da “Gli eterni lavori”
da La prima generazione dei biancospini
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Oltre la soglia del letargo, una foglia
pende ancora a lato del legno, trema,
si rimette al vento con l’astuzia dei deboli.
Ha conosciuto la pietra e l’agio delle erbe
la prima generazione dei biancospini.
Irti più del filo spinato che li regge
proclamano la resistenza all’inverno
mentre un riemerso brulichio di molti
silenziosamente li lavora nel tepore.
La pianta è un cantiere sempre aperto
a chi vi torna senza averne memoria.
Sappi che frenerò ogni desiderio
di spronarla, questa ottusa pazienza
di durare, per ora, senza dare ombra.
da Poesie per Giovanna
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Sono come i fantasmi
i poeti che ritornano
fra chi meno li aspetta.
Come loro
in eterno costretti
a pendolare
sulla stessa tratta.
da I passi senza importanza
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E’ la stagione dei giorni lunghi
eppure il flash scatta ogni volta
sulla fisionomia sfocata delle cose.
Ad alcuni pare infondata quella
luce nella luce, più debole
e inaccessibile, come l’uno all’altra
fra le braccia dell’amante, quando
sfumano le pose in cui si ride
si fa corto il respiro e fra i gruccioni
dalle ali d’oro si sparge la voce
che in troppi saltellano sullo stesso ramo.
Biancamaria Frabotta nella sua ultima prova “Da mani mortali” non vuole perlustrare il reale e attenersi a esso, vuole rifondarlo per creare o ripristinare collegamenti altrimenti ostruiti, tranciati. La natura vi occupa un posto privilegiato, è spesso protagonista, ma come avente un diverso grado di materialità: la poetessa la umanizza, la dota di volontà, instaura un colloquio al limite della visionarietà, al limite: quel tanto che basta per la delicatezza del raccolto emozionale. E in ogni caso per instaurare con essa un probabile confronto, farne una compagna di vita. La natura deve necessariamente per Biancamaria Frabotta essere interpretata, quasi tentata affinché manifesti la sua essenza a chi è in grado di ascoltarla: “Potessi poggiando la testa sul cuscino / udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante”. E’ un assommarsi di pretesti per donare alla natura parola e scopo istituendo un parallelo col sé: “Uccellino puerile che simuli il canto / a danno del bene comune per cui tutto tace / e la notte è compita, come una negra preistoria somiglia al mio risveglio agitato”. Nella sezione “Le fasi della luna” sarà il pianeta a creare le occasioni per riflessioni minime al limite dell’haiku. E se non tanto nella forma quanto per l’avvicinarsi come un asinteto a un nucleo di significanza non altrimenti riducibile o in ogni caso il più rastremato possibile. Eppure, ciò non si scontra con la capacità narrativa della Frabotta la cui sintassi prosegue in maniera lineare, mentre solo il senso è sottoposto a salti, per l’insopprimibile volontà di congegnare un proprio personalissimo teatro anche nella situazione percettiva più banale. Il colloquio inevitabilmente coinvolge i temi dell’amore, della morte, spesso convocando sulla pagina anche gli dei. In questi casi, si rilevano verbi declinati al passato che però ancora una volta più che un richiamo mnemonico adombrano una stanza teatrale, una nuova creazione.(R. P.) Biancamaria Frabotta è nata a Roma nel 1946. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’università di Roma La Sapienza. Oltre a una vasta attività saggistica, in poesia ha pubblicato: Il rumore bianco (1982), Appunti di volo e altre poesie (1985), Controcanto al chiuso (1991), La viandanza (1995), Terra contigua (1999, II ed. 2011), La pianta del pane (2003).