da Fisica del tempo
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ad Amelia
Nell’avvicinarci all’origine ripartiamo
dalla fine riavvolgendo ogni sguardo
ciascun nome e tutti i discorsi pronunciati,
ché rimane poco e molto nel limitarsi a vuoto
finanche le persone care sono specchi
che riflettono altri noi, al di là del vetro.
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a Jacques
Il corpo è la chiave
di una porta chiusa
sul retrocedere futuro,
una serratura nera
dove volteggia l’ora
taciuta alla finestra;
un cristallo di giorni
che frantuma i nomi
nella spinta del tempo.
da Dall’inflessione all’inclusione
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ad Arturo
Ancor prima del moto obliquo
delle mani, la voce non giunge
che al fracasso nella memoria
quale lenta porzione del futuro
costringendo parole ad ascoltarsi
per la medesima lingua vegetale
in convertito paradosso di ragione
nella complicanza di un divenire.
da Le ore nuove (Memorie dal giorno dopo)
Nella devianza del gesto
E’ movimento d’essere ora
il domani riscritto a memoria
(dalla devianza di un gesto futuro
il riprodursi lento della condanna)
-nella regressione dell’avvento-
una prigione la propria forma.
Nel poderoso volume “Trilogia dello zero”, Antonio Bux colleziona una sorta di enciclopedia perlustrando luoghi, persone, stati metereologici, concetti geometrici, cronologia temporale, e innestando in tali incongruenti materiali un ammasso di detriti riferiti al soggetto, nel tentativo di raccoglierne tutti i frammenti. L’intarsio di figure geometriche nella sfera soggettiva ci riporta alla mente l’antico sogno cartesiano: “e nel ritorno al singolo – stando in due - / (nel binomio perfetto di divisione) // che si unisce un nome al proprio nulla / come un corpo all’incerta destinazione”. La costante frizione di concetti astratti nella sfera dell’interiorità, visto che qui le persone, non sono mai descritte dal punto di vista fisico, concreto, contribuisce a creare una sorta di straniamento, perché il sé e l’altro vengono rappresentati sempre attraverso figure intermedie (i colori, i segni, le linee, il vuoto, i ricordi, l’ombra) e, oltretutto, solo nominati mai indagati nello specifico, in una sorta di impossibilità di penetrazione psicologica. Per questo le poesie dedicate a persone hanno come titolo un nome che sembra un numero. Crederemmo, dunque, alla loro interscambialità che va ad assommare al fine un’inconoscibilità. “Era l’abisso, l’attimo della nudità / il vuoto delle forme ridotte al niente // quei corpi fatti di cose di troppa materia, / eccessi sovraccarichi di prospettiva scenica”. Anche l’apertura all’inevitabile parte biologica, al funzionamento del corpo si attesta su livelli di raccolta di una nomenclatura che non penetra il segreto di ciò che è organico e meno che mai l’unione di corpo e mente: “Gli occhi tagliati, / due sfere invertite / nel cuore interrotto”. E, sempre, gli innesti col suono, col rumore, con l’elettricità, con il ritmo, con la traccia audio, quasi in una disperata ricerca dell’automatismo negli esseri ci ricorda ancora una volta Cartesio. Bux sottopone qualsiasi oggetto a questo metodo di analisi, ancora in questo modo cercando, forse inutilmente, eroicamente, l’umano: “il rifondere la terra nell’immagine / scrostando forme dalla cavità d’orma: // un precipizio di volti, e di oggetti rivolti / nell’infanzia dei gemiti, nella mutezza”. (R. P.)
Antonio Bux (pseudonimo di Fernando Antonio Buccelli) nasce a Foggia nel 1982.Sue poesie sono apparse in numerose antologie e in diverse riviste di poesia sia nazionali che internazionali. Si occupa di traduzione dallo spagnolo di scrittori e poeti sia iberici che latinoamericani. E’ autore del libro “Disgrafie” per Oédipus edizioni.