Come dinanzi a un teatrino si assiste a uno spettacolo per bambini che solo per finta è rivolto ai bambini. Non ci si faccia ingannare dal tono semplificato fino all’inclusione dell’errore grammaticale o dalla voce delicata che sembra per noi leggere i versi. Patrizia Gioia ci consegna assieme al suo effettivo candido sguardo, ma ripetiamo teatralissimo, con tutto ciò che questo paradosso comporta, la volontà ferrea di non accettare nulla come dato, e l’espediente per attuare ciò è appunto il consegnarsi alla propria voce, all’infanzia mai cessata e in perenne ribellione contro l’ordine costituito. Nulla resta indenne dalla verifica e dall’analisi, ma anche dal desiderio di credere possibili le favole, tant’è che la scelta di attraversare la valle dell’infanzia è a sua volta piena di trabocchetti e di sviamenti. Si avverte la necessità di far tutto quadrare, quello che si nota nell’esistenza e quello che raccontano i grandi, in assenza di una cornice di riferimento esclusivamente razionale: “e a proposito della fedina penale / che ci hanno spiegato ieri mattina a scuola / non ho dormito tutta la notte / perché non so più a chi chiedere / se la fedina è come l’ostia”. E apriamo qui una parentesi anche sulla “strana” educazione che si riceve sia a scuola sia dai genitori. Così la Gioia finisce per costruire un mondo a metà strada, sospeso nella propria credulità, mentre è così incline a dubitare, conquistato dalla magia di una soluzione analogica quanto più è consapevole della mancata relazione esistente fra le cose. Ci riagganciamo in questo senso al nostro incipit: si crede di assistere a una regressione infantile, ma si nota che è una lente a infrarossi quella messa in atto nei versi di Patrizia Gioia; si pensa di trovarsi innanzi a una personalità candida come sarebbe quella del Candido di Voltaire, ma solo per ravvedersene all’istante e notare che le cose non collimano, che nessuna corda o scotch può costituire il ponte attraverso cui unificare credenze e bisogni, divieti e fondamenti. (R. P.)
da Tita
***
io abito al primo piano
di una casa di ringhiera
sopra di me c’è un terrazzo
di fronte invece ancora due piani
perché non è mica tutta uguale
anzi ogni porta è diversa
come chi ci abita dentro
ci sono in cortile due negozi
uno che fa il droghiere
e uno che vende cose di lana
e un cane tenuto alla catena
bianco pieno di pelo
sempre un po’ sporco
ma non abbaia a nessuno
e mi pare contento
il giorno che mi piace di più
non è la domenica
ma durante la settimana
che ognuno fa qualcosa
sulla ringhiera
e arrivano tutti i profumi più forti
anche dalla pattumiera
da Tita su una gamba sola
***
io alla domenica
vado sempre in ospedale
certo che mi piacerebbe
di più andare a giocare
ma mio papà è là
e quando lo vedo
cerco di ridere
e di non fargli capire
che anche io sto male
perché mi sento come lui
e senza una gamba
come si fa a ridere e saltare?
***
come fare a dire le cose
se non riesci a trovare le parole
come fare a imparare a volere bene
se mancano le persone?
Patrizia Gioia, poetessa, artista e designer, è nata e vive a Milano. La sua creatività nel mondo della pubblicità è diventata parte dell’immaginario collettivo. La sua scrittura poetica è una ricerca tesa all’incontro con l’alterità, all’analisi del profondo. Tra i suoi libri di poesia ricordiamo Inutile fare trasloco (Milano, 1985), Tre storie in bianco e nero (Milano, 1997), Parole di passaggio (Milano, 2004).