Carte nel Vento
periodico on-line
del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
Il completo rifacimento del sito di “Anterem” ci ha obbligato a far slittare nel tempo questo numero di “Carte nel Vento”, che racconta la giornata della Biennale di poesia “Percorsi del dire”, al cui interno si è svolta la cerimonia conclusiva della XX edizione del Premio Lorenzo Montano. Facendo un po’ nostro Paul Valery quando scrive che la poesia è “quell’esitazione prolungata tra suono e senso”, possiamo considerare che “Percorsi del dire 2006” è stata una lunga e straordinaria giornata di poesia tutta sospesa in un alto equilibrio, tra molteplici sensi.
Anno dopo anno, la Biennale di poesia si configura sempre più come un punto di raccordo tra la rivista “Anterem” e il Premio, accogliendo dall’una tematiche e testi, dall’altro le punte più alte delle ricerche in campo poetico e mettendole in circolazione in un più ampio e stretto rapporto con altre discipline: musica, corti, video, teatralizzazioni, danza, riflessioni teoriche.
Protagonisti rimangono i volti, le parole e le voci dei “poeti scelti” dall’ultima edizione del Premio Lorenzo Montano, per i quali si va creando un luogo privilegiato a far emergere e risuonare, nella crescente attenzione dei media, le loro opere. Fotografia della giornata è l’artistica “Antologia della Biennale”, che accoglie un testo di ciascuno dei partecipanti, in un’istantanea dal forte valore simbolico.
Continua la felice collaborazione con il compositore e pianista Francesco Bellomi, autore dei brani per i vincitori, qui presentati. Inoltre da quest’anno, sui testi dei poeti premiati al “Montano” e su altri proposti dalla rivista “Anterem”, autonomamente lavora anche il Conservatorio “Bonporti” di Trento, sezione di Riva del Garda, organizzando sia una tavola rotonda sul rapporto tra parola e suono sia un concerto.
Anche quest’anno sono state attive, tra poesia e filosofia, le presenze della Rivista e del Premio per tutta la settimana di “Veronapoesia 06”. Nell’evento conclusivo del festival abbiamo riproposto la formula della Biennale, con le letture dei poeti, scelti tra i concorrenti dell’ultima edizione, legate dal tema del desiderio a musica, film, riduzioni teatrali, filosofia, danza.
E’ sempre più nostro intento far sì che la partecipazione al Premio Lorenzo Montano non si esaurisca con la proclamazione dei vincitori, ma che ci sia un grande spazio oltre il premio per molti poeti, facendo continuare a vivere e risuonare i loro testi.
Ripartendo proprio dalla ventunesima edizione appena inaugurata.
Ranieri Teti
A partire dalla 19ª edizione del Premio Lorenzo Montano abbiamo istituito un riconoscimento riservato agli allievi dei quattro Licei che collaborano con il Premio componendo parte della Giuria dei Lettori per l’Opera edita. A questi ragazzi, oltre a leggere e votare il preferito tra i tre volumi vincitori per determinare il “supervincitore”, chiediamo di produrre una “tesina”, individuale o di gruppo, sui libri letti. Le prime tre, prescelte da una giuria composta da Francois Bruzzo (Docente di Liceo), Agostino Contò (Bibliotecario), Massimo Donà (Filosofo), Stefano Guglielmin (Docente di Liceo), Giampaolo Marchi (Università di Verona), Emanuela Raffi (Università di Padova) e Lorenzo Reggiani (Giornalista) vengono premiate con un buono acquisto libri.
pagina ispirata ai libri vincitori della sezione “Opera edita”
del Premio “Lorenzo Montano” 2006
di
Giorgio Fogliani, Annalisa Lombardi, Chiara Pozzati
del Liceo Ginnasio di Stato “Scipione Maffei” di Verona
Si delinea il mio viaggio nel “blu cobalto della notte”. Mi muovo su un sentiero che sembra tracciato. Riconosco le indicazioni impresse ai margini della strada e le seguo, segni familiari di un dolore che conosco e che ha vestito di sé ogni cosa. Sono noti i contorni e le linee di molti corpi, tanto che la strada pare evocare continuamente immagini viste altrove, quasi promesse rassicuranti di trovarmi in un mondo che ho già attraversato più volte. Appoggio il mio piede sopra l’impronta del poeta lasciata sulla neve e faccio sì che i suoi passi diventino i miei.
Per vedere un’altra notte, più profonda e buia, la notte transilvanica, devo chiudere gli occhi. Arrivati qui camminare, seguire una strada non è più possibile. Ci si può soltanto abbandonare a questo meccanismo di associazioni e richiami, al dissolversi di un’immagine in un’altra. Lasciare, come bambini nella culla, che le parole della madre si incarnino nei personaggi dei sogni, si mutino in figure danzanti e mobili a cui accodarsi. Mi ritrovo a seguire “l’aquila in volo prima che fossero creati i cieli”, è perso il filo, la traiettoria non esiste.
Anche sulla neve comincio a perdere le tracce. Lo stesso poeta che aveva affermato “Se ero fermo in un punto, da quel punto pensavo la traiettoria/per disciplinarla” mi dice adesso che “non siamo in nessun punto e la traiettoria è persa”. Cerco sugli scogli una sosta. “Il punto in cui la memoria cede al dolore”? Oppure la pausa è ciò che fa sì che “curare la ferita/lenire/non sarà impossibile”? Che cos’è la quiete? Occasione per tracciare di nuovo la rotta che si era persa o condizione determinante l’autodistruzione, il logorarsi delle cose? Cosa significa il centro? È punto di potenzialità allo stato puro, comune a trifoglio e quadrifoglio? È l’essenza delle cose a cui possiamo giungere solo liberati dalla “tristezza che non dà scampo”? O è l’occhio di questo ciclone sconvolgente, che sta sollevando quantità impensabili di polvere su un mondo che mi era parso consueto? All’occhio del ciclone si può o non si può tendere l’arco? Perché perfino il gelo che sento entrare nelle ossa sembra portare valori differenti? Unico sollievo “Nel cavo di un cuore steppa” e poi inverno a cui resistere con “un’ostinazione atlantica”. Perché anche la luce continua a cambiare, così che le stesse cose mi appaiono con sfumature diverse, quasi tele impressioniste, dipinte a poche ore di distanza l’una dall’altra, quasi parole scritte con caratteri, alfabeti diversi?
Questo vortice confuso mi riporta al sogno. Qui, illuminata dal “cerchio cocente del sole”, si staglia davanti ai miei occhi la “austera, solenne e risonante/cattedrale della fede poetica”. Incantato dalla sua grandiosità, mi avvicino al portale, devoto. È allora che un’impertinenza bambina, nata dall’incredibile lontananza del canto e delle cose, mi porta a bussare sulla parete di pietra, quasi a volerla smascherare, scoprire di cartongesso. Sono davvero sciamani quelli che vedo agitarsi sul fondo e quelle che sento sono proprio grida di guerrieri? O si tratta solo di costumi di scena ed è una gigantesca recita quella a cui sto assistendo, portatrice di un significato altro che adesso non riesco a cogliere?
La cenere dei sogni si dilata “a immagine della volta stellata” e mentre Urania sparge il suo canto io osservo e cerco di decifrare “questo transito d’anni”, provando a riallacciare gli elementi, a seguire l’evoluzione emotiva che ha segnato il poeta in questo lungo arco di tempo. Un percorso che, partendo da un dolore puro e pressoché globale, da un sentirsi distanti dal mondo, toccati dal tempo solo superficialmente, in lontananza, sembra portare ad un rafforzamento, ad una possibile resistenza al gelo che ci rende simili al pettirosso che canta la sua durata “al braccio dell’inverno che annotta”. Eppure ci sono poi altri momenti in cui tutto viene nuovamente messo in discussione ed io, spiazzato e confuso, mi abbandono a indecifrabili significati che mi sfuggono, fino a quando non è il poeta stesso che sembra puntare il dito in una precisa direzione: “Uscire è come divagare e molto si deve camminare/fino al punto in cui il pensiero torna a sé […] Io sono caparbio e mobile. Tu aspettami/ non spaventarti/portami verso una curva più lieve del cuore/dove il fiume possa specchiarsi e sentire/che il viaggio riparte, che i platani continueranno”
Seguendo il fiume lo scopro essere diventato quello della Transilvania, un fiume eterno, che “varca il gorgo luttuoso del tempo”. Non termina con l’aquila disseccata, con il crollo degli imperi, con il poema incompiuto nelle mani del messia magiaro, ma prosegue in un’ultima appendice, in un’invocazione sospesa allo sciamano. Il mio viaggio iniziato di notte termina nell’ardore di un fuoco giovane.
ANTEREM
RIVISTA DI RICERCA LETTERARIA
Con il patrocinio di Regione Veneto,
Assessorati alla Cultura della Provincia,
del Comune e della Prima Circoscrizione di Verona
Università degli Studi e Biblioteca Civica di Verona
Lorenzo Montano
Ventunesima Edizione
Il Premio è dedicato al poeta Lorenzo Montano
(Verona 1895 – Glion-sur-Montreux 1958).
Le sezioni del Premio sono
“Raccolta inedita”, “Opera edita”,
“Una poesia inedita”, “Opere scelte”.
Il montepremi è pari a Euro 13.500,00.
Sono previsti 6 vincitori
e oltre 90 riconoscimenti, attribuiti nell’ambito
della Biennale Anterem di Poesia.
La sera del 14 Ottobre, nell’Auditorium del Conservatorio di Riva del Garda, era di scena la musica nel suo rapporto antico, privilegiato e non occasionale con la parola.
E quindi la valenza sonora del testo poetico nella teatralità estesa della pronuncia orale e il suo rapporto con l’evocazione assoluta del suono originale, articolato e frammentario della composizione contemporanea.
Un concerto e un evento organizzato dallo stesso Conservatorio in collaborazione con la rivista Anterem.
I testi di riferimento erano quelli dei vincitori dell’ultima edizione del Premio Montano, di Flavio Ermini e Ranieri Teti della redazione di Anterem e di Andrea Zanzotto.
Le musiche, puramente acustiche come l’articolato brano di Colazzo per flauto solo, generate al computer come i potenti pezzi di Biasoni, Russo, Graziani, Cera, Doati, Benzi o con la tecnica mista di suono naturale ed elettroacustico dei brani ricchi di complessità di Cifariello Ciardi, Sinigaglia, Maldonado, Galante, hanno contenuto naturalmente e senza fratture le sonorità della parola poetica recitata dall’attore-cantante Jona, in una espansione di senso spesso sottolineata dalla proiezione di video dedicati.
Dimostrata quindi, ancora una volta (semmai ce ne fosse ancora bisogno) l’intima contiguità strutturale delle forme di espressione musicale contemporanea con quelle legate alla parola e alla sua pronuncia.
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La Giuria del Premio ha selezionato i seguenti finalisti:
Franco Buffoni (Guerra, Mondadori, 2005), Franca Maria Catri (Il corpo il sogno, Gazebo, 2004), Nadia Cavalera (Superrealisticallegoricamente, Fermenti, 2005), Elena Corsino (Le pietre nude, Il filo, 2005), Giusi Drago (La pazienza della mano, Nicolodi, 2005), Paolo Guzzi (Arcani archetipi, Fermenti 2006), Tomaso Kemeny (La Transilvania liberata, Effigie, 2005), Sergio La Chiusa (I sepolti, Lieto Colle, 2005), Alberto Mari (Pensieri, orologi, La Vita Felice – Niebo, 2005), Maria Pia Quintavalla (Albumferiale, Archinto, 2005), Jacopo Ricciardi (Plastico, Il melangolo, 2006), Massimo Scrignòli (Lesa maestà, Marsilio, 2005), Adam Vaccaro (Labirinti e capricci della passione, Milanocosa, 2005), Simone Zafferani (Questo transito d’anni, Casta Diva, 2004).
La Giuria del Premio ha designato tre vincitori:
Tomaso Kemeny, Maria Pia Quintavalla, Simone Zafferani.
Grazie alla collaborazione del quotidiano “L’Arena”, una Giuria dei Lettori ha determinato tra questi poeti il supervincitore, esprimendo così la propria scelta tra la “favola onirica” di Kemeny, il libro di “dolenza e luce” di Quintavalla e l’intensa opera prima di Zafferani.
Questa Giuria è formata dai grandi lettori delle principali librerie di Verona, della Biblioteca Civica di Verona, della Società Letteraria, dei Licei Classici “Maffei” di Verona e “Cotta” di Legnago (Vr), dei Licei Scientifici “Fracastoro” di Verona e “Medi” di Villafranca (Vr).
Supervincitore è risultato Simone Zafferani, con “Questo transito d’anni” edito da Casta Diva.
La Giuria del Premio ha selezionato i seguenti finalisti:
Lina Angioletti (Parole per un uomo), Silvana Colonna (Le ciglia dell’Orso), Marinella Galletti (Dentro alle fonti), Andrea Gigli (Questioni di levità), Tommaso Lisa (rebis.terminali), Andrea Rompianesi (Rimbaud Larme), Luigia Sorrentino (La periferia del mare), Pietro Spataro (Repertorio occidentale).
Tra le opere da loro presentate, la Giuria del Premio ha designato vincitrice la raccolta Dentro alle fonti di Marinella Galletti, pubblicata, grazie alla partecipazione della Biblioteca Civica di Verona, nella collezione “La ricerca letteraria” di Anterem Edizioni.
La Giuria del Premio ha selezionato i seguenti finalisti:
Bruno Conte, Mauro Comba, Alessandro De Francesco, Ottavio Fatica, Miro Gabriele, Lidia Grillini, Loredana Magazzeni, Camillo Pennati, Maria Pizzuto, Giuseppina Rando, Domenico Tarizzo, Liliana Ugolini.
Tra i testi poetici da loro presentati, una Giuria Critica formata da storici della letteratura e dell’arte, filosofi, critici letterari e docenti universitari ha designato vincitrice la poesia inedita Ai bordi della vasca di Ottavio Fatica.
Il riconoscimento è destinato dalla Giuria del Premio ad Antonio Prete. La sua scrittura si sottrae a letture che separino la filosofia dalla poesia, l’erudizione dalla passione e ci propone un’esplorazione del pensiero mai disgiunta dal sapere del canto. Nella sua prosa trovano ospitalità registri, toni e misure che guardano alla parola poetica. Grazie a questa scrittura, nella tela del visibile si aprono squarci e varchi che conducono alla ricerca del senso. All’autore viene riconosciuta, grazie alla partecipazione della Regione Veneto, la pubblicazione di una raccolta di testi selezionati tra le sue pubblicazioni e i suoi lavori inediti. L’opera ha per titolo Della poesia per frammenti e viene edita nella collana “Itinera” di Anterem Edizioni.
Cliccando su ciascun nome qui sotto indicato, comparirà la foto del poeta durante la premiazione, un testo tratto dall'opera vincitrice, il corrispondente brano musicale composto da Francesco Bellomi.
Maria Pia Quintavalla
*
Album feriale, Archinto 2005
Al grande fiume
I
Oh grande fiume che prepari
e ripari
parole colpe, opere e omissioni
parolefiume e grande padre,
oh fiume lieto, energia soave
che zampilli e festeggi nelle spume
io qui seduta dirimpetto osservo
quanta lieta voglia di vivere traspare
e sento
l'aria fine che fa libero
il cuore, e le sue brume...
pupille lume ritrovato
qui a fianco, o largo fiume che
di notte affondi... e stendi
la tua seta come mano.
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Patrocinio: Regione Veneto
Il riconoscimento è destinato dalla Giuria del Premio ad Antonio Prete. La sua scrittura si sottrae a letture che separino la filosofia dalla poesia, l'erudizione dalla passione e ci propone un'esplorazione del pensiero mai disgiunta dal sapere del canto. Nella sua prosa trovano ospitalità registri, toni e misure che guardano alla parola poetica. Grazie a questa scrittura, nella tela del visibile si aprono squarci e varchi che conducono alla ricerca del senso. All'autore viene riconosciuta, grazie alla partecipazione della Regione Veneto, la pubblicazione di una raccolta di testi selezionati tra le sue pubblicazioni e i suoi lavori inediti. L'opera ha per titolo Della poesia per frammenti e viene edita nella collana 'Itinera' di Anterem Edizioni.
Antonio Prete
*
Della poesia per frammenti, Anterem Edizioni 2006
E' un volume di saggi sulla poesia. Sarebbe riduttivo, dato il genere e la strordinarietà dell'opera, pubblicare qui un estratto. Rimandiamo i lettori a una prossima presentazione, nel sito, del libro.
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Marinella Galletti
Patrocinio: Biblioteca Civica di Verona
La Giuria del Premio ha selezionato i seguenti finalisti:
Lina Angioletti (Parole per un uomo), Silvana Colonna (Le ciglia dell'Orso), Marinella Galletti (Dentro alle fonti), Andrea Gigli (Questioni di levità), Tommaso Lisa (rebis.terminali), Andrea Rompianesi (Rimbaud Larme), Luigia Sorrentino (La periferia del mare), Pietro Spataro (Repertorio occidentale).
Tra le opere da loro presentate, la Giuria del Premio ha designato vincitrice la raccolta Dentro alle fonti di Marinella Galletti, pubblicata, grazie alla partecipazione della Biblioteca Civica di Verona, nella collezione 'La ricerca letteraria' di Anterem Edizioni.
Dentro alle fonti, Anterem Edizioni 2006
Presa di contatto con
il pieneta e non se ne
conosce nome o come
Nel compiersi l'estesa
materia nega di svelare
il segreto di come arrivi
a figurarsi in forma di
corpi-massa l'identità
della moltitudine. Tale
da dirigere il pensiero
sul proprio inarrivabile
riscatto. E proseguire è
il solo dato sui limiti di
molte scoscese del suolo
dove praticare iperboli
dell'abitare. Mettere a
contatto i materiali per
necessità comparativa.
Estendere le cattedrali
sopra ad archi di vento.
Volgere il pensiero alla
sua scaturigine dicendo
che c'è il rovescio. Che
lo si può coltivare. Che
si può abitare il vuoto.
Volendo essere nel volo.
*
La voce di più corde
Un pianoforte è vivo
suonato nella stanza
altro non è presente
nella stanza. Solo le
mani che corrono sui
tasti perdute nel giro
di musica se stessa.
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Patrocinio: Circoscrizione Centro Storico
La Giuria del Premio ha selezionato i seguenti finalisti:
Bruno Conte, Mauro Comba, Alessandro De Francesco, Ottavio Fatica, Miro Gabriele, Lidia Grillini, Loredana Magazzeni, Camillo Pennati, Maria Pizzuto, Giuseppina Rando, Domenico Tarizzo, Liliana Ugolini.
Tra i testi poetici da loro presentati, una Giuria Critica formata da storici della letteratura e dell'arte, filosofi, critici letterari e docenti universitari ha designato vincitrice la poesia inedita Ai bordi della vasca di Ottavio Fatica.
Ottavio Fatica
*
Ai bordi della vasca
Anche se a tenerla indefinitamente
sott'acqua incontra la pressione che esercita
un corpo, l'attrazione inversa ha il sopravvento
e aggalla la gonfia lucida abrasiva palla
di gomma della verità: lo vedi
da come gongola ai bordi
della vasca sull'onda della vanità
del mondo e di quest'acqua torbida che pure
è acqua di vita anche se non lenisce
la follia del finito.
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Simone Zafferani
Questo transito d'anni, Casta Diva 2004
*
è perfetta la quiete degli oggetti
in questa disposizione
nell'uso domenicale di riflettere
la penombra sul fianco delle cose
(un volgersi minimo, estenuato trasalimento).
Nulla ferisce più le cose in questa
usura periferica del loro
vivere
-non conta alcun perchè, è un lieve sfarsi,
un ossidarsi continuo.
*
siamo infine nel punto di catastrofe
dove siamo voluti arrivare
- qui il tempo è una cresta d'onda,
lambisce piano la secca della nostra
stupita sopravvivenza.
Qui essere restituiti o sostituiti è marginale
come la cresta dell'onda,
e puoi godere la tua pace negletta,
ascoltare il rullìo delle ricorrenze che pietosamente
accampano attese e reclami.
*
questo transito d'anni a fissare
il punto dove è certo che cadranno
ha un tratto cristallino, elementare
se anche sfumasse questo mare
io resterei fermo, ad aspettare
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Tomaso Kemeny
*
La Transilvania liberata, Effigie 2005
Dal Prologo
Io canto l'aquila involo
prima che fossero creati i cieli;
canto il volo che figurò nel vuoto
l'albero e i rami innevati
prima che sorgesse monte a presidio
delle piane frustate dall'uragano.
(...)
Canto il fiume che scorre da sempre
oltre le barriere dello spazio
e varca il gorgo luttuoso del tempo
allorchè il cosmo fragile dell'uomo
s'inabissa nell'orbita del teschio,
titanica dimora dell'anima.
(...)
Io canto il coraggio che unisce
cielo e terra e seguo l'aquila in volo
verso il cerchio cocente del sole
per plasmare con l'argilla del fiume
che scorre oltre i gorghi della morte
il Dio portentoso invocato
da chi combatte per la bellezza
e per il bagliore delle origini.
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“… e sparire. Ha parole il tempo, come l’amore” (P. Eluard)
La terza e ultima parte del nuovo libro di Maria Pia Quintavalla, Album feriale, Archinto, 2005, ha come interlocutore un’anima che si protende a un volontario colloquio “per cenni e suoni” con altra anima. I “legami del mondo” sono accantonati mentre appaiono l’immagine e l’immaginazione che rendono “più viva dei viventi” la madre defunta. Ma il “rumore dei vivi” minaccia l’interruzione dell’incanto che vede la madre-aria farsi il luogo stesso in cui la figlia la accoglie; e sono rumore “spemi e rimorsi”, “gesti che mai avrebbero cessato di comandare sui cuori”. E’ invece fatto di silenzio il conversare delle due essenze che si toccano “col pensiero, e desiderio tutto, a lasciare sprigionare gli incontri che sarebbero fluiti.”
Colpisce, alla fine dell’opera, l’uso di questo verbo, fluire, così indissolubilmente legato all’incipit del libro dove, a fluire come il fiume che descrivono, sono i versi stessi. Certamente il grande fiume al quale si riferisce Maria Pia Quintavalla è il Po’, chiaramente un simbolo, come annota Franco Loi nella Prefazione: della vita che scorre, del sorgere di uno spirito che può farsi poesia. Dunque fluisce un fiume maschile al punto da essere “grande padre”, e fluiscono gli incontri con l’anima della madre.
Purgatoriale è l’ambientazione dichiarata a contatto con la madre. Il medesimo aggettivo non potrebbe essere usato per il fiume padre, che non sfugge, non deve essere fermato, non ha varco da superare. Il contatto con lui, a considerarlo presenza ordinaria della realtà, sarebbe concreto. Eppure del Purgatorio anche questo fiume ha le caratteristiche: “prepari / e r i p a r i / parole colpe, opere e omissioni”.
Del fiume non si coglie infatti l’oggettività, ma la sostanza nascosta. Alla poetessa occorre un gesto per appropriarsene: il sentire “l’aria fine che fa libero / il cuore”; così come un gesto, un fare qualcosa: “Cosa sarebbe accaduto di lì a poco, se non avessi fatto qualcosa come l’antico prenderti per mano, un afferrarti al volo come un tempo”, è necessario per non dissolvere se stessa e la madre.
E’ certo individualistica, privata, la dimensione di Album feriale, uno scandaglio del sé, direbbe Saba. Così, tra il fiume padre e l’aria madre, si ha lo svolgimento di una narrazione che ha per oggetto l’anima stessa, i suoi conflitti interiori, i colpi che subisce nel confronto con la realtà: il prendere ad esempio atto di non potere parlare, non potere chiedere testimonianza, alla bambina della foto, perché “io ‹‹sono quella bambina››”.
Senso e salvezza alla vita sono dati dalla scrittura. Vengono in mente i versi famosi di Fortini, in “Traducendo Brecht”: “La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”; “Se Dio mi ama io scrivo e se non scrivo muoio, peggio beccheggio” afferma la poetessa, quasi in tono da confessione.
E dalla sua scrittura traspaiono alcune sue letture. Gozzano de La via del rifugio: “bianca la sella / bianca la donzella” corrisponde a “Bianche calzette bianche” di pag. 47; ma da Gozzano Maria Pia Quintavalla ha derivato soprattutto il senso della grazia delle bambine sorelle, così come, probabilmente, anche il tema dell’ineluttabilità della morte. Scrive Gozzano: la morte “E’ una Signora vestita di nulla e che non ha forma. / Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.” Ma a livello tematico non vi è analogia. Se la cartolina, se “ciò che è stato e non sarà più mai” all’uno servono per non partecipare alla vita, l’album della seconda restituisce, quando è possibile, la vita: “a semicerchio cantano un refrain in sordina / che dice ben tornata notte, / e buongiorno, piccolina.” Una vita che, è nel libro di fondamentale importanza, è più volte definita “futura”.
“Intanto cresce l’erba piano / intorno a noi” sono le parole che, più degli elementi esplicitamente dichiarati, fanno pensare a Pascoli, a quell’immagine dell’erba che cresce sopra le fosse, ne “Il gelsomino notturno” o a quando in “Non gridate più” scrive: “Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba, / Lieta dove non passa l’uomo”.
Oltre a “futura” e a “cammino” altri ancora sono i termini ricorrenti. Certo ognuno ha una complessa significanza. Si vuole comunque sottolineare la ricorrenza della parola “sparita”, sicuramente di medievale rimembranza che “cozza” con termini come “tegola”.
Meriterebbe anche attenzione la scala dei colori: tranne una volta il rosso, le tinte sono tutte pastello: grigio, turchino e rosa. Insomma i giusti toni per un …album feriale.
Un libro complesso e riuscito, questo Album feriale in cui oltre al tema, tanto conta il livello fonetico. La trama dei suoni, –si prenda la prima lirica-, la loro orchestrazione, il loro suggestivo disporsi, si ha mediante le allitterazioni (prepari, ripari, parole …; parole, colpe, lieto, zampilli…; festeggi, fianco, fiume, affondi…), le rime (fiume-spume-brume-lume-fiume), le ripetizioni.
Piace anche l’uso del quinario, primo emistichio di tanti endecasillabi (Oh grande fiume; parole colpe; parole fiume; oh fiume lieto; io qui seduta; il cuore, e le sue; pupille lume; di notte affondi) che si alterna a un solo settenario (che zampilli e festeggi), mentre due versi (l’aria fine che fa libero; la tua seta come mano) giocano con il doppio quaternario.
Il tutto a dimostrare come davvero Maria Pia Quintavalla sia riuscita nell’intento di fare fluire… un fiume, un colloquio, un ricordo, un cammino, un futuro, un giardino…
…vi sia infatti “un bel giardino” oltre il “mistico morire” , sia pur quello di una piantina.
Il finale di un libro che si avvale di una citazione di Gianni Celati non lo si può infatti presupporre che luminoso e lieto. Di Celati si ricorda infatti, in Narratori delle pianure, il personaggio del farmacista ormai vecchio e dimentico persino del cibo che, non tollerando le conclusioni tragiche, si dedicò “a riscrivere il finale d’un centinaio di libri”.
Norma Stramucci
a cura di Stefano Lanuzza, Giubbe Rosse, Firenze, 2005, pp. 64, s.i.p.
Si tratta di una lunga, esauriente intervista (meglio, di una serie di interviste) che Stefano Lanuzza “porge”a Massimo Mori, poeta performativo, “da oltre un trentennio sperimentatore solista della poesia visiva e fonetica”, “cultore della dialettica fra scienza e arte, laico evocatore dei creativi demoni dell’analogia” (come scrive Lanuzza); dagli anni ’80 direttore artistico degli “Incontri letterari” presso le fiorentine, storiche “Giubbe Rosse”; ideatore e curatore (negli anni Ottanta), a Firenze, del circuito di poesia “Ottovolante”, “felice connubio tra associazionismo culturale, movimento della poesia e una diffusa creatività” (ancora Lanuzza). Né si dimentichi la pratica di esperto conoscitore e maestro di T’ai Chi Ch’uan. Un profilo, dunque, intenso, ottimamente delineato nelle proprie specificità, questo che Lanuzza traccia ed espone.
Ma è poi soprattutto all’universo della poesia “totale”, al rapporto tra scrittura e visualità, alla “poesia in azione”, all’arte dell’improvvisazione che il libro guarda, interrogandosi e proponendo al lettore un affresco di rimandi, richiami, stimoli critico/teorici, etiche sollecitazioni, dichiarazioni di poetica “totale” (non totalizzante): tutto ciò per ben definire e prospettare a chi legge l’ambito delle ricerche in cui Massimo Mori si muove ed opera, a partire dall’ esperienza futurista che ne è come l’incunabolo, la sorgente.
Questa “voce a + Voci”, questo “training corporale” (come Mori stesso definisce il proprio “fare”), questo esprimersi “ ‘all’incrocio’ tra paradigmi culturali, saperi sociali e relazioni artistiche multiple” (così ancora Mori) hanno prodotto negli anni opere ed “azioni” come il poema concreto CODEX (del 1989), la performance “Combattimento con l’ombra” (del 1990), il”poema” STONEFAX (definito “pietra-poema-serena”, del 1993); ancora “Yin – Yang. Tavolino e sedia per l’ospite gradito”; le performance PERDOINDIO (del 2001), Dramatis personae, e così via.
Un vasto affresco, dunque, per una vasta esperienza. Da non dimenticare, nel volumetto, la sezione “Iconografia”, scelta di foto relative a molte delle attività suddette, giusto secondo l’illuminante esergo di Marinetti: “Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto d’immagini nuove…”
Mariella Bettarini
Una riflessione su “Armi e mestieri” di G. Neri, collana Lo Specchio, Ed. A. Mondadori, aprile 2004.
di Andrea Giuseppe Graziano
La Poesia oggi è quell’affacciarsi all’abisso, lotta tra inferno e salvazione, tra danno e ‘protrusione’ in vita.
In questo essere ‘in limine’ di cui consta propriamente la condizione del Poeta, l’autore lombardo vive momenti di tensione e dis-tensione, ma ‘sussume’ quelle contrapposizioni di forze, tali -finalmente- da indurre l’animo a esperire la realtà attraverso uno sguardo complesso, proprio perché complessivo, autentico proprio perché in grado di abbracciare con una intelligibile consapevolezza esistenziale le ramificazioni delle dinamiche contrarietà e finanche delle barbarie vissute a proprio danno (Giampiero Neri infatti, di Erba, Como, classe 1927, vive drammaticamente il secondo conflitto mondiale, l’uccisione del padre nel periodo di guerra civile dopo l’8 settembre del 1943, quindi l’affanno per il dissesto finanziario, e le amarezze degli obblighi ai quali la vita lo spinge, taglieggiato da urgenze che impongono il cambiamento e talora la rinuncia allo studio -che però tornerà in forma di ricerca autonoma, parallela ai disbrighi pragmatici e lavorativi- il suicidio della sorella Elena, ventenne, nel 1947, quindi le insolenze impiegatizie, come pratica falsificata della comunicazione -dall’una e dall’altra parte dello sportello bancario- che egli evidenzia da un punto d’osservazione privilegiato, qual è quello interno al luogo dell’inganno, come consuetudine utilitaristica).
Soprattutto grazie a quella peculiare sensibilità estetica omnicomprensiva, Neri guarda “le cose” sotto la “realtà prima” e le persone che gli si sono accostate al di là delle incipienti intenzioni, cogliendo le relazioni intime e il senso profondo che si disvela nel momento in cui queste figure prendono forma di “oggetto poetico”, di “emblema”, o di “personaggi” che ri-vivono nel verso.
Se si dovesse dire in sintesi il valore dell’ultima silloge “Armi e mestieri” si evidenzierebbe come maggior dote della sua maturità poetica la qualità d’un metodo, attraverso il quale si perviene alla ‘quiditas’, che nel Nostro è l’essenza del reale che può gustare lo sguardo.
L’essenziale, solo, può interessare il Poeta, e questo talora si dà alla fine d’un movimento, quando lo spazio e il tempo non contano più, allorché il gesto naturale che la coscienza estetica registra è già completamente consumato, alla fine della curvatura d’un volo o nell’armonia di un ramo, di un kiwi che contende lo spazio vitale a una betulla; talaltra l’essenziale pòrto nella lirica anti-retorica di G. Neri si dà ‘in media res’, anziché nel noumeno, s’offre con la stessa fluidità del dispiegarsi dei fenomeni -anziché nell’ambito dei soli significati, delle idee, del puro pensiero- ma pur sempre colti in un attimo di pausa, di vuoto, in forza del quale tutto ha senso, nella quiete che c’è tra una spinta e il suo contrario.
Vediamola allora, e ascoltiamola la Poesia di “Armi e mestieri”, compiendo il viaggio suggerito dal Poeta nella sua interna scansione.
Ecco aprirsi lo scrigno sin dalla prima sezione, ‘Persona seconda’, che inizia con “Intermezzo”, l’immagine di uno stormo vociante che si abbatte su rami “come a un traguardo”, mentre era altra la meta: come in natura l’uomo si inganna, è il gioco del falso solutivo, del senso dell’approdo come ‘punto in movimento’ e dell’inadeguatezza, dell’attesa inesausta che è nel viaggio, nella ricerca e quasi mai nella fine, soprattutto se poi si tratta del traguardo sbagliato o intermedio, e pertanto insufficiente, ancor più terribile dell’errare dal principio se può portare a morte anticipata, allo schianto per delusione, quando il pericolo è perdere di vista la meta autentica.
Si schiude poi un breve capolavoro. Il dramma della paura allo specchio: l’autore sa guardare la forma, “l’atteggiamento orrifico di alcune specie di uccelli”, quanto “le loro paure”, interne.
L’orrifico è riconducibile ed è insito nella natura, è causa ed è colpo subito, allorché la vita nasce là dove anche si consuma.
Si prosegue con un “camminamento/ sotto la volta degli alberi” che conduce a una visione di vitelli che si erano “rialzati” in una strana luce tra le foglie, quasi una mistica esperienza, irripetibile per le coincidenze degli elementi, che si illuminano, quasi tendono ad uscire-verso, ad offrirsi nella loro cogente epifania.
In “Origine” troviamo una fulgida intuizione inerente ai colori, che in arte funzionano come le figure retoriche in poesia: riecheggia all’uopo il saggio su S. Mallarmé dell’amico e poeta P. Valéry nel quale si evidenzia come le figure retoriche e fonosimboliche non siano più un accessorio, ma il contenuto stesso dell’opera, e la forma non sia più l’effetto del suo contenuto ma in qualche modo ne risulti la causa; qui difatti è nell’aspetto d’un colore “dove il verde è più scuro” che ha luogo una mutazione, il germinare della vita, come il “venire alla luce”.
Volgiamo lo sguardo a nuova pagina. Come Leopardi nel passo dello Zibaldone del 22 aprile 1826 meditava sul giardino apparentemente sereno e in realtà in preda alla ‘souffrance’ per l’infestazione d’insetti, per la troppa luce, o per l’errata esposizione, al caldo, o all’umidità di alcune piante, o persino a causa d’una semplice passeggiata di fanciulla che costa la vita a miriadi di esseri -giacché l’intero creato è soggetto al male- così “nel giardino” di Neri l’arco di trionfo “che vede il kiwi prevalere/ la betulla vicina a soccombere” sottende l’agone di cui consta propriamente la vita, ma ormai, liberato dallo struggimento tragico, è colto dopo la lotta quando è invalsa la mutazione ed è nato un nuovo equilibrio che è, significativamente, arco, curvatura di rara bellezza.
Dopo di ciò entra in scena il personaggio carismatico, il Professore, che -forse è lo stesso che in gioventù ha nutrito l’autore delle sue perle preziose- “arrivava da un paese vicino”; egli deve ‘andare per andare’: nel convegno abituale fra le colonne del “Caffè di Inverigo” non cerca un posto, ma il confronto dell’anima con la verità: ora la ‘aletheia’ che non implica a priori l’idea di possedimento stabile, è giustappunto suffragata dalla modalità della ricerca, la quale è per sua natura viaggio, movimento verso qualcosa che ancora non si possiede, e che il Nostro rende visibile anche nello spazio narrato: immerso in quella precarietà, figurata da “Poros” e “Penia” che danno vita ad “Eros”, al “cercatore” di quel fuoco, di quella sapienza che può essere raggiunta, ma anche perduta e nuovamente ritrovata in una “caccia” senza fine condotta da vero affamato, il Professore compie il suo viaggio dal paese vicino; “perché non abita qui?” dicevano/ “e dopo” rispondeva “dove vado”?
In “Mimesi” -si potrebbe asserire portando alle estreme conseguenze l’illuminazione neriana- Dio è nelle cose (Aristotele sosterrebbe a questo punto che l’Essere è analogo), è nelle “macchie ocellari” sulle ali delle farfalle, mimesi geometrica del suo circolo perfetto, infinito che ci guarda.
E si perviene alla chiusura della prima sezione con “Persona seconda”, tributo a chi è dietro o al fianco, compagno meno in vista, come destinato all’ombra.
***
Prosegue la raccolta, sia nella sezione ‘Sequenza’ e sia in quelle successive, con poesie senza titolo, e nelle quali Neri indugia nell’uso dei verbi all’imperfetto del modo indicativo, quasi a dipanare l’azione in un continuum narrativo dilatato: il Poeta ri-cerca e ri-crea nel tempo lirico dell’imperfetto, che è ‘non-essere’ inteso come ‘divenire’(poiché non è più e non è già, è stato ma procede ancora), i rapporti e le relazioni di senso, i significati attraverso la ‘ri-presentificazione’ illuminata del vissuto, difigure ed esperienze che vengono dal passato e non hanno ancora esaurito i loro effetti predittivi e predicativi.
“Si scendeva…fino a raggiungere un bivio”: com’è nella vita, che non lascia scorrere nulla che poi non divida nel fondo della sua stessa natura per consumarla nell’intimo, com’è nel ‘logos’ che divide in due il pensiero nel dialogo, o nei “da una parte” e “dall’altra” della riflessione, come avviene per due amici o due fratelli, spesso di fronte a un bivio della coscienza.
Ne “Alla ricerca di un punto di vista” tutto è nel punto di vista dell’artista, nell’articolazione dello sguardo, che diviene paesaggio. Neri è talora nel “mare dell’oggettività” che comprende soggetto ed oggetto nello stesso campo; sicché il poeta -non escludendosi dall’oggetto poetico, dal referente semantico- è però anche quel “medium” che -come dire- si estende dalla psiche al pennello dell’artista, e come nel gesto di Leonardo o di Pollock, si fa antenna del mondo, strumento e atto concettuale e poetico.
In “Cercando la verità nel paradosso” emerge la figura di Giuda, personaggio centrale d’una piéce che sta costruendo lo scrittore di provincia, e che inizia con l’immagine del mare nella sua ‘presentificazione’ sonora: il Nostro è in grado (come lo scrittore protagonista della poesia) di agganciare col verso il presagio, la proiezione anche futura, per questo sceglie come figura fono-simbolica d’esordio il mare: le acque, nel contesto culturale e religioso giudaico-cristiano, oltre che l’elemento primordiale, sono propriamente immagine ambivalente della morte -a cui la figura di Giuda inesorabilmente tende- e dalla quale pure si inizia la vita.
In “Poi vennero i giorni veloci” un aspetto che colpisce è l’intuizione terribile della velocità delle ore e dei giorni: è così disumano l’accorgersi del finire nel tramonto, quanto è prerogativa solo umana il percepire lo scorrere del tempo; è a causa della nostra intelligenza che si soffre in modo eminente, che è poi il modo pienamente umano.
In “Correndo si allontanavano” riluce il “dedalo di viuzze”, immagine delicata che cade come petalo su una lirica scura: in quelle strade infatti si allontanavano giovani dal volto scoperto in tempo di guerra, che qui è caratterizzato dalla sua accezione visiva d’una “luce di coprifuoco”.
“Quella coda solitaria tagliata…” è inconsueta e vivida immagine della vita illusoria, d’un ansito mortale che ancora per poco abita una coda di ghiro, pezzo animale separato, appendice che rivendica con la sua bellezza lo statuto -ancor più che d’avere funzione di equilibrio per la bestia- di ‘essere-per-la-forma’: la sua “bella forma come una bandiera”.
Dopo entra in scena un emblema dal passato: il libraio, personaggio caldo e vicino all’autore, colto in un gesto consueto, quello di volgersi un poco dalla sua occupazione dello spolvero, per consigliare di leggere “ritratto di persecutore”; con una mano leggera qui il Neri suggerisce il permanere della bellezza di quel mestiere, pur in un contesto lacerato qual è quello della guerra, che influenza le scelte dei titoli da consigliare al particolare avventore in “quella mattina di dicembre/ del 1944”.
“Di quel teatro all’aperto” offre ancora l’acqua, del lago, simbolo della morte ‘ontica’, che è speculare alla “morte” di figure -significativamente non più uomini- da teatro, maschere mute e disperse di cui “era difficile ritrovare i fili”.
Chiude la sezione “Quella casa isolata”, dove troviamo tutto lo splendore d’una similitudine che già lascia sbocciare il “correlativo oggettivo” che in essa si prelude: figura retorica che -si vuole ricordare- ancor prima di divenire preminente in Montale che amava e traduceva Eliot, era presente -forse in embrione e come rara esperienza linguistica- nella lirica “San Martino del Carso”: lì Ungaretti correlava i pezzi, i brandelli di muro, di case, di S. Martino deturpato dalle esplosioni del primo conflitto mondiale, alla sua condizione di sopravvissuto, per cui il suo cuore -che partecipava a quel teatro dell’assenza- era “il paese più straziato”, dove “nessuna croce manca”, qui invece Neri evidenzia al centro della scena “la casa isolata”, ma “…passata indenne dalla guerra e dopoguerra”, eccezione al crollo e alla devastazione e pertanto, come “la salamandra nel fuoco”, corpo estraneo, alieno all’ambiente, che pure descrive per opposizione; in questo caso Neri supera anche la necessità di entrare in qualità di ‘Io-lirico’ in corrispondenza alla condizione interiore suggerita nel quadro rappresentato per compire la correlazione significante, come invece necessitava di fare Ungaretti; qui, già ‘sunt lacrimae rerum’.
Si passa alla parte successiva titolata ‘Finale’, in cui gli elementi rappresentati sono orientati a compiere il loro epilogo, che talvolta è scioglimento, evanescente allontanamento, “come sassi lanciati sull’acqua/ che affondano dopo breve corsa”.
È il caso di un paesaggio ottocentesco su tela, dimenticato, del dolore del ritorno dalla prigionia in una comunità divisa dalla guerra civile, di un libro -pur esso superstite- che annuncia una verità presaga ed emblematica: “se fan pastors … et son aucidezors”.
Quindi è la volta della sezione “botanica”. Non è ivi l’uomo, ma sono le piante protagoniste delle liriche. La lotta per vivere delle piante è paradossalmente, in tempo d’opulenza e disponibilità, minacciata dalla troppa cura del giardiniere. Alcune specie infatti vivono -si osi dire- per assenza d’acqua, come ‘ossimoro naturale’, perché trovano la forza vitale solo suggendo al proprio intimo ogni volta le energie residue, sicché è delitto occuparsene in qualche modo quando la loro essenza gode del deserto, della lontananza raccontata finanche dall’ornamento di spine.
Infine si schiude la sezione “Armi e mestieri” e tornano ad esser protagonisti gli uomini in situazioni ultra-realistiche.
V’è un assicuratore anziano che tiene in gabbia nel suo ufficio una civetta, così, per richiamo o per compagnia. Una civetta in un ufficio che ha perso la sua costituzionalità e funzionalità, essendo questo vuoto, quasi uno sfondo neutro per dar risalto all’agonia del volatile.
Entra in scena un musicista che ricorda qualche vecchio lied del suo repertorio, caduto in disuso, e che pertanto, così dimesso, si nutre del ricordo.
Quindi è l’attrice ai suoi inizi tra i giovani musicanti, gruppo d’artisti che probabilmente fermentano come lei di intuizioni ed intenzioni, come sempre accade a chi crede di nutrirsi della follia.
La filarmonica locale (di seconda o terza categoria?) dotata di strumenti primigeni quali gli zufoli di canna, si riunisce nelle occasioni, anche sotto la neve.
Il capomastro, ‘di parte’ in tempo di lotte civili, ora è in prima fila a dirigere la banda musicale, tornato a quella inerme dis-avventura dell’ordinario.
Indi una splendida poesia, “davanti alla scalinata del Terragni”, incontro-rivelazione sulla profonda, umana e preziosa vocazione alla compassione: un figlio che nell’abbraccio con l’amico di suo padre, ultimo testimone che quasi svapora “in quelle nebbie, una mattina di novembre”, mentre, significativamente, era caduta la bicicletta, trova tutto un mondo di silente vicinanza e comprensione, tanto più vera ed intima quanto colta nel mistero del velo evanescente che fa quasi deporre a favore di una visione, piuttosto che di un incontro reale.
E via, fino al tralucere dell’ultima bella prova poetica: una casa disabitata, nell’oscurità della sera, “deserta di quelle care ombre/ che il tempo aveva cancellato”. Immagine questa, del nido, che ci rinvia al fulgido sprazzo di bianco della casa immersa nel nero della montagna offuscata da nubi minacciose, che è in “Temporale” di Giovanni Pascoli. Autore con il quale oltre alle significative consonanze per l’esperienza della perdita e della ricerca -che in Pascoli si fa mito- del nido familiare e d’una corrispondenza d’amorosi sensi -che in Neri è invece quasi velata per pudore, nascosta- sublimata nel dispiegarsi del verso poetico, possono riconoscersi anche alcune relazioni -pur tenendo in considerazione i larghi margini in cui sussistono le differenze legate alla sensibilità personale, culturale ed esistenziale- nel modo costruttivo simbolico.
Il percorso lirico-simbolico pascoliano, che, secondo quanto individuato dal Sapegno, parte dalla presentazione d’un emblema e si sviluppa nella spiegazione dell’elemento emozionale, è in qualche modo afferente anche al Neri, ma mentre nel Pascoli, prevalentemente della prima raccolta, permaneva tale assetto binario dell’alternanza del significante e del significato, nel Nostro i due elementi possono fondersi o rendersi in modo autonomo.
Questo è anche il valore di “Armi e Mestieri” di Giampiero Neri, e molto altro senza dubbio il lettore vi troverà, nel porgersi a diretto contatto con le parole che si stagliano linde e serene dalla pagina bianca, giacché con grazia lo lasceranno imbevere di risonanze, originando quel miracolo che Luzi rivendicava alla Poesia, di essere un mezzo insopprimibile per elevare la vita.
Andrea Giuseppe Graziano
Insegnante di Lettere e poeta, ha pubblicato “Dei Silenziosi bui” Ed. Aletti, ottobre 2003 e “Stanze critiche”, Ed. Aletti, febbraio 2005.
«Vedi, io salgo, vedi, io cado, sono un altro, non un altro», fa segno Celan.
Mi metto sulle orme di quel movimento che precede la parola, in un protendermi “verso”, un protendere che interpella e invita.
L’evento silenzioso dell’origine: non si tratta di violarlo, ma di custodirlo in forma di parola, nella parola stessa. Perché ciò accada, a ogni parola va imposto di separarsi dal senso che le preesiste.
È vero che l’origine si configura come effetto di un gesto che la precede. Credo che sin da ora io possa parlare a questo proposito di sradicamento, lacerazione, scissione.
Si tratta di interrompere la relazione che abitualmente intrattengo con la parola. Tale sacrificio pone fine ai legami abituali, per creare quel vuoto che consentirà l’inaugurazione di un nuovo senso.
Certifica Luzi: «Da segno convenzionale a parola che dice, questo è l’itinerario della scrittura poetica». Senza dimenticare che a sua volta il segno convenzionale ha le sue radici nella parola che dice.
Mi domando: è ancora pensabile l’autonomia del sensibile rispetto all’intelligibile? è lecito che i sensi facciano a modo loro?
Non soltanto un altro occhio, capace di vedere il nascosto, ma anche un’altra lingua, in grado di dire l’inespresso, lasciandolo esprimere.
L’esperienza poetica è una caduta esistenzale nel pensiero prelogico, una discesa verso il cerchio oscuro della «monoocularità delle origini», come scrive Benn, e delle «polifemie» della creazione.
(Il poeta è un tenace e irridente scrutatore della condizione umana, della quale documenta con meticolosità la lenta dissoluzione. Il fiume delle sue considerazioni è un intreccio di molti rami, con furiose rapide e vortici. Le risultanze della sua ricerca portano a un grido. Quel grido che i frequentatori della disperazione umana e della follia come Munch, Hölderlin, Nietzsche, Van Gogh non hanno smesso di ricordarci nelle loro opere.)
Pensavo anche a quel frammento di Eraclito: «Quando la sua vita è spenta, nella notte accende una luce a se stesso; e vivo è a contatto col morto, e desto è a contatto col dormente».
L’esperienza del limite: l’origine, uguale a zero (penso al Significato delle tragedie di Hölderlin). Per poi esporsi all’Altro (penso a Edipo il Tiranno di Sofocle).
Sono quello che scrive e sovverte se stesso scrivendo. Come annota Foucault: «Quando scrivo, lo faccio soprattutto per cambiare me stesso e non pensare più la stessa cosa di prima».
Invitato a essere quello che scrivo, eccomi qui. L’avvertimento mi è giunto: se cerchi la poesia fuori di te, voltandoti la perderai.
Quando non sono io a pensare, qualcosa emerge in me pensante come uno sviluppo che a un certo punto si estende sino a me…
Dico ascoltando; in un riudire che porta a parola l’inespresso.
Qui il senso non è mai pienamente presente, ma si dà come differimento continuo, traccia. Siamo o non siamo all’origine di un evento?
L’uomo può avanzare, scrive Benn, «fino a quelle sfere dove nella totalità stanno antichissime sfingi».
In questo viaggio a ritroso c’è il senso della tradizione autentica: quella tradizione che risale all’infinito verso il luogo dell’origine, ripercorrendo quell’itinerario che l’umanità ha già compiuto e che si arresta di tanto in tanto per ascoltare le voci che hanno parlato prima di me, di noi.
«Tu e tu, voi dovete rimanere», intima Celan.
Estratto da Flavio Ermini, Il moto apparente del sole, Bergamo, Moretti&Vitali, 2006.
Un anno fa, il 15 febbraio, scompariva improvvisamente il Prof. Franco Brioschi, docente di Critica e Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Milano e autore di saggi come la Poesia senza nome (1978), La mappa dell’impero (1983), Un mondo d’ individui (1999) e la Critica della ragion Poetica (2002) destinati a segnare una svolta nello studio della poesia e della letteratura italiana.
Laureatosi nel 1970 sotto la guida del Prof. Gaetano Trombatore e Vittorio Spinazzola, fin dagli esordi i suoi studi si orientarono verso la poesia intesa come modo d’essere "finzione" in letteratura, e "funzione", nel linguaggio. Dopo aver dedicato i suoi primi interessi a poeti come Vittorio Sereni, che giovane studente va a trovare con un registratore a nastro Geloso e con cui poi condividerà la direzione della collana “Le Silerchie” per il Saggiatore di Alberto Mondadori, e a maestri della critica come Giacomo Debenedetti, le cui lezioni intorno al romanzo pone sempre al centro dei suoi corsi universitari, i suoi interessi s’indirizzano all’opera di Giacomo Leopardi con cui esordì nel 1972 con il saggio Politica e metafisica nel Leopardi.
A cavallo degli anni Settanta in cui la semiotica vive la sua stagione più intensa, Brioschi affronta la doppia crisi di strutturalismo e decostruzionismo - segnalata in quegl’anni dallo stesso Roland Barthes in Critica e Verità (1966) e nell’Impero dei segni (1970) - ispirandosi alla ricerca “anti-platonica” dello statunitense Nelson Godmann (amico e collega di Quine), di cui traduce I linguaggi dell’arte (1976).
Lentamente in Brioschi prende coscienza un metodo che si può definire “militante”, in quanto collocando il critico in una posizione intermedia tra autore e lettore, lo responsabilizza nel compiere la sua funzione, la cui azione consiste essenzialmente in due momenti: il primo dove si deve “spiegare”, tramite una «explicatio verborum, una spiegazione della parola» il significato dell’opera, mediante il “commento ragionato”; il secondo invece risale lungo le scie tracciare dalla spiegazione cercando di rispondere alla domanda “dove nasce?”. Su questi indirizzi era nata la mia ricerca come allievo sull’intera opera saggistica di Mario Luzi, poi pubblicata su «Acme» come Un’arte umana (1996) e in Prima Semina (Mursia 1999).
Compito scientifico del critico appare quindi quello di “spiegare” l’opera svelando anche come, dove e perché, questa si è generata fino ad assunere in quelle forme particolari. Da qui gli interessi per l’educazione estetica e lo stile, che non è da considerare come un dono naturale come ricordava in una recente conferenza al Liceo Parini nel 2002: «Leopardi individua una delle svolte fondamentali dell’estetica moderna: le leggi dell’arte non sono iscritte dalla natura. Sono artificio, sono fondate sull’abitudine, sull’esercizio, sull’assuefazione, e come tali possono essere modificate e cambiate.» Le attenzioni allo stile impongono così un recupero dell’esperienza dell’autore, del suo milieau, del suo gusto, prospettiva psicologica e linguistica, abbandonata nello strutturalismo più orientato a concepire l’autonomia dell’opera letteraria.
In questa direzione nei suoi numerosi saggi dedicati a Leopardi torna ad avere un ruolo, il concreto della sua vita biografica, con i suoi interessi per la poesia romantica, le letture degli illuministi come Schiller, Condillac, e i suoi rapporti umani con Pietro Giordani e l’editore Stella. L’opera poetica è intesa come risultato di una complessità individualmente vissuta, in cui la logica possiede un valore personale, e non diviene “astratta” nell’analisi strutturalista o “negata” come dal decostruzionismo. E “segno” di questa rivalutazione dell’elemento individuale, fu la stessa riedizione dell’Epistolario curata da Brioschi insieme alla propria compagna Patrizia Landi per Bollati Boringhieri nel 1999.
Sulla scia del Roland Barthes morale, in cui avviene un recupero della “vita” del simbolo e quindi dell’opera letteraria, il metodo di Brioschi, anticipato nell’introduzione alla Mappa dell’impero (1983), si precisa nel suo saggio più teorico Continuo, discreto, denso, articolato; il simbolo come unità sintattica (1995), dove l’impasse in cui era caduta la critica letteraria negli anni Settanta,viene superata tracciando un nuovo percorso sulla scia dell’anti-platonismo di Godmann. In questo saggio Brioschi immagina come il critico quando costruisce la sua “spiegazione” deve necessariamente affidarsi ad un codice, i cui simboli debbono essere “articolati” tra loro in modo da inglobare il significato originale, senza traboccare negli estremi del “denso” e del “continuo”, che identifica con strutturalismo e decostruzionismo. L’atto della “spiegazione critica” si deve preoccupare che la tavola semantica del codice sia in grado di “mappare” il senso, più profondo e individuale. Nel caso di codici in cui lo scarto tra simbolo e significato è “continuo” come nel caso della pittura, o “denso”, nel caso del linguaggio, si determina una sorta di errore di quantizzazione, di scarto, che impedisce e blocca l’azione responsabile del critico che è quello di “spiegare” l’opera. Il critico, per questo imperativo categorico morale militante, non può rinunciare alla “spiegazione”, non può rinunciare al commento, alla comprensione, come invece capita negli eccessi dello strutturalismo e del decostruzionsimo. Il dover “commentare” richiede l’uso da parte della critica, di linguaggi in grado quindi di articolare i significati rendendoli evidenti, comprensibili.
Per fare questo si deve necessariamente affidare ad un sistema “articolato” di segni, con cui “misurare”, mappare il significato dell’opera letteraria. Nel saggio Brioschi scrive: «Finché questi segni, questi stereotipi, archetipi continuano ad essere concepiti, come entità indipendenti, di qui alla dottrina della Parola per Parla non mi riesce di vedere una così grande distanza: né il cammino seguito in proposito da Derrida mi sembra così estraneo alla tradizione linguistica e semiotica da cui un tempo aveva preso le mosse. Ontologizzazione del linguaggio, derealizzazione del mondo. Il nesso accomuna ortodossia strutturalista ed eresia post-strutturalista più di quanto non vorrebbero farci credere i reciproci anatemi. […] Per il decostruzionista nessuna interpretazione è più vera, o meno vera, di qualsiasi altra. […] La professione sottoscritta dal decostruzionista è in realtà la stessa di Guglielmo di Baskerville. Io credo nei segni.» Il dovere del critico, secondo Brioschi, è quindi quello di “spiegare” distanziandosi sia dalla «aseità ontologica» del decostruzionista che dalla contemplazione totemica del simbolo.
Una risposta nel metodo di Brioschi a quest’esigenza di coniugare mission e risultati della semiotica, si ritrova nel recente simpatico saggio Come non sono diventato un semiologo (2002) dove Brioschi rievoca l’episodio in cui Umberto Eco, dopo un convegno in un ristorante a Siena durante la cena affermò: «Stasera ci mettiamo d’impegno e convertiamo il Brioschi alla semiotica», tentativo poi andato a vuoto, a causa di una continua richiesta d’autografi da parte di ammiratori, ma che avrebbe trovato qualche ostacolo nelle motivate convinzioni di Brioschi.
La prospettiva “articolata” basata sul criterio di convenzione dell’approccio con cui Brioschi supera la crisi della critica, si può osservare nel confronto fra il parallelo sviluppo della sua teoria letteraria che prende forma in saggi come Elementi di Teoria Letteraria (1984) e La ragione Critica (1986) e Un mondo d’individui (1999) e i numerosi saggi e studi dedicati soprattutto a Leopardi.
L’orizzonte dentro cui Brioschi colloca l’opera poetica del poeta di Recanati rimane fedelmente quello decritto già nell’introduzione alla Poesia senza nome nel 1980: «Leopardi avvia la più profonda rivoluzione lirica del nostro primo Ottocento.[…] Il classicismo del Leopardi è una sorta di classicismo sperimentale», dove i termini classicismo e rivoluzione sono strettamente collegati. L’interesse estetico di Brioschi per “Giacomino”, come la chiamava familiarmente, conduce quindi alle origini di quella rivoluzione stilistica e formale operata sulla struttura della canzone petrarchesca ispirata dal rinnovamento culturale avvenuto in pieno Settecento del concetto di Natura con la comparsa della poesia sentimentale. Ed è proprio questa metamorfosi viene “spiegata” con la volontà di Leopardi di voler superare le abitudini, le convezioni, e di raggiungere con queste nuove forme, non solo la tradizionale «repubblica delle lettere», ma anche «quell’italiano assai colto ma non avvezzo a leggere poesie».
Brioschi svela quindi l’incompletezza, la convenzione, l’artificio e quindi l’irrealtà di ogni sistema di espressione rispetto alla realtà di ogni vissuto individuale, rispetto al senso intimo presente nel mondo di ogni individuo. La centralità di una letteratura concepita per stili individuali, lo condurrà, dopo essere diventato consulente di Giulio Bollati per la nascente casa editrice, a dirigere il Manuale della Letteratura Italiana uscito in quattro volumi tra il 1993 ed il 1996.
Ad un anno dalla sua improvvisa morte e in attesa di veder ripubblicati alcuni suoi saggi (sono in preparazione a cura di Patrizia Landi sia La mappa dell’impero che La poesia senza nome) questo ricordo vuol essere un invito ad avvicinarsi a quanti come Brioschi hanno fatto dello studio della poesia e della letteratura un fine morale basato sulla responsabilità dell’intellettuale nei confronti della società.
Marco Zulberti
Un ricordo di Franco Brioschi ad un anno dalla morte
Marco Zulberti (Trento 1961) si è laureato in Lettere presso l’Università Statale di Milano con una tesi dedicata all’opera saggistica di Mario Luzi. Al poeta fiorentino ha poi dedicato saggi come Un’arte umana. I saggi critici di Mario Luzi («ACME» - Milano 1996), Vita e poesia in Mario Luzi in La vita irrimediabile (Alinea - Firenze 1996) e Prima Semina (Mursia - Milano 1999). Ha pubblicato articoli di carattere letterario, storico e artistico su riviste quali “Passato Presente”, “Judicaria” e “Uomo Città e Territorio”. Autore di profili su Bertolucci, Pavese e Pasolini ha appena terminato un saggio sul sublime in Leopardi e sta lavorando ad una ricostruzione storica sull’ermetismo fiorentino. Al suo attivo anche una serie di raccolte di poesia tra cui Vivere nel buio (1992). Vive e lavora a Milano.
Estratto dell’intervento di Flavio Ermini alla Biennale di poesia 2006
Iniziamo citando quattro versi posti in esergo al numero 72 di “Anterem”, dedicato al tema: hairesis.
E sotto il cielo fugace del purgatorio
Noi dimentichiamo spesso che
La custodia celeste e gioiosa
È la casa terrena che si distende.
Sono quattro versi di Mandel’stam.
Che cosa ci indicano?
Che la volta celeste non rimanda più a un al di là… come se fuori dal mondo si nascondesse qualcosa in attesa…. Segnalano che la volta celeste è un’estensione della terra.
Ma allora cosa accade quando il qui (la casa terrena) non cerca un oltre, un fondamento al di là del mondo? Cosa accade quando il qui cerca la verità di questo nostro mondo?
Ricordiamolo: alle spalle dell’umanità c’è l’elevatezza celeste, abbagliante e assoluta. Ma sta alle spalle, appunto.
Davanti a noi c’è il protendersi dell’uomo verso il fondamento del proprio essere finito: l’incompiuto.
L’eresia si è insediata nella nostra vita e nella parola poetica. L’eresia nel suo significato originario, propriamente hairesis = scelta!
Ed ecco allora che la parola è intenta nel suo ascolto terreno — che non è più celeste, non più abbagliante, non più assoluto.
E la parola finisce per abbracciare il proprio senso e, insieme, il vuoto che la circonda… Accoglie il limite, insomma.
È proprio in questo divergere da un assoluto armonico che s’inaugurano l’atto poetico e il gesto filosofico della modernità, che pure non smettono di interrogarsi sulla sensazione di vuoto lasciato da quella perdita.
E lo trattiene, insieme a quel buio che preme per salire.
Scrivere è un atto di coraggio e di rischio.
E non rappresenta un abbandono della vita, ma un addentrarsi nel folto dell’esistenza = una disposizione ad aprirci verso noi stessi e ad ascoltarci, trovando nuove parole a cui consegnarci.
Scrivere significa conoscere. E conoscere vuol dire, con Novalis, «sprofondare lo sguardo nell’anima del vasto mondo».
Che altro non è che quella “casa terrena” nominata da Mandel’stam… Una casa terrena che così tanto ha a che fare con la parola poetica di cui ci danno conto:
Paul Celan, Osip Mandel’stam, Madison Morrison, Rosa Pierno
Nota: nell’ambito della Biennale le voci recitanti erano di Jana Balkan e Isabella Casella del Teatro Scientifico
Madison Morrison
Il grande poema
come i nostri padri che dovevano
al gusto del piacere la gioia di veleggiare
grigi da sotto i palazzi del centro grigio turbinio
che un tempo dall’Eolia carico di tesori tornò
dopo aver attraversato vasti mari con la sua nave
nera solitarie Cadillac dai tetti bianchi
I fiocchi di neve hanno cominciato con il cadere sul sontuoso edificio e all’interno del suo recinto poi piano aderiscono alla superficie del terrazzo agli steli delle zolle erbose predisposte in modo piacevolmente irregolare ora stanno velando gli alberi che circondano il perimetro e cominciano ad ammantare i tetti di Istanbul. Nel Libro XXIII gli Achei avevano cessato di combattere per prepararsi alla sepoltura di Patroclo mentre dalle montagne viene portato del legname per costruire la pira funeraria per l’eroe defunto vengono organizzate delle gare l’aria si raffredda i vincitori ricevono premi di valore un uomo vestito di nero esce dal sontuoso edificio apre la portiera di una berlina bianca e guida prudentemente attraverso il parco innevato avanzando come se fosse invisibile. Nel Libro XXIV Priamo porta con sé dei doni e si reca alla tenda di Achille per riprendersi il corpo del figlio defunto ha gettato un sacco pieno di merci nel bagagliaio della macchina bianca ora passa attraverso gli splendidi giardini e scompare dalla vista Achille gli cede il corpo di Ettore e interrompe la guerra finché il corpo dell’eroe troiano non sarà stato sepolto.
Il grande poema omerico termina con il funerale di Ettore. «Posero il suo cadavere in cima alla pira funeraria accesero una torcia e gli diedero fuoco dopodiché raccolsero le bianche ossa dell’eroe.» Sul tetto del sontuoso edificio non più verde e ormai coperto dalla neve ci sono più di dieci piccioni che beccano e volano via e poi tornano a posarsi sulla sua superficie. «Misero le ossa trovate tra le ceneri in uno scrigno d’oro avvolgendole con soffici indumenti color porpora dopodiché calarono velocemente lo scrigno all’interno di una profonda fossa e vi ammassarono sopra delle pietre ben pressate tra loro in fretta e furia innalzarono un tumulo e posizionarono delle sentinelle per ogni dove temendo che le truppe degli Achei lanciassero il loro attacco prima della scadenza del periodo di lutto. Una volta innalzato il tumulo tornarono a Troia dove dopo essersi riuniti all’interno della casa di Priamo re per volontà di Zeus condivisero uno splendido banchetto funebre in onore dell’eroe e così i Troiani seppellirono Ettore scozzonatore di cavalli.»
Tre donne escono dal sontuoso edificio e attraversano la piazza per fermarsi presso la cancellata sopra il viale una davanti all’altra e parlano tra loro gesticolando di fronte al campo sportivo la berlina bianca è tornata nel parcheggio davanti al palazzo lasciando nuove tracce sulla neve nel frattempo al centro della piazza un grosso autobus di colore bianco compie delle manovre in modo lento e preciso su di un lato c’è scritto “Polis” nel bel mezzo di tante urla e gesti concitati l’autobus inverte la marcia mentre il traffico viene deviato un cancello giallo viene sollevato all’entrata della terrazza e ai conducenti viene permesso di entrare nella piazza e di parcheggiare i loro veicoli per cinque minuti non accade nulla ma adesso una ventina di poliziotti scendono dall’autobus uno per volta mentre dall’altra parte della strada un operaio rimuove dalla sala di esposizione del Turkcel Building l’alieno color beige ancora abbigliato con un panciotto nero e cravatta bianca lo carica con cura su una macchina in sosta posando il corpo sul sedile posteriore e la testa su quello anteriore.
Osip Mandel’stam
Traduzione di Elena Corsino
*
Lo dico in minuta, in sussurro
Perché non è arrivato il tempo:
S’ottiene con sapienza e sudore
Il gioco del cielo acerbo.
E sotto il cielo fugace del purgatorio
Noi dimentichiamo spesso che –
La custodia celeste e gioiosa
È la casa terrena che si distende.
9 marzo 1937
*
Forse questo è il punto di follia,
Forse questo è la tua coscienza –
Il nodo della vita nel quale siamo
Riconosciuti e slegati all’esistenza.
Come cattedrali di cristalli iperreali
Che una leale luce-ragno
Lascia correre sui costoni, e ancora
Raccoglie in unico fascio.
E i fasci riconoscenti di limpide linee,
Così mossi da timido raggio,
S’incontreranno, un giorno convergeranno
Quali ospiti dalla nobile fronte –
Soltanto qui, sulla terra, in cielo no,
Sì che a una casa di musica colma –
Se solo non li spaventeranno, nè li sfregeranno –
Cosa buona sarà per noi se vivremo…
Ciò che io dico, perdona...
Leggimelo piano piano...
15 marzo 1937
*
Alle labbra mi porto quest’erba –
Questa promessa vischiosa di foglie –
Questa terra spergiura: madre
Di bucaneve, aceri e querce.
Guarda, come io divento forte e cieco
Se mi piego alle miti radici,
E non è forse troppo lo splendore
Del parco fragoroso per gli occhi?
Ma le ranelle, come biglie d’argento,
Con le voci s’aggrappano a sfera.
Si fanno rami i pruni, e la bruma
Latteo pensiero stranito.
30 aprile 1937
I
Alla terra nuda, suo malgrado, volgendo,
Con passo dolce e discorde – lei va
Di poco avanzando l’amica lesta
E il giovane, quasi della stessa età.
È attratta dalla grave libertà
Di quel difetto che le ispira l’estro.
E chissà che un nitido presagio
Si voglia soffermare nel suo andare –
Su quest’aria di ciliegi in fiore
Per noi antica madre della volta tombale,
E questo ha principio eterno.
II
Ci sono donne care all’umida terra.
Ogni loro passo è risuono di pianto,
Accompagnare i risorti, e per prime
Accogliere i morti – hanno per vocazione.
Le loro carezze invocare è scellerato,
Allontanarsene – insostenibile commiato.
Oggi – angelo, domani – verme sepolcrale
E dopo domani soltanto sembianza...
Ciò che era incedere si fa inaccessibile...
Fiori immortali, cielo integro,
E tutto quel che sarà – soltanto promessa.
4 maggio 1937
Le poesie sono tratte dall’ultimo dei Quaderni di Voronez, il terzo (marzo-maggio 1937).
Paul Celan
Traduzione di Luigi Reitani
Salmo
Nessuno ci impasta di nuovo da terra e da fango,
nessuno dà parola alla nostra polvere.
Nessuno.
Tu sia lodato, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
A Te
in-contro.
Un Nulla
eravamo, siamo, ancora
resteremo, fiorendo:
del Nulla la rosa
di Nessuno.
Con
lo stilo d’animo chiaro,
il filamento di un cielo desolato,
la corona rossa
della parola di porpora, che cantammo
sopra, oh quanto sopra
la spina.
Tenebrae
Siamo vicini, Signore,
vicini e afferrabili.
Già afferrati, Signore,
gli uni agli altri abbrancati, come fosse
il corpo di ciascuno di noi
il tuo corpo, Signore.
Prega, Signore,
pregaci,
siamo vicini.
Andavamo sghembi laggiù,
andavamo laggiù per curvarci
su conca e cratere.
Andavamo all’abbeveratoio, Signore.
Era sangue, era
ciò che hai versato, Signore.
Splendeva.
Ci scagliò la tua immagine negli occhi, Signore.
Occhi e bocca restano aperti e vuoti, Signore.
Abbiamo bevuto, Signore.
Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore.
Prega, Signore,
siamo vicini.
Era terra in loro, e
scavavano.
Scavavano e scavavano, così passava
il loro giorno, la loro notte. E Dio non lodavano,
che, così udirono, tutto questo voleva,
che, così udirono, tutto questo sapeva.
Scavavano e più nulla udirono;
non divennero saggi, non crearono un canto,
non inventarono nessun linguaggio.
Scavavano.
Giunse una quiete, giunse anche una tempesta,
giunsero tutti i mari.
Io scavo, tu scavi e scava anche il verme,
e ciò che lì canta dice: essi scavano.
Uno, non uno, nessuno, tu:
dove si andava, se in nessun luogo si andava?
Tu scavi e io scavo e io a te mi scavo,
e al nostro dito si risveglia l’anello.
Rosa Pierno
da Trasversale
… È diviso tra il desiderio di credere a quello che vede e il desiderio di ritrarsi … Immagina un altro essere che guarda l’orizzonte da un’altra terra … Ci si può approssimare a qualcosa senza sapere a che cosa ci si stia avvicinando …
Orbite, sovrapposte a cerchi e a sfere, mostrano trasparenze inusuali la cui unica spiegazione risiede nella loro dislocazione all’interno di un disegno, non certo del sistema solare.
Oltre ai nostri corpi e al vuoto non v’è più nulla. Solo noi nel mondo. Né inferi né superi. Se è vero che le cose universe non debbono ridursi di mano in mano al nulla, ma debbono permanere indistrutte, corpi non possono essere divisi in nessun modo. È questo l’assioma dell’amore. L’indivisibilità degli amanti.
Molecole giocano a rimpiattino o si bendano per non cadere nella monotonia di legami simmetrici. Momenti di transizione elettrici e magnetici ravvivano la monogamia del singoletto e polarizzano l’attenzione verso altri stati. Sfruttando le diverse combinazioni si può rendere visibile ciò che era latente, un interesse per la trigonometria. Per le relazioni amorose geometriche a tre. Moti vibrazionali e vere e proprie scene di tripudio accompagnano ogni accoppiamento inusitato. Gli accoppiamento vibronici non avvengono utilizzando arti meccanici. Le novelle simmetrie rappresentano le infrazioni, gli stati molecolari proibiti dall’ortodossia. Rapporti integrali assumono di norma la posizione speculare o quella retrograda. La traslata si attua quando la molecola interagisce con altri gruppi di appartenenza.
Ciò che è simmetrico è ben equilibrato. Dal proporzionale, in cui il rapporto delle lunghezze è razionale, si passa al giusto mezzo: stato d’animo che dista ugualmente dagli estremi del bene e del male, ma, qui, si trapassa dall’estetica alla morale con un salto ingiustificato.
I moti relativi dei corpi in un dato spazio non sono identici, poichè il tempo rallenta e accelera. È relativo l’amore come pure il dissapore. È necessario prendere in considerazione le storie personali, le capacità innate e la preparazione culturale. Prima di uscire dalla stanza per entrare nello spazio siderale, deponi un bacio sulla mano, non darmi un addio di circostanza. Ipotizzando spostamenti, sempre limitati, anche in altre direzioni, non si può escludere che non finisca con l’incrociare un corpo di forma sinusoide, biondo. La relatività non si può applicare al caso fortunato. L‘incontro può rapidamente stabilizzarsi e diventare un fenomeno solido nel tempo. Sperimentalmente si può calcolare ciò che non è relativo: la grandezza dell’amore, la durata siderale di un istante emozionale.
Il passaggio dalla percezione alla descrizione si potrebbe esemplificare con il passaggio dal moto esperito al moto astratto. Per esperienza lo spazio non è isotropo, ma lo diventa con accorte selezioni, con locali astrazioni, con dirozzamenti puntuali. Dalle cose naturali alle cose ideali. Da cui discende l’invarianza delle leggi del movimento sotto condizioni precise. Leggi matematiche devono essere valide anche in mondo sublunare. Sensate esperienze e certe dimostrazioni è il metodo di sempre. Manifeste esperienze, accuratissime osservazioni s’intrecciano a disegni geometrici e ad assunzioni. E con l’ausilio di opportuni dispositivi si può vedere anche dove l’occhio non arriva. Che importa discettare sull’essenza d’un astro, se sia di polenta o sia diamante, se se ne può osservare il comportamento e considerare che i nostri sensi potrebbero ingannarci. Attenersi ai fatti può impedirci di scrivere libri di poesia in cui il vero scientifico non è considerato e in cui gli astri sono presi in considerazione solo per la loro indifferenza e crudeltà o per il loro mirabile scintillare che rapisce gli ingegni e annebbia la vista con vapori e fuochi.
Nell’infinito è possibile tutto ciò che al nostro intelletto appare impossibile e contraddittorio. Ci si può amare solo nell’infinita proiezione, nell’impossibile fondazione.
Complicazioni, contrazioni non ci avvicinano a un punto medio, a una convergenza, nemmeno su una linea che ha svolgimento infinito. È del tutto puntuale un nostro allineamento, un gemere all’unisono, un godere simultaneo.
L’universo sebbene non coincida né col sole né con la luna è tuttavia sole nel sole e luna nella luna. Molteplicità degli enti contratta in unità dell’universo. Universo non è nulla senza te che lo abiti. Senza di me che ti osservo.
Due elementi non possono unirsi bene da soli senza l’intervento d’un terzo: occorre infatti che fra loro due intercorra un legame per tenerli uniti, che non sia necessariamente quello della gelosia. Quando, infatti, di tre corpi c’è un termine medio che sia in relazione a entrambi, che sia cioè in relazione all’ultimo ciò che il primo è in relazione a lui e viceversa il medio sia in relazione al primo ciò che l’ultimo è in relazione al medio, allora, diventando il medio primo e ultimo e l’ultimo e il primo entrambi medi, tutti diverranno necessariamente un solo corpo dalle proporzioni ideali. Statua di marmo scolpita per sempre nella retina.
Elementi errano nell’aere, non discernibili senza la mediazione della massa. Se nessun vento smuove il sistema, l’unico moto naturale è quello mentale. Parti mobili possono essere azionate anche meccanicamente. Alleggerendo i pesi, forando le forme non addiviene a un equilibrio diverso. Nel suo mondo non domina la simmetria. Impalcature di filo di ferro e torri sostengono un movimento costruttivo sensibile al vento della storia.
Nessuna tra le forme è più perfetta di un’altra e nessuna meno adatta a vivere. E le più semplici non è detto che siano le più antiche. Vantaggi non si rinvengono necessariamente nelle forme evolute. Che le cose modificandosi migliorino è professione di fede.
Queste pagine sono tratte da: Rosa Pierno, Trasversale, Verona, Anterem Edizioni, 2006 – libro vincitore della XV edizione del Premio Feronia, Città di Fiano.
Nell’adoperare precisi schemi linguistici rispettosi delle comuni regole, Rosa Pierno, con “Trasversale”, suggerisce, anche per contrasto, un quid che trascende il reticolato proposto.
Ma non di semplice “non detto” pare trattarsi, lo svolgersi dell’ ordinata procedura formale sprigionando valenze evocative tali da escludere ogni contingenza, per richiamare dimensioni in cui le sorti stesse degli umani stili di vita si rivelano coinvolte.
Proprio quanto è ineffabile risulta, in effetti, protagonista: ovunque presente, sotteso a ciascuna unità sintattica, “espresso” con intensità ìndice d’ intima consapevolezza di vitali sensibilità, oltre e origine nel contempo.
Da qui, perciò, l’ insistere su personaggi che, nei più svariati àmbiti disciplinari, considerarono la severa ricerca scopo precipuo: anche in loro, avverte, nemmeno troppo implicitamente, l’ autrice, dovrà pur essersi manifestata coscienza di quel muto mondo da cui, in virtù di gesti comunque creativi,furono con genialità tratti segni utili al genere umano.
Nessun campo dello scibile, così, viene escluso da una trattazione complessa, capace di procedere per affermazioni di tipo aforistico, a tratti brucianti, ben attenta ad evitare cadute in un’ apparente, illusoria, esaustività: tutto, insomma, anche l’ indicibile, è presente nel sistema di comunicazione adottato e compito del poeta è renderne testimonianza in forma originale, artistica, secondo istanze, in ultima analisi, di genere etico.
Fu precisione finezza.
Marco Furia
(Rosa Pierno, “Trasversale”, Anterem Edizioni, Verona, 2006)
Con “ Il moto apparente del sole. Storia dell’ infelicità”, Flavio Ermini mostra come il confine, non semplice superficiale demarcazione, consenta esplorazioni a chi sappia percorrere ardui itinerari: rendere palesi possibilità di ulteriori analisi pare essere il presupposto dell’ opera.
Occupata una postazione di frontiera, il Nostro, conscio del fatto che al di fuori del perimetro linguistico nulla di pensabile può sussistere, non si nega alla sfida del rendere testimonianza, il più possibile, di quanto il suo acuto, partecipe, sguardo riesce a cogliere: compone, così, un articolato testo dall’ intensa valenza evocativa con il precipuo scopo di strappar via gli ottenebranti veli da cui la comunità dei parlanti è spesso avvolta.
Rendere perspicua l’ umana maniera di stare al mondo, liberando l’ idioma da antiche incrostazioni e fraintendimenti, non sembra però, a prima vista almeno, essere di vantaggio all’ autore, che pone, quale sottotitolo, “Storia dell’ infelicità”: dopo aver obbedito all’ imperativo di opporsi, con risolutezza, a qualunque forma di occultamento dei meccanismi linguistici, Ermini non sembra disporre di antidoti alla (comprensibile) angoscia nascente dall’ aver constatato che, evitata ogni opzione metafisica, nulla può considerarsi valido fondamento di un’ esistenza abbandonata a se stessa.
Se, poi, si aggiunge, su un piano più squisitamente sociologico, la presa d’ atto di un doloroso depauperamento di quanto attiene all’ intima dimensione umana ad opera d’ imperanti tecniche proponenti grammatiche e stili di vita sempre più avvilenti, nulla pare in grado di opporsi a quel sottotitolo.
Ma, avverte un Leopardi già citato nel risvolto di copertina, “ E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’ anima, veduto nell’ imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio, apre il cuore e ravviva”: esiste, dunque, una via di scampo, quella del talento.
Dotato di straordinaria vocazione etica, il poeta di Recanati indica una via che il Nostro ha inteso, senza dubbio, seguire: lo dimostra un impegno altrimenti privo di senso.
La poesia è capace di promuovere quella consapevolezza che non deriva dall’ applicazione del reticolato logico, ma è conoscenza diversa quanto profonda: ecco la feconda risposta.
Dai “pessimisti” la più tenace delle speranze ?
Fu sapiente la penna.
Marco Furia
(Flavio Ermini, “Il moto apparente del sole. Storia dell’ infelicità”, Moretti&Vitali,Bergamo,2006)
Già dall’ inizio di “La materia del mondo”, Domenico Cara, con “il mio idioma s’ accosta ai senza/ idioma”, rende espliciti intenti espressivi rivolti verso un quid confinato ai margini del reticolato logico, se non proprio caduto nell’ oblio: spetta al poeta “avvicinarsi alla primavera” (non, soltanto, al segno che la contraddistingue) e renderne testimonianza.
Attento ai “possessi minimi”, il Nostro percorre, assiduo, non usuali tragitti lungo i quali suggestivi incontri, accostati a repentine immagini di notevole impatto linguistico, nonché offerti, talvolta, secondo timbri lirici dalla rigorosa misura, prendono luce da contesti ampi quanto concentrati, tenuti assieme da non labili scelte poetiche.
Il tutto per confluire, da ultimo, in aforistici versi dalla fulminea lucidità, frutto di ulteriori processi di distillazione: penetrante, la parola riesce, così, a cogliere, con peculiare naturalezza, perfino l’ “ironia delle felci”, concludendo con cenni biologici un itinerario tale da indurre ad illuminanti riflessioni.
Né complessità offuscò sensibile acutezza.
Marco Furia
(Domenico Cara, “La materia del mondo”, Edizioni del quarto oceano, Milano,2006)
Ad una biologia del dire allude, con sapiente determinazione, “OM AFILOSOFIA AFILOSOFISM” di Martino Oberto, il cui “spensiero” risulta rivolto verso origini vissute quali immanenti all’ attualità della pronuncia, le opere presentate testimoniando di gesti tali da sottoporre ad indagine la stessa facoltà di nozione.
Agli autoritarismi d’ inadeguati canoni si ribella, coerente, lungi da ogni ordinario circuito, l’ articolato, suggestivo, lavoro di un artista che, insoddisfatto di schemi in uso comune, consapevole dell’ impossibilità di rappresentare l’ ineffabile, decide di fondare, nonché di costruire, peculiari idiomi nel cui àmbito presenze magmatiche, non prive di richiami a (destabilizzate) consuetudini, conferiscono corpo e, assieme, lucidità ad istanze espressive irriducibili.
Oltre il dire c’è un altro “dire”, se è vero che è proprio dell’ uomo comunicare e, perciò, tentare di farlo anche quando, anzi soprattutto quando, l’ impresa risulta ardua: teso alla proposizione d’ inediti modelli, Oberto mostra, enigmatico, maniere alogiche di concepire e giunge, così, “spensando”, a molto esprimere.
D’ illuminante valenza poetica le parole introduttive di Flavio Ermini.
Marco Furia (Martino Oberto, “OM AFILOSOFIA AFILOSOFISM”, introduzione di Flavio Ermini, Galleria Peccolo, Livorno, 2006)
Per nulla avaro di stimolanti proposte, risoluto nel trarre conseguenze gravide di suggestive implicazioni, Tiziano Salari, con “Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro”, presenta una raccolta di saggi la cui brillante compostezza appare diretto esito d’ interiore perspicuità.
Già nell’ articolata introduzione vengono rese esplicite le strutture portanti: la definitiva uscita “dall’ antica querelle che contrapponeva il poeta al filosofo”, tipica di un’ “egemonia culturale” neoidealistica tendente ad “esaltare il poeta e svalutare il filosofo”, il desiderio di “ricondurre ad unità” non soltanto le (pretese) diverse anime, ma anche il “molteplice universo”, con sapiente scrupolo esplorato, sviluppo di una non comune esperienza poetica, la scelta di “non classificare Leopardi sussumendolo ad un tutto, come se fosse scontata la conoscenza di tutte le possibilità dell’ essere dell’ uomo”.
Si avverte, insomma, ben determinato, un intento rivolto a superare angusti confini di stretta esigenza critica, rivelando, fin dall’ inizio, propensioni tanto improntate al rigore, quanto decise a non optare per fallaci propositi di esaustiva specie.
Si è, in effetti, in presenza di approccio rigoroso, non rigido, risultato di mai ambigui atteggiamenti, inclini a reputare l’ enigmatico non limite, ma sprone, del tutto naturali per un autore, Salari appunto, che sa essere poeta, filosofo, saggista, riuscendo a cogliere, nello specifico come in generale, nelle stesse distinzioni elementi unificanti.
Tali elementi, viene suggerito, risiedono nel linguaggio e scaturiscono da quei territori dell’ ineffabile non considerati, in maniera meccanica, quale antica origine, bensì vitalità insita nell’ espressione.
Criterio analitico, linguistico in senso profondo, proprio di chi, contando su perspicue idee, nulla scarta di quanto può risultare utile secondo vagli di natura antropologica, centrati sull’ uomo e sui suoi stili: vita e idioma sono tutto, infine.
Fecondo fu enigma.
Marco Furia
(Tiziano Salari, ”Sotto il vulcano.Studi su Leopardi e altro”, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2006)
Un’ aria “ estranea ”, peculiare, genera dense atmosfere sotto il cui influsso brevi cenni, con scrupolo annotati, si alternano a repentine immagini, offerte secondo limpide cadenze idiomatiche non in obbligo rispetto ai canoni ordinari, ma esigentissime quanto a coerenza interna.
Nitidi, i luminosi risuoni di Michele Fogliazza, contraddistinti, a tratti, da ( composto ) espressionismo, non mancano, così, di quella precipua coesione, scaturente dal non ignorare impegnative sfide, senza dubbio foriera di fecondi sviluppi.
Molto promettente opera prima.
Marco Furia
( Michele Fogliazza, “ Diurno “, Opera Prima, Cierre Grafica, Verona, 2006 )
Lungo una poetica galleria, il cui peculiare fascino sembra provenire tanto dalla sapiente versificazione quanto dall’ oggetto della stessa, ci accompagna lo storico dell’ arte Toni Toniato, i cui ben scanditi accenti, non privi di brillante smalto, tendono, per precisa scelta, ad eliminare quell’ opprimente barriera talvolta frapposta, complici limitanti convenzioni, tra osservatore e opera.
Non è impresa così ardua giungere a godere appieno dell’ arte moderna, suggerisce il Nostro, a maggior ragione se si può disporre , come accade al lettore di “Dediche”, di esperta guida, capace d’ indicare, con garbata fermezza, percorribili vie tramite cui uno sguardo consapevole, infine libero da certi affliggenti schemi, trova spontaneamente il proprio spazio di suggestiva fruizione.
Vengono richiamate, non a caso, accanto ad elementi costitutivi, emozioni riferibili all’ osservatore, pure proposte, nel contesto dei componimenti, quali in qualche modo intrinseche alla materia trattata, instaurando, così, un fecondo dialogo a ulteriore conferma del fatto che le forme di vita, i più intimi linguaggi, possono, in tutta naturalezza, colloquiare senza inibire agli esiti di appassionati studi sbocchi poetici.
Con tutto, insomma, anche con i capolavori dell’ arte novecentesca (1893-2001), si può fare poesia.
Marco Furia
(Toni Toniato, “Dediche”, Anterem Edizioni, 2005)
Eleganti e concise appaiono le intense scritture di Alessandro Ghignoli in “Fabulosi parlari”.
Di “parlari” certo si tratta, poiché il “frammento”, qui, lungi da opporsi all’ “intero”, pare piuttosto “parte” in grado di richiamare il “tutto”, l’ ampio spazio bianco non comunicando senso di vuoto, bensì disponibilità a dare seguito alla scrittura (i testi, non a caso, vengono presentati uno ad ogni inizio pagina e non, come spesso accade, di seguito, con stacchi).
Dotato d’ indubbie capacità evocative, l’ autore non attenua mai il proprio deciso gesto, conferendo alla raccolta una compattezza indicativa di atteggiamenti coerenti nella struttura, quanto esposti alla suggestione di usi linguistici dalla peculiare ritmicità.
Non si è in presenza di schegge, scorie prodotte da una deflagrazione, ma di calibrati, affascinanti, scritti, tali da porre la questione di quale sia la valenza, in poesia, del rapporto tra integro e frantumato.
Si conclude, nel concreto della scrittura, per l’ inadeguatezza di siffatto, schematico, interrogativo in àmbiti, come quelli in argomento, in cui la “lite” è “mite”, le “impronte” sono “impronte su impronte”, l’ “indolenza” risulta “elettrica”, il “montaggio della quiete” “intatto”, in cui le quotidiane modalità logiche, cioè, vengono trascurate a favore d’ usi più consoni ad esigenze espressive altrimenti destinate a rimanere insoddisfatte.
Proponendo scritture dense, ricche di energia, costruite attorno a complessi nuclei, Ghignoli pone (e risolve) il problema del valore dell’ istanza poetica senza cadere nelle trappole di ambigue trame esplicative: la poesia, egli mostra, parla, sempre, (anche) di se stessa.
Fu fiduciosa consapevolezza.
Marco Furia
(Alessandro Ghignoli, “Fabulosi parlari”, Gazebo, Firenze, 2006)
La scrupolosa “indagine sulla poesia triestina del secondo Novecento” di Luigi Nacci, il cui titolo, “Trieste allo specchio”, preannuncia il rigore di esplicite conclusioni, si svolge secondo canoni quasi statistici, sulla base di risposte fornite ad un questionario da centodieci poeti.
Nel prendere atto della volontà dell’ autore di esprimere le proprie (pregnanti) opinioni, non si può evitare di porre l’ accento su un approccio che, partendo “dalla mancanza di un apparato critico organico” riferito al periodo, trova nel “criterio geografico”, cui viene sovrapposto un fitto reticolato, maniera di fornire elementi utilissimi: opzione tesa ad una sorta di “oggettività”, risultante del tutto in grado di produrre i suggestivi esiti richiamati dal titolo.
E, in effetti, di “specchio” pare d’ essere al cospetto, se è vero che l’ immagine riflessa, identica quanto illusoria, permette al soggetto una visione di sé altrimenti impossibile: soltanto in maniera virtuale, dunque, il poeta può accedere alla propria effigie ?
Quesito dalla forte carica enigmatica, nel cui àmbito, come viene suggerito dallo stesso modello, l’ elemento iconico-idiomatico si presenta nella rilevante portata di condizione necessaria all’ umana esistenza.
Privo, così, di qualunque istanza di stampo aprioristico, Nacci percorre, risoluto, un articolato itinerario, non facendo mancare, ove lo ritiene opportuno, illuminanti approfondimenti critici centrati su particolari autori: il tutto sempre in diretto collegamento con le questioni proposte, fiducioso nel metodo adottato.
Molto soddisfacente ricerca.
Marco Furia
(Luigi Nacci, “Trieste allo specchio”, Battello stampatore, s.d.)
Prosatore e poeta, più volte ospitato sulla spatoliana “Tam Tam”, Giorgio Terrone, con “Dodici”, propone calibrati versi tesi a richiamare entità ulteriori rispetto all’ ordinario meccanismo linguistico.
Suggerite da non ambigui cenni tratti dal quotidiano, rese sulla pagina con singolare accortezza, vengono a crearsi, come per necessaria germinazione, suggestive aree dalla peculiare enigmaticità radicata nella stessa determinazione espressiva. Forse, come, non a caso, suggerisce uno dei titoli, del trompe-l’oeil l’ autore mira a richiamare l’affascinante intento, consapevole di quell’ ineffabile àmbito in cui l’ immagine si lega a quanto rappresentato e, nel conferire astrattezza al gesto della riproduzione più “oggettiva”, risulta capace d’ intense evocazioni.
Tutto trattenuto, per precisa scelta, entro i confini di un’ istanza incisiva ma attenta ad esigenze di misura, sempre vigile, dominata da prese d’ atto, pur rinfrancate da rigorose letture, effetto di naturale inclinazione. Affascinante percorso.
Marco Furia
(Giorgio Terrone, “Dodici”, Anterem Edizioni, Verona, 2006)
programma della giornata
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Prima Linea, una struttura oggettuale di Renato Job, è un corto del 1969.
Anche in quest’opera, come nel dittico di Patricia Dubien, il viaggio è rappresentazione della vita. Qui assistiamo a una rappresentazione puntuale, documentata con profonda curiosità intellettuale che incrocia grande sensibilità e cultura visiva.
Il linguaggio di Job corre avanti anticipando i ritmi del sonoro con tagli repentini o sfumature che si dissolvono nel tema dell’incontro, nell’intreccio delle musiche, nelle anaologie di vite diverse, riconducibili a civiltà diverse che si sovrappongono fra occidente e oriente. Com’era nel Giappone degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ma non solo.
In Europa era il tempo del grande sviluppo successivo alle ricostruzioni del dopoguerra, erano gli anni dei movimenti di protesta internazionali, della pop art, del rock, del sogno della California, delle distanze abbreviate ma non ancora colmate dal conoscere virtuale.
Il mondo non era viziato dalla globalizzazione occidentale, ma il nostro modello economico era vincente, aggressivo, appariscente. Di moda.
Nel corto di Job sono assenti le contestazioni nate sul finire degli anni Sessanta, ma sono evidenti i prodromi della crisi del decennio successivo.
Il disagio contrastato del vivere è scandito dagli accapo della sua macchina da scrivere che chiudono i versi centrali di questa scrittura poetica con segni di vita o di morte.
Il film è rigorosamente scarno, in bianco e nero, ma lieve nel suo procedere veloce, senza concedere soste per la riflessione o pause per il sentimento, perché qui il sentire e il riflettere hanno il tempo del vedere, il ritmo di un suono unico composto di frammenti che si succedono continui e diversi, come diversi sono i mezzi e i luoghi del viaggio e dell’incontro che scorrono davanti ai nostri occhi.
Sirio Tommasoli
8 ottobre 2006
Tu vas où? Tu dove vai? (diptyque vidéo) è stato presentato quest’estate alla XII Rassegna internazionale del San Giò Festival diretto da Ugo Brusaporco.
Questo video di Patricia Dubien è la metafora del viaggio che ciascuno di noi compie nella vita, che è il continuo ripetersi di viaggi senza approdi definitivi, o un viaggio unico di percorsi diversi verso un’unica meta che ci è negata dalla natura stessa delle cose, che vivono di imprecisione e vibrano di quel margine di errore che la nostra ansia di ordine vorrebbe azzerare o colmare in una formula di comprensione unica e universale.
La fisicità della macchina da presa, collocata sui quattro mezzi di trasporto oggi più consueti, è qui spinta all’estremo del suo essere protesi del nostro vedere, fino allo stravedere di un occhio che si sovrappone all’altro dilatando il margine d’errore, fisiologico per naturale imperfezione, in azione visionaria, in una scrittura poetica, in metafora della vita.
Perché la poesia apre a conoscenze impossibili e la scrittura poetica va oltre i sensi, rincorre la vita e improvvisamente ne mette a nudo l’anima. Il divenire di queste immagini non ha tempo, esse non sono icone della memoria o del desiderio. Disegnano cerchi mai eguali che sembrano ripetersi in volute private del nucleo centrale e negano l’esistenza di un punto di partenza come di un punto di arrivo.
Il dittico di Patricia Dubien è struttura e scrittura, immagine e percorso, inizio e fine del viaggio. Nei quadri che si muovono assieme, le forme si moltiplicano e si sovrappongono in assenza di contraddizioni, contrapposizioni o contrasti. Fluiscono come le onde del mare o le nuvole nel cielo e alludono a un ritorno che è dolce e impossibile assieme, senza la certezza di un orizzonte che qui risulta sospeso fra l’indistinto e il distinguibile: non è un rassicurante indice di tempo e di luogo ma appare vago quanto insistente, una presenza che alberga dentro di noi, mutevole e irraggiungibile, un approdo che nella sua indefinitezza appare sempre ugualmente lontano e uguale a se stesso.
Sirio Tommasoli
1 ottobre 2006