicato: “Pause” (Edizioni del Leone, 1992), "Ruderi del Tauro" (L'arcolaio ed. , 2009, Finalista al Premio Lorenzo Montano 2010 – Verona), “Dall'intramata tessitura” (Smasher ed., 2011), “Da un'urgenza della terra-luce” (La Luna ed., 2011).
Suoi inediti sono stati premiati al Premio Poesia di Strada 2010 (Macerata – Festival Licenze Poetiche), dove è stato finalista nel 2011.
Con inediti è stato finalista al Premio Miosotis 2010 e 2011– Edizioni d’IF – Napoli.
Nel 2011 è stato, altresì, finalista al Premio Lorenzo Montano 2011 – Verona, con la raccolta inedita “La furia refurtiva”.
Suoi testi sono apparsi sulle riviste Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier (su cui è stata anticipata Acque reali, poi sezione di Ruderi del Tauro), Registro di poesia; in rete, suoi testi sono apparsi, fra gli altri, su La poesia e lo spirito (di cui è collaboratore), su Rebstein – La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Compitu re vivi, Imperfetta Ellisse, Poetarum Silva, Carteggi letterari.
Dall’aletta: (...) Verso l’immobilità astratta della traccia: tratto, parola. Vuoto, incàvo oppure interstizio che soltanto può essere accerchiato, recintato: la cavità richiama colloca richiede. Qui: questo luogo spoglio, scabro, frattura: da cui scaturisce e attinge la cifra riarsa, il limite dissonante, le chiazze sulla materia forma di sé stessa.
***
LITANIA:
sudario.
Trafigge ciò che nomina.
Rivela
l’esatta dimensione:
nessuno, niente.
***
QUESTO
luogo frana
delle parole pietre
della ruggine
versata.
Vi repelle: le sue scorie,
la sua pura maceria minerale.
***
MACCHIARE IL BIANCO: RAG
giungere il bianco:
disseppellire l’aria:
la cavità del nome:
nominarla:
***
PARLO
per toccare la parola che nomina:
per toccare ciò che la parola
nomina.
Miguel Ángel Cuevas (Alicante, 1958) è un poeta spagnolo.
Poeta, traduttore, professore di letteratura italiana presso l’Università di Siviglia. Studioso del Novecento, ha tradotto e curato edizioni spagnole di Luigi Pirandello, Pier Paolo Pasolini, Vincenzo Consolo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Angelo Scandurra, Maria Attanasio. Ha tradotto e curato edizioni italiane di José Ángel Valente.
Per la poesia ha pubblicato, in Italia, 47 Frammenti. Ha realizzato con l'artista Massimo Casagrande i libri d'arte Scrivere l'incàvo, omaggio a Jorge Oteiza, e Huesos sobre papel. Con lo stesso artista ha pubblicato per Il Girasole Edizioni 2011, Valverde (CT), Escribir el hueco.
La casa del padre
Erompa che vuole
(“Edipo Re”, Sofocle)
Paolo Corsino
1. Prologo
In questo tramonto di ceneri, un urlo.
La casa del padre ha quattro mura di fuoco. Lungo le pietre serpeggia un drago. O è un geco gigante. Intorno il turbinio del vento sull’architrave. Il tempo affamato di piaghe.
Ora che la casa del padre ha mura di fuoco, “La guerra è perduta”, dice la sentinella. “Nel bosco, sulla rupe alta c’è un incendio. La reggia è caduta.”
Ora che anche la bocca è una pustola di dolore. O antro nero di escrescenze sgorganti a fiotti e sangue amaro. Bocca mai mai mai baciata come ferita cigliosa si schiude sul mondo. Occhio di un folle.
Se con gli occhi inclini al sogno. Perché non ascolti? nemmeno adesso che è tutto fin troppo chiaro e guardi attraverso l’azzurro a intercapedine come se io fossi nel buio, come se fossi solo un suono?
Tra le mura rosso fuoco resterai finché avrai vita. Raggrinzita, incartapecorita, senz’acqua. A centellinare ogni goccia sulla terra secca e la paglia. Senz’acqua per la paura di annegare. In un’onda del mare che credevi senza risacca. Ridi? Dal nero o dalla schiuma bianca che ti prende intorno?
La donna, invece, beveva con la sete di una giumenta alla fontana drappeggiata di carrubo e nipitella dolciastra. Perché fertile è la fanghiglia. Lì lo zoccolo nero schiaccia zolla su zolla. Anche questo è il tempo. E s’inabissa. Come l’anima nel mistero.
2. L’antefatto
La testa del dormiente mi guarda. Sebbene abbia occhi chiusi. Il mio pensiero è su quella lama. Sul taglio silenzioso lungo la pelle. Sempre di notte, benché il fuoco sia divampato da meridione, in piena luce del giorno. La sorella non c’era. all’inizio il sangue non sgorgava. Ma poi più profondo fu il taglio dell’acciaio. L’arma era quella che stava nel primo cassetto.
Se la casa avesse voce parlerebbe. Con lingua atroce. Io ha appiccato l’incendio. No, non direbbe questo. Più sapiente è il fuoco. La casa non ha mai detto niente. Sa, ma è sempre stata muta.
Al principio il fuoco aveva contrassegnato il campo, tra i pruni selvatici i lecci i mandorleti, segnando il perimetro della dimora antica. Se il fuoco divampa con misura, l’uomo comprende. Ma quando è dentro, alle pareti, dietro alle porte, sotto i letti, nelle anse delle vene e non lascia cenere né detriti, ma brucia, soltanto brucia che lo diresti un’inondazione, quando tutto rimane ma è distrutto. Niente ha più nome.
Ancora non è l’alba, s’odono passi tra il corridoio e la cucina. La donna oltremarina dorme. Ha la sua quiete quando non veglia e non dispone con gesti esatti il mondo delle forme diurne. Senza dolore nuota nel sonno, dove infine vede. Lei che vede ogni cosa solo nel sogno. Io tace, acquattata sul letto – conosce il sussulto rauco del primo cassetto. Resta in ascolto.
Il padre è all’incrocio di tre strade.
Con pungolo a tre punte si scagliò allora sulla terra madre e sul mare, sulla placida vacca e sul pavone, sulla casa si scagliò e su quanto avesse generato colui che del Caos tagliò il desiderio e il bianco squarciò finché non lo separò dal nero. Il suo dente spezzò il Verbo di cui era padre e ne sputò l’eco.
3. Nel nome del figlio
Fu al mio ritorno, fu lungo la strada. Ricordo. Il vecchio andava su un carro con i suoi servi. Mi scostai sull’orlo e ristetti fermo a cavallo. Ma lui correva per la sua strada. Lì – non chiedermene ragione, – mi montò il mio nome. Il nome di chi ha gonfi i piedi e pesanti. Mi pulsava quel nome alle tempie e scorreva come luce di lama. Per non dimenticare, per essere presente, strattonai le briglie della bestia impaziente. Sapevo da dove venivo, da lì fuggivo. Un richiamo. Allerta.
Ma fu lui che mi gettò nell’onta. Non fece niente. Silenziosamente rise. Allora più penoso mi fu il mio nome. E ridendo col carro mosse contro il mio cavallo. Per saggiare la bestia, per vederne la reazione. Mi sorpresi più veloce del vecchio. Fu un niente. Io andavo lontano per non fare del male, per non uccidere il padre.
Dannata risata del vecchio. Mala sorte la mia. e la sua. Mala sorte chi ignaro del figlio contamina la voce paterna. Non vedeva il vecchio che potevo essergli figlio?
Era bianco mio padre alle tempie. Occhi fissi su quella bocca nera. disumano antro. Diede un gran grido. Accecante antro umano di disarticolate labbra spalancate. Senza dire niente.
Paolo Corsino
4. Nel nome del padre
Io respira. l’essere è qui, senz’altro luogo. come nel sogno.
Colui che parla sconnette le parole – lapilli di uranica esplosione, o vulcanica.
Con gli occhi arrovesciati all’indietro sto nel buio, come nell’acqua, ma è l’aria che dissolve il principio: quella metamorfosi del fuoco che fu grido e poi respiro. Ecco, io respira. Finalmente è straniero. Senza padre, io, che ne ebbi due, due e pure un Dio! Senza patria, se non quella folle dei presagi e degli indovini, la patria dei padri, e dei padri dei padri che mi guardano dai loro fuochi azzurri e dai marmi. Patria della parola fratturata, in modo che nel silenzio accada.
Nove monosillabi ciechi. e un bambino è gettato da rupe alta.
Rotola una palla gialla sulla superficie inclinata, di vetro. Un essere umano cammina. In bilico, senza far rumore. Un tocco di colore, senza senso nel rogo. nell’acre odore. Solo un tocco di colore. Che vuole da me costui? La città di Tebe? Maledetto sia mio figlio con le lance e le sue sette schiere.
Io scelsi il buio del senza-terra, l’oscurità senza ore. I segni che col bastone traccio mi sono solo d’intralcio.
Non vedono per te neppure le tue parole.
Nel buio brancolo, ma forse procedo. Lo spazio è questo. Che stia in piedi o sulla terra disteso. È nero.
5. Una voce che si leva nel paese
Imperdonato cieco che in irosa curiosità1 tradisti la tua casa e alla legge della tua condanna ponesti il sigillo. ora vaghi condotto da donna, figlia tua e sorella, che talamo non conobbe, ma tombe sulla terra. Piango su di te, mendico mio re, e fratello, che mai quiete avrai finché vivrà la tua legge. Legge di paura del sangue che scorre nel corpo di un bimbo. La legge sul tuo tempo.
Nei boschi, quando generasti, fui sulla soglia. Non udisti la voce che disse che il tempo è insonne vigilia2? Notte di veglia è la vita. Povero te, che sazio della tua parola dormisti e sonnambulo ti levasti con in mano un coltello.
L’uomo manduca il mondo e non lo vede.
Di te non resterà che l’eco affinché mai si scordi che sei assassino e agnello con in sorte lo stesso destino. Senza più strada né via d’uscita. Il ritorno altro non è che la conta dei morti. Non ti voltare! Non è indietro che sta il tuo principio. O follia, follia, follia di parola.
Solo ti precede colei che si fa luna e nutritura. Ti generò alla terra, nell’estro del suo furore, nell’alba della sua ombra. E ti diede forma infinitesimale. Vuoi credere d’essere senza misura? E ti genera ogni attimo ancora. nell’arca del dolore. Nel cielo azzurro tra le fasce ti dà vita, e fra le pietre.
1 Sulla “collerica curiosità” di Edipo si veda F. Hölderlin, Note all’Edipo, Milano 2008. trad. it. di T. Cavallo.
2 “Vigilia, insonne vigilia/ il tempo“, Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1454-1455, trad. it. di Franco Ferrari, Milano 2004.
Elena Corsino (1969) è traduttrice e insegnante di italiano a stranieri. Si occupa di traduzione letteraria, in particolare ha tradotto opere di poeti e scrittori russi, tra cui M. Cvetaeva, O. Mandel’štam, I. Brodskij, F. Dostoevskij. Sue traduzioni sono apparse nelle riviste “Poesia” e “Anterem”. È autrice delle raccolte di poesia Le pietre nude (2005), Nature terrestri (2013).
Luca Ferro
Biografia:
Sono nato a Firenze nel luglio 1948.
Nel corso degli anni settanta realizzo film sperimentali e di ricerca proiettati in festival e rassegne nazionali ed internazionali: Londra 73, Milano 74, La Rochelle 76, Parigi 78, Firenze 79 etc..
Nel Dicembre 1978 curo per il settore sperimentale la rassegna “Cinema d’artista e cinema sperimentale in Italia” tenutasi a Parigi presso il Centre G. Pompidou (Beaubourg) e il Palais de Chaillot.
Del 84 è “Pecore nere”, documentario realizzato in pellicola, prodotto da RAI 1 per il programma “Di paesi, di città....”, ideato da Ermanno Olmi.
Curo la realizzazione delle cinque puntate di “La vita filmata” andate in onda sulla terza rete RAI nell’autunno 86.
Nel maggio 87 produco e realizzo il video “Fotografie d’amore con Erode”, premiato al concorso Videomaker di Prato, giuria presieduta da R. Benigni.
Sono stato docente di materie letterarie negli Istituti superiori dal 1974 al 1998.
Nel corso degli anni 90 mi dedico a progetti volti a diffondere la pratica del linguaggio audiovisivo tra i giovani.
Dal 2000 ad oggi pur confermando interesse alla didattica della pratica audiovisiva, che si esplica anche attraverso un laboratorio di "Cinema Privato" rivolto agli studenti del DAMS dell'Università di Firenze, mi concentro principalmente sulla definizione del genere "Cinema Privato", allestendo occasioni d’incontro e di riflessione ( le “GIORNATE DEL CINEMA PRIVATO” ed il sito www.cinemaprivato.it ) e realizzando contestualmente video orientati in questa prospettiva.
Bibliografia:
Non ho mai pubblicato (e neppure dato in lettura) i miei testi poetici.
Ho pubblicato solo sporadici articoli su riviste e cataloghi, alcuni di questi sono reperibili su www.cinemaprivato.it .
Filmografia
Pecore nere, min 20'25'', 16mm 1984
Fotografie d'amore con Erode, min 7'00” Umatic 1987
Compagni per sempre, min 11'00”, video8, 1997, riel.digitale 2000
Riserva di caccia (con Fabrizio Bettalli, Marco Melani, Roberto Rossellini), min 10'00”, 8mm 1970 riel.digitale 2002
Image of Images (con Nini Guatti), min 3'00”, mini-dv 2002
Luisa a Maiano con gatti, min 3'00”, video8 2002 Trasloco (con Lapo Binazzi), min 5'15'', mini-dv 2002
" ... di Venerdì, al metano...", min 16', video8 1990 riel.digitale 2003 Francesco Grotteria, "U cavaleri", min 55, VHS 1990 riel.digitale 2003 P.F., avvocato, min 39', video8 riel. digitale 2003
Trascorrere con Laura, min 10', 8mm 1977 riel.digitale 2004
4 piani per Guido, min 12', single8 1973, riel.digitale 2005 S&A sposi nel cinema, min 16'15'', mini-dv 2006
Piccola Marylin, min8mm 1970 riel.digitale 2007
Impressioni a distanza, min 13', 8mm single8 (1936, 1953/4, 1974/75) riel.digit 2007
Coniglio, Leoni e circostanze varie, min 21', 8mm riel.digitale 2009 L'amore d'istinto, min 5'13'' , da single8 e formati video vari, 2011 La panchina del mio grande amore, min 12'18", miniDV, 2012
Inchiesta di famiglia, parte prima: Fotografia Ferro, min 64'30'' , miniDV, 2013
Hai presente?, min 0'40", 8mm 1973, riel.digitale aprile 2014 (inedito)
***
In principio fu il timore e la vita, dentro quello, un antefatto in bianco e nero per lei che stava sempre nell’incerto, in ciò che diviene senza mai av-venire. Era cronologicamente equivalente all’inizio del discorso.
***
A sedici anni sognava l’Africa o Calcutta. Voleva mettere le mani nel dolore, dividere il raccolto dalla gramigna – qui sulla terra dove il di più viene dal maligno. Da tempo, oggi, ha nelle mani la poesia e con le parole separa il bene dal male, ma sa che non c’è luce senza ombra, così a volte bene e male le si confondono negli occhi, tra le mani e le mani fanno a meno degli occhi così come fa la poesia.
***
Quando si lacera il tempo lei lo rammenda col furore della penna. Ma di solito –sprovvista di segni- le cose le scuce, le separa dalla loro utilità, le ricuce sulla pagina ad altra necessità. Con le parole gli ricama un altro uso, un uso inutile eppure misteriosamente prezioso. Indispensabile.
***
Ama i verbi al gerundio. Il tempo di ciò che è in cammino e chiede e offre contemporaneità. Il tempo dei fiumi, di ciò che diviene ed è in mutamento. Lei estemporanea, lei che in ogni giorno cerca la domenica, lei che... la poesia è la domenica del tempo... l’opera da portare a compimento, l’attimo da santificare.
***
Li abbracciano. I sommozzatori abbracciano i corpi degli annegati per riportarli in superficie e lei abbraccia le parole vive nel fondo marino del suo corpo contro il loro corpo gonfio di silenzio. Le porta a galla perché sulla pagina cantino al mondo la lucentezza delle tenebre e come è giusto il nostro essere temporali e come è perfetta l’equazione di vita e di morte per noi numeri complessi nel moto relativo dell’esistenza.
***
Sosta a lungo nel farsi luogo della parola. Impara ad accendere fuochi che ripetano sulla terra il volto delle stelle – un loro tratto almeno – e siano ristoro allo sforzo di perdurare che ogni cosa ed essere compie. Insegna al pensiero l’uso domestico e quotidiano del silenzio, il suo mutare di sostanza attraverso la liquida sonorità dell’inchiostro.
Lucianna Argentino è nata nel 1962 a Roma, dove vive. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Gli argini del tempo (Totem, 1991), Biografia a margine (Fermenti, 1994, con la prefazione di D. Bellezza e disegni di F. P. Delle Noci), Mutamento (Fermenti,1999, con la prefazione di M. Bettarini), Verso Penuel (Edizioni dell’Oleandro, 2003, con la prefazione di D. Maffia), Diario inverso (Manni, 2006, con la prefazione di M. Guzzi), la plaquette “Favola” (Lietocolle, 2009, con acquerelli di M. Sebastiani), L'ospite indocile (Passigli, 2012, con una nota di A. M. Farabbi). Ha realizzato due e-book, uno nel 2008 con Pagina-Zero tratto dalla raccolta inedita Le stanze inquiete e nel 2011 Nomi con il blog “Le vie poetiche”. Il suo lavoro La vita in dissolvenza (quattro poemetti-monologhi) è stato musicato dal chitarrista S. Oliva e, dal marzo 2011, presentato in vari teatri e associazioni culturali.
elisa
avverso sinistro insulto astio
scomposta pressione
sottocute
il portato infetto di adamo
intatto nel mondo
si traduce ...in costale
in-frazione
figura incarnata
larvata elusa deviata
in-franta ...visione
elise o elisa
in-distinta si legge
incisa la firma
...lesa da sempre
nel nome
parto in-dolore
resa ...deforme
lesa la prole
a sinistra, per spina
in colonna ...vertebrale
deambulazione sofferta
strabismo da non venere
ineludibile il collare
coma in entrata
nascita sorretta
vigile premorte
in uscita disposta
per la madre
alterazione sopore
suppurazione stretta
espulsione imperfetta
...da anestesia totale
terminale la ferita
generata dai miasmi
di una madre
non sutura
non arretra
corrode ...infetta
il corpo non reciso
nel cordone ombelicale
password
un sottoinsieme di caratteri mobili
mondi insepolti
primi incontri
e rivisitazioni
la chiave che consente l’accesso
si scrive e si legge
pur sempre coi nomi
quanto al senso, del resto
tutto un pre-testo
...difetto ...eccesso
fuori ...dentro ...lo schermo
il vero ...sommerso
nell’inespresso
puro autoinganno
latenza
strappo
e sparizione
Francesca Monnetti è nata a Firenze dove ha compiuto studi in ambito filosofico-morale.
La sua prima raccolta, in-solite movenze, finalista al “Montano” 2008, è stata pubblicata da Cierre Grafica l’anno seguente. Una sua silloge inedita ha vinto la IV edizione del Premio Sergio De Risio nel 2010. La sua poesia è stata presentata nel sito blanc de ta nuque da Stefano Guglielmin.
Dalla presentazione di Tomaso Kemeny: L’energia sovrabbondante di questa voce produce un’inquietudine guerriera che, dalle tenebre sgorgata, eroicamente, alle tenebre tragiche della contemporaneità riporta il lettore disposto a soffrire-morire per rinascere oltre ogni modello demagogico di pura completezza ideale, poiché “...il rito è sangue, ripresa della vita.”
***
La discesa alle madri
torbido anfratto, chiama
quasi, sordo, fosse un gorgoglìo
nell’acqua, a immergere le lunghe ali
tu, così bianco, in nera pece albedo
angelo franto, di qua dell’ombra vegli
prima della discesa, già di sudore coli
dentro il manto.
***
Epico incedere
affatìco, dentro, nel passo avanzo
qui nell’oscurità m’addentro
senza una luce minima, sul volto
solo un passaggio d’ombre ripetute un volo
guardano a me questi angeli di torba
tutti assopiti, volgono al nero blu di lago
le grandi pieghe.
***
Prego, scendendo, salgo, madre fra madri
prego, m’addosso a corpi, ripiego l’ala
su risospinta, da una marea fondante
sul vuoto ardo, gravida, trascinata
la terra s’apra, faccia ricovero, balza
a chi vi sprofonda e alberga la sua parola
faccia di questo verbo più crudo verbo
sillabi più potente l’epicentro.
Gabriella Galzio vive tra l’Oltrepò Pavese e Milano, dove svolge attività di traduttrice editoriale e dirige l’Associazione culturale Studio d’Autore. In poesia ha pubblicato Fondali (1993), La buia preghiera (Campanotto, 1996), Sofia che genera il mondo (I Quaderni del Battello ebbro, 2000), Apocalissi fredda (Agorà, 2001) e Ishtar dagli occhi colmi (Moretti & Vitali, 2002). Di rilievo anche gli scritti di teoria, le attività di traduzione e curatela. Ha inoltre partecipato a programmi RAI sulla poesia (“L’altra edicola”, “Festival di Sanremo della poesia”) ed è presente in antologie. Tradotta negli USA e in Germania.
Dalla nota di Andrea Cortellessa: E’ questo il libro della prima stagione poetica di Gilda Policastro. E proprio stagioni è la metonimia che intitola la sua prima sezione. Prima in ordine di composizione ma, ciò che più importa, in termini “narrativi”: col mettere in scena il primo di una sequenza di lutti, inconsutile manto funebre che, alla pelle mentale di chi dice “io”, a lungo è calzato come una guaina perfetta. Si dice “stagioni” e si vuol dire dei tempi vissuti, o che piuttosto tali non sono stati (...)
Estate
Bambina ti levavo
dai seni gli occhi
Nella riproduzione delle macchie
a seguire
l’impietà di guardare
le masse colliquate intatte
dall’erbitx
Inerti
nel dolore inconvertibile
ti poso addosso le dita
per la misurazione delle masse
(coi tronchi meno grossi
si fanno i coperchi delle casse)
Filamenti d’ovatta mentre ti lavo
i capelli e ben bene sotto le braccia
(le masse denutrite non proliferano in meno
di sei / dodici mesi
nel quaranta per cento dei casi)
Godere in analettico conforto
anche di cose qui per noi indifferentissime
(sfilaccia, l’acqua, l’ovatta, prendimi per favore dell’altra acqua)
E poi mai più,
che lavorare
stanca le masse
e il contenimento è il vero successo,
in oncologia
Questa
non sei tu:
- Non il bene vecchio ma il cattivo nuovo,
una massima di B., diceva B.*:
* Brecht; Benjamin
Gilda Policastro è assegnista di ricerca presso l’Università di Perugia. È redattrice della rivista «Allegoria» e collabora con «Alias», «Liberazione», «L’Indice dei Libri del mese», «l’immaginazione». Ha pubblicato i volumi In luoghi ulteriori. Catabasi e parodia da Leopardi al Novecento (Giardini, Roma-Pisa 2005) e Sanguineti (Palumbo, Palermo 2009), oltre ad articoli su Dante, Leopardi, Pirandello, Manganelli, Pasolini, Leonetti, Balestrini. Ha esordito come poetessa a Romapoesia e RicercaBo 2007. È stata finalista del Premio Delfini 2009, la sua silloge Stagioni e altre è edita nel Decimo Quaderno di Poesia di Marcos y Marcos (2010). Pubblicato nel 2010 per le edizioni d’if il poemetto La famiglia felice, vincitore dell’edizione 2009 del Premio Mazzacurati-Russo. Del 2010 è anche Il farmaco (Fandango).
Dalla nota dell’Autore: “Una scrittura volutamente frammentaria, che punta su densità e concisione, attraverso la scelta ponderata, quanto più puntuale possibile, di ogni singola parola.
L’equivalente letterario di un album di scatti rubati che ritrae dettagli, presentimenti, rivoluzioni silenziose ed eventi marginali”.
Cut-up n. 140
D. era consapevole di aver trascorso gran parte degli ultimi anni immerso in un persistente senso d’attesa, come una parola sulla punta della lingua. Anche con il senno di poi, trovava difficile risalire e attribuire una collocazione temporale alla sua ultima occasione, ma non poteva negare di essersela lasciata sfuggire. Scaricare parte delle colpe sulla sfortuna pareva legittima difesa. Se non altro, sapeva di essere ancora in tempo: poteva contare su varie vie d’uscita, anche se quasi tutte comportavano l’ammissione del suo fallimento.
Nell’alveare (cut-up n. 121)
Il primo giorno di lavoro arrivo in ufficio in anticipo. Mi fanno fare un giro turistico del mio futuro, sul set dei miei prossimi anni di vita. Lo scenario della monotonia è composto da una serie infinita di scompartimenti asettici, anonimi. Strutturalmente uguali tra loro, imparerò a distinguerli con un colpo d’occhio, osservando i piccoli oggetti personali di proprietà dei dipendenti che li occupano, portati da casa nel tentativo di personalizzare il loro spazio.
Sedute di psicanalisi (cut-up n. 45)
A volte ho il sospetto che dietro ad ogni tentativo di cambiare si nasconda un nuovo modo di fallire. La ripetizione sterile dei miei errori dimostra che sbagliando si impara solo a sbagliare. A breve mi procurerò un’incubatrice per le decisioni premature e i progetti sottopeso. Nel frattempo mi limito a sfogliare distrattamente una rivista in sala d’attesa, mentre gli artificieri si preparano a far detonare i miei ricordi traumatici.
Jacopo Ramonda, nato nel 1983, scrive testi collocabili in un’area di confine tra prosa e poesia. Le sue prose brevi sono state pubblicate su Nazione Indiana da Andrea Inglese, su Absolute Poetry da Marco Simonelli, su Poetarum Silva da Luciano Mazziotta; oltre che su varie riviste cartacee, tra cui Prospektiva e La Masnada.
DIPINGERE NON È TINGERE
(poeta e pittore si ascoltano varcando la galleria virtuale)1
dipingere è (anche) un comportamento; quel che cerchiamo è un comportamento, il processo operazionale che viene dalla fondazione dell’espressione, che proviene dalla poietica;
la pittura non è soltanto un dispositivo libidinale, che ci suscita interesse, come suggerito da Lyotard; la pittura è semmai la trasformazione di ciò che è visibile in ciò che è leggibile;
questo comportamento consiste nel rivestire una superficie con un materiale secco-umido o oleoso, che sarà in grado d’attaccarsi e di solidificarsi; la mano del pittore rivelerà un aspetto differente dalla superficie nascosta; bisognerà anche che lo strato di pittura resti più tempo possibile nello stato in cui è stata lasciata dal pittore…
cerchiamo anche il bagno del tintore, la stuccatura con la spatola per riempire le fessure e per nutrire la superficie (preparazione);
cerchiamo l’operazione grafica del grattar la superficie con una punta consumata dal tempo, lasciando tratti di matita, di penna, tratti di carboncino;
grazie alla confessione dei gesti, nella sua ideologia illustrata, la pittura guarda al gusto della menzogna; grazie al lavoro del sogno, tra eidos e morphé, per ritornare essa stessa con insistenza, nel corso degli anni, su tre temi che la qualificano:
viscosità; trasparenza; scorticatura (secondo André Masson) e noi le abbiamo imprigionate, queste categorie, nella costruzione della galleria virtuale, che congiunge l’opera a colui che l’ama e che accede al silenzio, come statuto superiore d’ammirazione:
l’ammiratore di pittura non è condannato al linguaggio, ma l’immobilità silenziosa dell’amore esclude il percorso, sempre disagevole, della lettura; si può appena parlare qui d’itinerario dello sguardo…
è sufficiente: prendere in considerazione la pastosità della pittura, con tutto il gusto possibile, non può che esser chiamato fascinazione (forse shock); la pittura diventa poesia quando il pittorico suscita il desiderio di dipingere;
la costruzione comincia dalla sua suddivisione, punto linea superficie valore colore, che sono in mutua relazione, dagli insiemi delle possibilità, delle scelte, l’atto della pittura liberato per cominciare a praticare, come l’atto di guardare liberato sullo sguardo;
… poiché il tocco pittorico ottunde ciò che è sotto, con tutti i materiali, che assicurano pastosità al colore e si avvicinano alla tintura;
il pittore fa colare la tinta, come un succo, sulla superficie, senza pennello, lasciando questa materia fluida trasparente, riesce persino a immergere la carta nel colore, l’accartoccia, la piega, per ripassarla, ad appiattirla bene, una volta seccata;
molti pittori disegnano dipingendo: un tocco non è un tratto, ma il passaggio dall’uno all’altro è facile da comprendere…
CAMERA VISCOSA
(il bianco dei quadri a colori)
la torbidezza realizzata si rivela bianca, riempimento spaziale il più neutro, il più chiaro e il primo non trasparente; la trasparenza stessa, empiricamente, è già il primo grado di torbidezza, che, pura e traslucida, deriva dalla trasparenza; i gradi successivi, fino ad arrivare al bianco-trasparente, sono infiniti;
se non ci fosse il colore, qui, ci sarebbe il silenzio; un pittore sa esperire la pianta che dà i fiori, il pulcino che esce dall’uovo, ma non lo sa dire, non resta che il nome che è nudo;
dunque la nominazione diventa un montaggio formale, come figure per vivere, per lasciare libero il passaggio al colore; ma che può sapere il secco dell’umido?
potere del nome: nominare una forza, come nominare una creatura, una persona; è per questo che il nome vero è mantenuto segreto: forse dimora d’una dea: senza rinascita, nulla è completamente vivo;
CAMERA SCORTICATA
(la pastosità dell’olio - le figure rosse e verdi)
sul problema della materia, la luce è la sua manifestazione più pura, c’è un alchimia sottile che rende il colore manifesto; noi siamo stati colpiti da questa metamorfosi, fra tronchi di legno: ciascuna immagine opera una direzione specifica all’interno di questo ciclo;
in un primo momento, l’organismo liquido e essenziale, le essenze erano trasportate dai fluidi, il respiro primario compiva un passaggio, anche quando tutto era ancora fermo: ma qui è una questione di luce,
poiché il colore si presenta all’occhio nella sua grande varietà, è uno dei segni esteriori più importanti, grazie al quale apprendiamo ciò che passa all’interno, criterio di movimento della vita: colore e luce possono coesistere e possono essere comparati; al contrario di colore e suono…
il contrasto, la vibrazione ottica, tra il rosso e il verde, nella riproduzione sono messi in sordina, creando una psico-implicazione, che è la nostra vera ricchezza; l’ideale sarebbe che tra il pittore, il mondo e le immagini, ci fosse la verità; essere in fuga o andare contro?
cominciando a filtrare i suoi lavori, l’artista scartava tutto: erano il riflesso d’un periodo travagliato, caratterizzato da cambiamenti; restando abbracciato ad una boa, dimenticando che alla fine si sa nuotare: era meglio camminare sul percorso dell’acqua, verso il mare,
nell’oscurità che accoglie fa scuotere pozze di luce; senza staccarsi dalla superficie della lastra colorata, rimanendo nella categoria di ciò che il sole cosparge, adottando una vibrazione rossa, difficile da realizzare per certi esseri, e dedicandosi a reiterare;
CAMERA TRASPARENTE
(la trasparenza degli azzurri)
lo spazio immaginato vuoto avrebbe senz’altro le caratteristiche della trasparenza; ma se è l’oscurità ad esser osservata attraverso un mezzo torbido, illuminato da luce incidente, appare un colore azzurro che diventa sempre più chiaro e sempre più pallido, quanto più opaco diventa il mezzo;
i colori traggono origine dallo scontro con il mezzo, vetro o acqua, prisma nel fenomeno, i cui confini si comportano come fessure;
l’azzurro s’offusca al calare della notte; fa dono di questo mondo qui e del suo giorno, di costruire loro dimore sognanti; apprende il distacco e la presenza; ogni sera, a cose fatte, riguadagna la sua notte, rientrando a casa;
l’azzurro non fa rumore, è un colore timido, senza secondo fine, che non si getta bruscamente sullo sguardo, che lo attira a sé, lo lascia giungere senza far pressione, in modo da affondare e annegare in esso senza rendersene conto;
l’aria che noi respiriamo, l’apparenza del vuoto sul quale s’agitano le nostre figure, lo spazio che attraversiamo, non è nient’altro che questo azzurro terrestre, invisibile per quanto è vicino e fa corpo con noi, presente anche nella camera, insensibile abito della nostra vita, che veste i nostri gesti e le nostre voci;
non è, a dir la verità, proprio un colore, semmai una tonalità, un clima, una speciale risonanza dell’aria, un impilarsi di chiarore, che nasce dal vuoto aggiunto al vuoto, tanto cangiante e trasparente nella testa dell’uomo che nel cielo: l’azzurro s’evade indefinitamente;
l’azzurro è un colore propizio alla scomparsa, dove morire, un colore che libera il colore dell’anima, dopo che si è spogliata del corpo, dopo che ha sprizzato il sangue, tutto;
ma tutto questo azzurro qui non è della stessa tinta…
CAMERA DEI TRATTI
(i disegni, matita cartoncino grafite)
i tratti lamellari si riversavano senza posa all’interno e indicavano le variazioni di corrente atmosferica, a seguire i voli irregolari;
i tessuti del corpo potevano muoversi in sincronia, o no; in un corpo integrato il respiro primario si fa sentire, affidandosi a movimenti superficiali, molto superficiali;
la profondità si disegna nella relazione tra movimenti, tra i più superficiali, nell’esser-ci;
1 Questo scrittura in lasse è stata realizzata nell’agosto del 2012, come nota d’accompagnamento alla mostra del pittore friulano Roberto Cantarutti, Camera oscura, che si tenne a Bruxelles nell’autunno dello stesso anno. Scritta direttamente in francese, qui presento la versione in italiano riadattata e ridimensionata. Alcuni passi sono stati tradotti anche in sloveno per la personale di Cantarutti che si è tenuta a Cormons (Go) nel febbraio-marzo del 2014, sempre col titolo Camera Oscura.
Patrizia Dughero, di origine friulana, mi sono laureata presso la Facoltà di Lettere e Filosofia a Bologna, svolgendo una tesi riguardante la Storia dell’illustrazione. Ho lavorato come restauratrice muraria presso alcuni importanti cantieri di Bologna. Negli ultimi anni ho ricevuto diversi premi letterari e sono presente in antologie sia di racconti brevi che di poesie, le più recenti Cuore di preda. Poesie contro la violenza alla donna e Il ricatto del pane. Scritti sul significato del lavoro, entrambe CFR Edizioni; Di là dal bosco, andata e ritorno nel paese delle fiabe, Dot.com Press Edizioni; presente anche in numerosi blog, attualmente la mia attività si concentra su articoli e recensioni, tra gli altri apparsi ne “Le Monde diplomatique”e“Leggere Donna”; recensioni sulle mie poesie sono inserite in riviste letterarie, in Italia e in Slovenia, quali “Poesia”, “Novi Glas”e “Revija SRP”. Quattro le sillogi poetiche pubblicate: Luci di Ljubljana, 2010; Le Stanze del Sale, 2010; Contatti, col poemetto Canto di Sonno, in tre tempi, 2011; Reaparecidas, 2013. Da qualche anno sto svolgendo studi sul linguaggio poetico dell'haiku e sul disagio femminile in relazione al mito nella scrittura poetica delle donne. Attualmente redattrice della rivista Le Voci della Luna, dopo alcuni anni come segretaria di redazione, sono responsabile di redazione di “24marzo Onlus”, Ong che promuove iniziative culturali e giuridiche con particolare attenzione al caso dei desaparecidos in Argentina; ho partecipato ad eventi letterari e artistici, a volte con ruolo attivo nell’organizzazione, tra cui a Bologna, 100Mila Poeti per il Cambiamento e Bologna in lettere;a Venezia Palabra en el mundo; Acque di acqua e Stazione Topolò in Friuli,oltre che a quelli legati alle attività di “Rete Identità”. Ora lavoro a tempo pieno per qudulibri, la mia casa editrice, nata nel 2012, che con due locuzioni riducibili non solo a slogan, amo definire costruita sull’ “impegno del linguaggio per una militanza della memoria”: http://qudulibri.wordpress.com
Il mondo
Il mondo che guardi, il mondo ti guarda. Il mondo che vedi, il mondo ti vede.
Il mondo che mondo non è,
che attraversi ogni volta che guardi, un mondo non è, e vita non è,
ma rientra nel vuoto che lo contiene, se ti contiene ed anche ti vede, denso di colpa e pieno di vita,
vuoto ti lascia ed afflitto
per nessun segno di densa visione, che densa non è, né visione di me che notturno nato addenso il sapere con ansia e sguardo
che di mondo non sa
ogni volta che vedo e che dico e che so, cosa dico e cosa so
se il mondo non vedo,
che vedo e comunque mi appare
e sbriciola e voltola alle soglie dell’incontro che mai mi appare e mai mi viene incontro con lirico errore e sfiducia sovrana
che ripeti ed ogni volta agisce che ripeti e mi vede incarnato non lasciando tracce
né sentimenti né voglie
e non linguaggi da me a te non frasi dall’uomo a te non me non te
il pericolo il metronomo la materia, del mondo che vidi non so chi tu sia,
del mondo che oso perché richiamarmi, dovunque che vedo cosa saprei?
Franco Falasca, nato a Civita Castellana (VT) nel 1944, vive a Roma dal 1958. Ha prodotto, oltre a poesie e racconti, anche poesie visive, films super 8, video, fotografie, performances. Ha organizzato rassegne e manifestazioni.
Nel 1973 fonda (con Carlo Maurizio Benveduti e Tullio Catalano) l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva con cui collabora fino al 1979; partecipa come artista alla Biennale di Venezia 1976.
Suoi testi e materiali vari sono stati pubblicati, oltre che nei cataloghi delle mostre alle quali ha partecipato, anche su varie riviste ed antologie e nei volumi::
Nato a Civita Castellana (VT) nel 1944, vive a Roma dal 1958. Ha prodotto, oltre a poesie e racconti, anche poesie visive, films super 8, video, fotografie, performances. Ha organizzato rassegne e
manifestazioni.
Nel 1973 fonda (con Carlo Maurizio Benveduti e Tullio Catalano) l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva con cui collabora fino al 1979; partecipa come artista alla Biennale di Venezia 1976.
Suoi testi e materiali vari sono stati pubblicati, oltre che nei cataloghi delle mostre alle quali ha partecipato, anche su varie riviste ed antologie e nei volumi::
La materia di Installazioni non nasce dall’occasionalità degli eventi, ma dall’interesse che improvvisamente una parola mi smuove. Intorno a questo embrione energetico, il pensiero struttura e specializza nuove sintassi.
La sostanza espressiva si diffonde, disseminando segmenti come linfonodi messi a difesa delle sue intenzioni. L’organismo poetico addensa fisicità singolari, si installa sulla pagina e accetta l’urgenza di esistere.
Motteggi
motteggi balbettati
fermi sul filo del pronunciamento
la parola ci attinge
stiamo da lei senza condizioni
il cerchio della sua stigmate
produrrà il quadrato perfetto
oh spoliazioni! date voce al filare aspro delle polifonie
intrecciando l’ovvietà che ci include
con l’unica eccezione del palpito rigenerante
che si delinea nell’ombra
Bande
bande parallele di omertà
accettano il sopruso
per intendersi coltivano l’impotenza
e si incrociano su navigazioni a svista
minuzzoli di niente
incalzati dal cenno
confortatevi
l’audacia è un’illusione che attraversa in fretta
ammicca le sue eruzioni
e frana sui grandi bassorilievi del decoro
Vibrati
vibrati violenti di viola
scarnificano l’endecasillabo
lavoro di finitura sui grumi rimasti
e ripresa dell’originario inarticolato
l’obiettivo è metamorfosi
giustapposizione o contrariamente
partitura a vivere
mentre su una banda di antinomie
si accentra
il brulichio della gestazione
Carla Paolini vive e lavora a Cremona.
Si è dedicata per diversi anni allo studio di tecniche per la manipolazione della creta.
Partecipa, in collaborazione con altri artisti a progetti per varie manifestazioni culturali e a reading di poesia.
È stata finalista (con la silloge MODULATI modulati) e più volte segnalata al premio Lorenzo Montano - ANTEREM, per la ricerca letteraria.
Ha pubblicato racconti, poesie, favole su antologie e riviste e le sillogi poetiche: Impronte digitali (1993); Diverso inverso (1995); Una x Una (1998); Ai cancelli del flusso (2001); Amori diVersi (2002); Modulati modulati (2004).
Da qualche anno pubblica anche sul suo blog
http://specchio.ilcannocchiale.it
Molti dei testi scaturiti da questa esperienza sono passati dal monitor del PC alla pagina di carta e così sono nati i volumi Prosemi (2009) e Internectasie (2011): raccolte di brevi prose poetiche.website: www.carlapaolini.com
Perseidi
Essere soli è essere nell’intimo del mondo. Antonio Ramos Rosa
Parlerò solo alle stelle.
Sono pazza forse
ma proseguo il discorso
che facevo da bambina
parlando senza parole
non sapendo parlare.
Di me invece loro sapevano tutto:
il loro tacere non è mai stato muto
sta nel pulsare universale.
Davanti alle stelle
che frusciano come le foglie dei cespugli
sono sola tutta notte
tutta notte io scintillo
guardo lontano
vedo e non
vedo.
Non siamo nati nella follia?
Non appena iniziò a muoversi
il Tempo
trascinando
astri e polvere.
Sparpagliati nello spazio
i suoi semi
non fiorivano.
Niente e nessuno
fioriva.
L’ombra
era uno specchio vuoto.
Se parlo alle stelle
so di parlare ai morti
perché a noi
tocca solo l’immagine
slontanata
della vita.
E mentre sono qui
sono morta da un’altra parte
o forse non esisto
non esisterò mai.
Ma adesso sono chi?
Stanotte la terra
va traversando lo sciame
delle Perseidi
che ci sembrano più vicine.
Allora
io volo verso le stelle
lascio cadere la casa
dietro le spalle
come un abito usato
e il mio cervello
adesso è così leggero
nel vento siderale
che mi prende e porta
Mi sento dolcemente fredda
non ho bisogno di niente.
Tutto ciò che vedo o non
vedo nasce
e muore lontano.
Prima.
Dopo.
Mai adesso.
Mai ci sono arrivi
e partenze.
Mai c’è il presente.
Nessun volo raggiunge l’altro.
Oppure
tutto è presente e fermo.
Il mio corpo e le stelle morte
che si rappresentano qui
in una vita finta.
Qualcuno
in questo momento
guarderà come me le stelle
attenderà di finire
con gli occhi puntati in alto.
Chi vuole morire
dentro un letto stretto
morire
sotto il soffitto di una casa?
Guardando le Perseidi
In questa lunga notte d’agosto
guardandole e sperdendomi
raggiungerò l’estasi raggiungerò
quel punto nel cielo
che risponde al mio cervello antico
alla terribile infanzia primordiale
chiusa dietro la nuca,
alla mia infanzia senza parole
e all’estasi
che perde corpo e voce.
Chi ha un corpo ha un segreto
da conservare
fuori di sé.
Il mio sguardo
ha scavalcato i tetti
i ragionamenti
le vette
le visioni
si è affacciato da questo balcone
come il puro desiderio
che non si vede mentre desidera
sempre verticale
scoccato.
Il mio sguardo è da preda
simile a quello del lupo
del serpente della tigre
di tutti gli animali
che guardano dritto
dentro gli occhi
perché hanno fame.
Nel buio
si catturano le luci stellari
memorie di eventi possibili
di un mistero che si assottiglia
sempre un po’ di più
ma che mai
perderà la sua struttura.
Dicono che è lassù la nostra origine.
Che lassù ci sono
padre e madre.
E sta a noi
farli tornare qui
Io ipnotizzo le stelle
loro ipnotizzano me
allargando allo spasimo
le mie pupille umane
forse entrerà qualcosa
nel mio campo visivo
che prima non c’era.
Sarei forse capace di raccontare
la bellezza del cielo notturno
nominando una ad una
le stelle ?
Come non so imparare
I nomi degli uomini e dei fiori
di tutto quanto vive sulla terra:
di queste impossibilità
è fatto il silenzio.
I profumi della notte
s’incontrano a metà strada:
verso di noi scendono
quelli astrali
verso di loro sale
l’essenza tellurica.
Di notte
l’erba e gli alberi
hanno odori che raccolgono
tutte le profondità
scoppiano dall’invisibile
una linfa nuova
trattengono i suoni
inudibili
di giorno.
Se si capovolge la lente
da qui non si vede niente
forse il fumo
di tutti gli anni
di luce mortale
e di mortali sogni
che prima furono solide cose
ed evaporarono
poco a poco
ed evaporano adesso
come un astro si congeda da un astro.
Se si capovolge la lente
noi si perderà l’ ombra?
E quale altra ombra
ci potrà confermare?
Il cielo della notte
si rivela
se noi
con questi occhi
lo riveliamo
a lui
perché noi e lui
siamo legati da un unico velo
e dalla stessa grandezza.
Stelle
la vostra linfa
scende su di noi
come un tempo scese la manna.
Guardandovi
noi non si cerca nessuna certezza
ma voi state qui a fare finta
di esserci.
Salute a voi come siete.
Salute dal nostro al vostro tempo
che mai si incontreranno.
Salute a voi
e a tutte le finzioni.
Lucetta Frisa è nata e risiede a Genova. E’ poeta e traduttrice. Tra i suoi più recenti libri di poesia: La follia dei morti,(Campanotto,1993) Notte alta,(Book,1997), L’altra (Manni,2001), Disarmare la tristezza (Dialogolibri, 2003), Siamo appena figure(GED,2003) e Se fossimo immortali (Joker,2006). Ha tradotto Emily Dickinson, Henri Michaux e due libri di Bernard Noêl (Artaud e Paule,2005 e L’ombra del doppio,2007),entrambi per la collana I libri dell’Arca delle edizioni Joker, di cui è curatrice insieme a Marco Ercolani. Collabora a diverse riviste come La mosca di Milano e La clessidra ed è presente in antologie, tra cui Il pensiero dominante (a cura di Davide Rondoni e Franco Loi, Garzanti,2001) Trent’anni di novecento di Alberto Bertoni (Book,2005) Altramarea a cura di Angelo Tonelli (Campanotto,2006) La poesia erotica contemporanea (Atì,2006) e Voci di Liguria ( a cura di Roberto Bertoni, (Manni 2007). In coppia con Ercolani, scrive libri di storie immaginarie e non, come Anime strane (Greco&Greco 2006). Con i suoi racconti per ragazzi collabora al quotidiano Avvenire. Tra i diversi riconoscimenti,il più recente è il Lerici-Pea del 2005 per l’Inedito