Nella sua opera di diffusione e divulgazione della poesia, azione ulteriore rispetto all’assegnazione dei premi, il “Lorenzo Montano” ha stretto alleanza con sensibili istituzioni cittadine.
La collaborazione con i Licei ha prodotto nel 2013 non solo la realizzazione di due seguitissimi eventi nell’ambito del forum di Anterem “Agorà”, ma anche la mostra collaterale “L’arte della parola”.
Di tutto ciò diamo conto in questo numero di “Carte nel vento”, in cui inoltre presentiamo i finalisti e il vincitore per l’edito dell’edizione 2013. Tutto avviene attraverso alcuni testi esemplari degli autori corredati dalle note critiche di Rosa Pierno, che confermano un’altra prerogativa di questo Premio: l’analisi ininterrotta della poesia contemporanea. I poeti proposti sono Alessandro Assiri, Antonio Bux, Peter Carravetta, Alessandro Ceni, Biancamaria Frabotta, Tiziano Fratus, Patrizia Gioia, Alberto Mori, Silvia Rosa.
Ricordando a tutti i poeti che l’edizione 2014 è appena iniziata scarica il bando della 28^ edizione, auguriamo buona lettura.
In copertina, “Music for chairs” di Alberto Mori
da Fisica del tempo
***
ad Amelia
Nell’avvicinarci all’origine ripartiamo
dalla fine riavvolgendo ogni sguardo
ciascun nome e tutti i discorsi pronunciati,
ché rimane poco e molto nel limitarsi a vuoto
finanche le persone care sono specchi
che riflettono altri noi, al di là del vetro.
***
a Jacques
Il corpo è la chiave
di una porta chiusa
sul retrocedere futuro,
una serratura nera
dove volteggia l’ora
taciuta alla finestra;
un cristallo di giorni
che frantuma i nomi
nella spinta del tempo.
da Dall’inflessione all’inclusione
***
ad Arturo
Ancor prima del moto obliquo
delle mani, la voce non giunge
che al fracasso nella memoria
quale lenta porzione del futuro
costringendo parole ad ascoltarsi
per la medesima lingua vegetale
in convertito paradosso di ragione
nella complicanza di un divenire.
da Le ore nuove (Memorie dal giorno dopo)
Nella devianza del gesto
E’ movimento d’essere ora
il domani riscritto a memoria
(dalla devianza di un gesto futuro
il riprodursi lento della condanna)
-nella regressione dell’avvento-
una prigione la propria forma.
Nel poderoso volume “Trilogia dello zero”, Antonio Bux colleziona una sorta di enciclopedia perlustrando luoghi, persone, stati metereologici, concetti geometrici, cronologia temporale, e innestando in tali incongruenti materiali un ammasso di detriti riferiti al soggetto, nel tentativo di raccoglierne tutti i frammenti. L’intarsio di figure geometriche nella sfera soggettiva ci riporta alla mente l’antico sogno cartesiano: “e nel ritorno al singolo – stando in due - / (nel binomio perfetto di divisione) // che si unisce un nome al proprio nulla / come un corpo all’incerta destinazione”. La costante frizione di concetti astratti nella sfera dell’interiorità, visto che qui le persone, non sono mai descritte dal punto di vista fisico, concreto, contribuisce a creare una sorta di straniamento, perché il sé e l’altro vengono rappresentati sempre attraverso figure intermedie (i colori, i segni, le linee, il vuoto, i ricordi, l’ombra) e, oltretutto, solo nominati mai indagati nello specifico, in una sorta di impossibilità di penetrazione psicologica. Per questo le poesie dedicate a persone hanno come titolo un nome che sembra un numero. Crederemmo, dunque, alla loro interscambialità che va ad assommare al fine un’inconoscibilità. “Era l’abisso, l’attimo della nudità / il vuoto delle forme ridotte al niente // quei corpi fatti di cose di troppa materia, / eccessi sovraccarichi di prospettiva scenica”. Anche l’apertura all’inevitabile parte biologica, al funzionamento del corpo si attesta su livelli di raccolta di una nomenclatura che non penetra il segreto di ciò che è organico e meno che mai l’unione di corpo e mente: “Gli occhi tagliati, / due sfere invertite / nel cuore interrotto”. E, sempre, gli innesti col suono, col rumore, con l’elettricità, con il ritmo, con la traccia audio, quasi in una disperata ricerca dell’automatismo negli esseri ci ricorda ancora una volta Cartesio. Bux sottopone qualsiasi oggetto a questo metodo di analisi, ancora in questo modo cercando, forse inutilmente, eroicamente, l’umano: “il rifondere la terra nell’immagine / scrostando forme dalla cavità d’orma: // un precipizio di volti, e di oggetti rivolti / nell’infanzia dei gemiti, nella mutezza”. (R. P.)
Antonio Bux (pseudonimo di Fernando Antonio Buccelli) nasce a Foggia nel 1982.Sue poesie sono apparse in numerose antologie e in diverse riviste di poesia sia nazionali che internazionali. Si occupa di traduzione dallo spagnolo di scrittori e poeti sia iberici che latinoamericani. E’ autore del libro “Disgrafie” per Oédipus edizioni.
da “I fiumi”
Il traguardo della pioggia 1
Il dolore non è passare di qua
per la lunghezza identica
tra gli assalti nelle stanze sopra il terreno
neutro dei soldati tra le mie lingue enormi
il segreto che compare in superficie
e nuota e si fa lungo qualcosa che sarai
nel metallo più semplice,
io non voglio saperlo
il ricordo non ha amato mai ha galleggiato
in voi per me i morti che conversano
e preparano lettere
niente da vendere in voi per me
il sole in collera il mio tu.
***
Me dentro cammina sicuro questa campagna
un paesaggio mano nella mano certo che tutto finirà,
soltanto un istante ritto in piedi poi l’innocenza
della luce depreda luminosità via
reni mandrie febbre
chiunque trova ciò che aveva cercato,
nulla era fuori come tutto fuori di me.
da “La natura delle cose”
Splene
Dove le acque dolci e salate s’incontrano
spigolo il piede sul tuo passo e i pesci
emergono all’angolo dell’occhio
con le tibie sommerse del fiume,
l’elenco del mare:
livido un fiume di fatali acque letargiche
richiama i petti sfondati degli uccelli,
descrive un tracciato e cammina
quell’acqua tagliata:
acqua desolata
amata soltanto dal silenzio delle piante,
dai gesti e suoni d’un solitario animale
dove s’incanna
il fiume all’orlo della vasca e
il mare accelera in eterno
gli spiriti mangiati negli stomaci dei pesci.
La ricerca della narratività nei testi poetici di Alessandro Ceni si compie proprio mentre continuamente se ne interrompe il fluire con associazioni non lineari. Il racconto allora si compie in maniera simbolica, giacché al livello di concatenazione di nomi e verbi e aggettivi la profusione di rimandi ad altro annulla l’accumulo e pertanto quel che resta parrebbe un rimando al simbolico in quanto tentazione, ma anche disillusione costante rispetto al traguardo: “Oggi, / sobborghi di fiato, il tempo dissellante / il pungitopo, demoni domani in chiesa di colui / che accende seni di menta, attribuendosi una / maternità da uomo dagli alberi fino al sole”. Non a caso il vuoto è parola agganciata sia al soggetto (“il mio ovale nel vuoto”), sia alla religione (“in un sudario vuoto”), sinonimo della parola “senza”, la quale si presenta con ancora maggior frequenza, elencando la lista di ciò che manca e rende il mondo letteralmente inabitabile. A disegnare una scenografia simmetrica di attese concorre a tratti il tono supplice, a tratti raggelato, per la disillusione: ”la morte è a destra e dispari: / non vedo cimiteri adatti per noi”. Il cosmo sia interiore sia esteriore, come esploso, frantumato, si rileva non ricomponibile. Persino gli amanti sono caduti nella trappola: “E ci separerà la vita non la morte”. D’altronde, con il procedere della scrittura, anche il dettato si fa più asciutto e poco incline all’aggettivazione. Anzi pare che i sostantivi finiscano col bastare a loro stessi o che si accompagnino in ogni caso ad aggettivi che acquistano la densità di un oggetto: ”Noi eravamo fermi, vi dico, il mare ci portava / come immobili sogni dentro un’immobile mente” fino all’esergo in cui il cosmo pare franare nell’io, spodestandolo persino della propria identità: “così, dinanzi a voi, piante mi nomino al neutro / l’indivisibile, il sempre scisso”. (R. P.)
Alessandro Ceni è nato a Firenze nel 1957. Tra i suoi libri di poesia ricordiamo: I fiumi, Marcos y Marcos 1985; La natura delle cose, Jaca Book 1991; La ricostruzione della casa, Effigie Edizioni 2012. Oltre che poeta è traduttore e pittore.
da “Solo”
sms#3
vorrei starmene qui a fissare geometrie marine,
cadere nel cono luminoso dell’estate senza uscita,
precipitare con le ciglia incollate a sale e sabbia
nella quiete tenera di questa rimozione di me,
dimenticarmi quaggiù quando le ombre si fa-
ranno fitte, non voltarmi, non voltarmi indietro,
colare piano nel presente, un grumo secco che si
scioglie e fluisce nel domani
da “Scrittura”
sms#37
la sera e le sue longitudini scomposte in richiami,
che si dilatano lune rotte silenzi una culla che
attraversa breve l’aria come un sorriso, da oc-
cidente oltre il punto cardinale più vicino alle
ombre incerte dei ricordi, lancetta dopo lancetta
il rintocco, al buio non affondare mai le dita
nei cassetti tutti di fogli scritti bianchi e neri,
sette meno uno, aperto, un lettino duro in cui
stendersi, attendere l’alba minuscola, qualche
accenno di chiarità domestiche, un sonno te-
nero di morte, latitudine zero infine la vertigine
autentica, l’urlo incrostato tra il legno, le pareti,
ciò che resta del cielo, lo specchio che non ti
riflette, le mani raccolte nel grembo due stelle –
costellazione desiderio – cadute
sms#47
il sangue caldo nelle vene sottopelle pulsa messag-
gi in codice, non ho più parole, devo inventarmi
una lingua nuova fitta di sorrisi del cielo terso dei
tuoi occhi delle tue mani il punto e a capo delle
tue labbra la parentesi tonda dell’esitazione, la
dolcezza che ha il tuo nome, ora, vorrei imparare
a dire questo mondo altro, vorrei imparare a dirti
Il respiro lungo della prosa fa quasi da viatico a una visionarietà obbligata, forzata dalla insufficienza del reale, il quale è inospitale a causa delle condizioni esistenziali minime, frammentarie, che offre. Se tragedie vi hanno luogo è solo per produrre processi di disarcionamento rispetto a tali rastremate situazioni esistenziali, ma Silvia Rosa le rovescia costruendo alfine uno scenario di meraviglioso cartone splendidamente colorato, e mobilissimo, capace di nascondere il vuoto, o meglio la verità del reale percepito. Così la poetessa in questa breve raccolta “SoloMinuscolaScrittura” mette in scena una serie di fughe attuate tramite varie strategie: la metamorfosi, la piena coincidenza con ciò che sta guardando, l’uso della distrazione e del buio. Presta persino parole alle cose per simulare un dialogo con l’inanimato: “il sole è smarrito, le foglie morte incollate al cielo sono messaggi d’addio. o maledizioni sbiadite che ingravidano di nero le nuvole”. Nulla viene tralasciato degli appigli che possano fornirle una via di fuga dalle proprie inquietudini, o la creazione di inusitate prospettive, per forgiare un ambiente maggiormente accogliente. In questa polarità tra il sentirsi vinta e il sentirsi invincibile si consuma la tragedia di una sensibilità arroventata. La consapevolezza di un io che non si accontenta degli esiti esistenziali e non demorde dall’arroccarsi nell’ultima inutile difesa. Persino quella di immaginarsi erba del giardino, pur di raggiungere lo stato di “quando l’amore si ama amando e smette di essere un esercizio d’infinite attese e discipline”. Sottrarsi alla lancinante ferita dell’amore non è esercizio per molti e qui la scrittura diviene strumento sonoro e vibratile per le continue trasmutazioni e variazioni, le quali consentono di non credere a quel che è. Solo scrittura ripristina amore come deve essere. (R. P.)
Silvia Rosa nel 1976 a Torino. I suoi lavori sono apparsi in numerosi siti, blog letterari, riviste e volumi antologici. Nel 2010 ha pubblicato la raccolta Di sole voci edita da Lieto Colle. Nel 2011 ha pubblicato Corrispondenza (d)al limite per Clepsydra edizioni (con immagini fotografiche di Giusy Calia).
da “Delle voci”
III a Maria
questo squallore che ossessiona
nel recinto nominale che ossessiona
nella transitività dei luoghi
nelle vie del mondo percorse e
stranamente nell’immaginazione
visitate ma anche sognate
ogni passo ogni idea ogni
innamoratissimo desiderio
è spinto su te sulla vita
sulla tua bellezza inconsapevole
che pecca di non esser mia e vissuta
vedersi vivere senza inopportune
domande mentre i tempi stringono
fra le albe immemori delle serre
e gli albeggi fantasmatici d’
inarrivabili domani
cade la pioggia ed è fredda la notte
freddissima
da “Dialogi V”
Dialogo I
per E.S.
la sera ispida di tarpate voglie e indifesa scattante a volte
indifferente sviluppante i passi nei museici blandi umidi
cameroni teorie di libri e titoli ed immagini dappertutto
un potentissimo silenzio di presenze ora a me sfuggenti a
te le ombre granulose di questo nostro incontro disinvolto
in piena padania in luglio al sole a casa tua
da “Metessi”
Metessi
5.
ora procedono battaglie e cosmicomiche ma anche
noiose seconde visioni o terze e mansuefai l’orchestra
ordisci mansioni magari l’amore le vene variabili l’umore
del caso mattino meriggi i fiori per l’anniversario, Materia
parlammo dell’inenarrabile volontà desiderante degli spettri
intravisti in frantumi e riflettenti ancora e perturbanti o Materia
imperdonabilmente le matrici indifferenti alle albe all’altro
inamovibili modi nutricanti assenze di persone amiche e non
e registri sussidiarii strascici di flessioni comunioni rispetti
obliterate ne le trame di percorsi ipotesi accenti e convenevoli
La raccolta di poesie scelte che va dal 1972 al 2012 dispone sotto lo sguardo la corposa scrittura di Peter Carravetta che negli anni non si è assottigliata, né irreggimentata. Vena poetica che trasporta un fluido denso, ricco di reperti e di schegge, non amalgamato, aguzzo a tratti, tagliente. Solo la vena ironica, troviamo, si adagi, si decomponga per una certa consapevolezza di inevitabile tragedia, di rassegnata accettazione: “e si abbassa lo sguardo attenuando i sensi tutti / nel silenzio ad intimo amico dicendo malgrado l’incubo / veramente l’amo o meglio l’amerei se non fuggissi”. Una certa amarezza per tutto ciò che considerato ideale non ha trovato posto nell’attuarsi dell’esistenza, ma trova ancora una riserva di energia contestataria, indomabile, che non si piega alla presa degli eventi. Una poesia che accetta però di soggiacere all’analisi, per tentare di comprendere le risposte date, il modo in è giunti nel tempo presente, quale via sia stata percorsa e quale in maniera errata. Ed è ancora un processo analitico che vede nella scrittura la forma di pensiero eccelsa, quell’”instabile Dire che slarga dal silenzio”. Se “nulla è fisso” è con la poesia che si crea mondo, ecco dunque che, come se si stesse sul foglio come su una superficie continua, ci si ritrova alla fine del percorso al punto iniziale dove l’ideale appartiene a questo mondo: non ne è escluso. Il lessico, come dicevamo, è spurio, poroso, inciampa sulle assonanze volutamente scoprendo un senso autogenerantesi che è come la prova del nove: “annullando l’andare il consacrare / annusando quelle stilofore creature / quell’anaforico misterico portale / dell’universo / ricerca/graffito / graffio all’argine pensante / nel brusio di fondo”. Lessico da cui incessantemente ripartire, da saggiare interminabilmente. (R. P.)
Peter Carravetta è titolare della Cattedra per gli Studi Italiani e Italoamericani alla Stony Brook University, nello stato di New York. Nato in Calabria, vive negli Stati Uniti dal 1963. Fondatore e direttore della rivista Differentia, review of italian thought (1986-1999). Ha svolto intensa attività saggistica e svariate traduzioni dall’italiano all’inglese. In poesia ricordiamo “Percorso masticato”, seledizioni 1974; “Delle voci”, Anterem Edizioni 1980; “Dialogi V”, Tam Tam 1987; “Metessi”, Ripostes 1991.
Non è vero che la scrittura sia soltanto una cicatrice
Queste parole sono impresse col sangue,
una chiave che gira e si estrae dal buco
come un forcipe che strappa la vita al buio.
Ma poi si esce al sole aperto, ci si inchina,
un cervo volante si posa fra le tue mani.
Rusca sulla pelle, te lo conferma, chiudi gli occhi
et inspira
Sei lettere per uomini e donne radice
A.
Chi apre questo libro rischia grosso:
dalle dita dei piedi potrebbero spuntare radici
e dalle mani fronde di carpino o corbezzolo
B.
La poesia non fa male,
non vi aiuterà a stare meglio,
nemmeno a evitare di accendere la televisione
C.
Re Artù s’è sempre interrogato sul perché
la sua sposa l’abbia tradito con un ramingo:
come tanti poeti non sapeva leggere dentro di sé
D.
Non avete vissuto abbastanza
se non vi siete addormentati sulle radici di un faggio,
o non avete baciato sotto le chiome d’una sequoia
E.
Gli alberi vivono una vita parallela,
non ci viene insegnato a distinguerli,
e per questo perdono le foglie, ad ogni pianto
F.
Covare in inverno i semi di araucaria:
in Liguria lo fanno gli anziani, decorare
i giardini è l’unica forma di soddisfazione
Poesia con radici
Spero sempre in un mondo, piccolo e laterale,
tascabile, dove gli occhi e le mani mettano radici
e la parola armi non possieda cittadinanza.
Ma si sa: agli umani bastano le unghie, e i denti,
eppure vorrei percorrere quel sentiero con altre scarpe,
scarpe più comode, che sanno aderire e ripartire
Da quali insondabili delicatezze derivano questi versi che Tiziano Fratus distilla! Venuti alla luce attraverso una decantazione favorita dalla capacità di essere in dialogo con la natura, di ascoltarne le voci e i modi, di imparare tramite la sua lezione una modalità di essere al mondo: “e infine inghiottiti in quello che i corpi / ci lasciano fare. Esiste un piano di Dio / nel volo di una falena che sbatte contro il vetro”. Il che, inoltre, non pone l’autore in posizione troppo distante dal considerare che esiste l’infinito e l’incompossibile. E la natura diviene pertanto il trampolino di lancio versi orizzonti che si collocano su piani ulteriori, non coincidenti con quello che ricade sotto il nostro sguardo. Sapere ascoltare in questo caso vuol dire donare parola. Gli alberi parlano al poeta perché il poeta riceve e trasforma e dal suo desiderio di essere un albero apprendiamo che si è effettivamente trasformato in un tronco con foglie e radici, poiché l’arte consiste in questo anche se non vogliamo darle una definizione: ci consente di dare voce a quello che sappiamo guardare, sentire, pensare. E difatti dalla riflessione di Fratus non è mai assente un’attenzione alla metalinguistica: la consapevolezza della funzione del linguaggio è in realtà l’elemento fondante della sua poesia: “Un giorno smise di chiudere la bocca. / Ibernato nel bianco, da lontano / sembrava un haiku”. Fratus crea i propri mondi incantati, ove tutto è possibile, anche la compresenza di diversi tempi storici, dinosauri compresi, e ove cultura fa il paio con natura come splendidamente esemplificato da Lovejoy. Dalla trasformazione alla transunstazione, il passo è breve, ma intenso e ricchissimo è il paesaggio che l’autore disegna incessantemente dinanzi ai nostri occhi, quasi volendo campire anche lo spazio vuoto fra natura e cultura. (R. P.)
Tiziano Fratus (Bergamo, 1975) ha pubblicato diversi libri di poesia in Italia e all’estero. Tra questi ricordiamo Il molosso (Roma 2005, Torino 2010) e Poesie luterane (Bologna 2011).
Ha fondato e diretto dal 2006 al 2010 le Edizioni e il Festival “Torino Poesia”. Dal 2010 è impegnato nel ciclo di “taccuini, volumi e mostre fotografiche per cercatori di alberi” dal titolo Homo Radix.
da “Gli eterni lavori”
da La prima generazione dei biancospini
***
Oltre la soglia del letargo, una foglia
pende ancora a lato del legno, trema,
si rimette al vento con l’astuzia dei deboli.
Ha conosciuto la pietra e l’agio delle erbe
la prima generazione dei biancospini.
Irti più del filo spinato che li regge
proclamano la resistenza all’inverno
mentre un riemerso brulichio di molti
silenziosamente li lavora nel tepore.
La pianta è un cantiere sempre aperto
a chi vi torna senza averne memoria.
Sappi che frenerò ogni desiderio
di spronarla, questa ottusa pazienza
di durare, per ora, senza dare ombra.
da Poesie per Giovanna
***
Sono come i fantasmi
i poeti che ritornano
fra chi meno li aspetta.
Come loro
in eterno costretti
a pendolare
sulla stessa tratta.
da I passi senza importanza
***
E’ la stagione dei giorni lunghi
eppure il flash scatta ogni volta
sulla fisionomia sfocata delle cose.
Ad alcuni pare infondata quella
luce nella luce, più debole
e inaccessibile, come l’uno all’altra
fra le braccia dell’amante, quando
sfumano le pose in cui si ride
si fa corto il respiro e fra i gruccioni
dalle ali d’oro si sparge la voce
che in troppi saltellano sullo stesso ramo.
Biancamaria Frabotta nella sua ultima prova “Da mani mortali” non vuole perlustrare il reale e attenersi a esso, vuole rifondarlo per creare o ripristinare collegamenti altrimenti ostruiti, tranciati. La natura vi occupa un posto privilegiato, è spesso protagonista, ma come avente un diverso grado di materialità: la poetessa la umanizza, la dota di volontà, instaura un colloquio al limite della visionarietà, al limite: quel tanto che basta per la delicatezza del raccolto emozionale. E in ogni caso per instaurare con essa un probabile confronto, farne una compagna di vita. La natura deve necessariamente per Biancamaria Frabotta essere interpretata, quasi tentata affinché manifesti la sua essenza a chi è in grado di ascoltarla: “Potessi poggiando la testa sul cuscino / udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante”. E’ un assommarsi di pretesti per donare alla natura parola e scopo istituendo un parallelo col sé: “Uccellino puerile che simuli il canto / a danno del bene comune per cui tutto tace / e la notte è compita, come una negra preistoria somiglia al mio risveglio agitato”. Nella sezione “Le fasi della luna” sarà il pianeta a creare le occasioni per riflessioni minime al limite dell’haiku. E se non tanto nella forma quanto per l’avvicinarsi come un asinteto a un nucleo di significanza non altrimenti riducibile o in ogni caso il più rastremato possibile. Eppure, ciò non si scontra con la capacità narrativa della Frabotta la cui sintassi prosegue in maniera lineare, mentre solo il senso è sottoposto a salti, per l’insopprimibile volontà di congegnare un proprio personalissimo teatro anche nella situazione percettiva più banale. Il colloquio inevitabilmente coinvolge i temi dell’amore, della morte, spesso convocando sulla pagina anche gli dei. In questi casi, si rilevano verbi declinati al passato che però ancora una volta più che un richiamo mnemonico adombrano una stanza teatrale, una nuova creazione.(R. P.) Biancamaria Frabotta è nata a Roma nel 1946. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’università di Roma La Sapienza. Oltre a una vasta attività saggistica, in poesia ha pubblicato: Il rumore bianco (1982), Appunti di volo e altre poesie (1985), Controcanto al chiuso (1991), La viandanza (1995), Terra contigua (1999, II ed. 2011), La pianta del pane (2003).
fin troppo facile intuire tra le righe le cesure
tutto il recidere delle forbici, tutto il piovere nel buio
a frenare l’entusiasmo di esser neanche a metà strada
da vamos a la plaza
***
Chissà Jonas come si scrive duemila
su questo muro che è pelle da sporcare
perché colla ce n’è ma più nulla da attaccare
***
Di questa violenza a lato che riparte in storie fisse
contro la noia delle luci spente, degli anni che ci sembrano
risplendere soltanto quando escono di scena
***
Ognuno si sente i libri addosso
come evoluzione di una lettura nervosa
che da carne diventa superficie
delle periferie dove ci hanno infilato
***
Se devo esser povero bisogna che ci creda
che resti all’ingresso del sonno di domenica
coi piatti da assaggiare imparati da un profilo
se è carne o benzina quella che dobbiamo versare
su questo cuore obeso a cinque litri da una tanica
***
Coi mali immaginari a tappezzare la tana
con la croce al collo diventare come loro
parenti alla lontana
***
La voce più bassa il nemico più grande
piano piano torna ferro il legno
non c’è più niente di civile che ci lascia in pace
***
Il sostegno scucito dal gorgoglio dei morti
il nostro cercare con gli scarti
Alessandro Assiri con la silloge “In tempi ormai vicini” sceglie di riportare alla nostra attenzione un tema storico, politico e lo fa con quella appassionata presa in carico che è tanto più vera quanto più è amara, a tratti cinica. In ogni caso coinvolgente. Le stragi di Brescia e di Bologna costituiscono un unico contenitore delle emozioni e dei pensieri dove la sorpresa, l’annichilimento dei presenti, passati in un istante dalla quotidianità alla tragedia, sollevano appunto la ferale questione: quale distanza c’era tra quotidianità e tragedia? Non era già tutto presente? Non dovevamo già essere tutti consapevoli della situazione storica e poi qual è la differenza, visto che esiste, tra l’essere sopravvissuti alla tragedia e la voglia di lottare affinché non più accada?: “senti come tace il tuo pugno alzato / adesso che indietreggi perché sei rimasto vivo / tra una scarpa calzata e un’altra perduta”. Naturalmente la voce acre di Assiri nel raccontare anche l’esito processuale non si esime dall’esprimere giudizi e critiche, ridisegnando il profilo del poeta impegnato: “Entra la corte svolazzan le toghe papaveri alti il resto son seghe / tutti i colpevoli trovati in serata con alibi pronti e corsia riservata”, giudizi che non risparmiano anche il modo in cui si credeva di essere impegnati in quel tempo storico, forse coinvolti più in un gioco che in una azione incisiva e responsabile. Ma il tempo storico è sempre anche il tempo presente della coscienza e allora un confronto tra i due stati dell’io porta il poeta a scoprire un orizzonte solo falsamente mutato dal digitale o dal precariato, ma ancora più inconsapevole e assuefatto: “Un paese che si indigna a gettoni di presenza / ha dimenticato che piazza è azione in potenza”. Eppure, il poeta ci avvisa che sono proprio i morti delle stragi a costituire per noi la possibilità di un passaggio a una più civile vita: se vivi fra noi vivi. (R. P.)
Alessandro Assiri è nato a Bologna nel 1962. Da molti anni vive tra il Trentino, Bologna e Verona, città dove gestisce la Libreria Bocù insieme alla sua compagna. Si occupa di arte e promozione culturale. Tra i suoi ultimi volumi di poesia ricordiamo Modulazione dell’empietà e Quaderni dell’impostura pubblicati con Lieto Colle, La stanza delle poche righe (Manni), Cronache della città parallela, poemetto in versi insieme a Serse Cardellini, Thauma Edizioni. Scrive in http://lastanzadellepocherighe.blogspot.it
Come dinanzi a un teatrino si assiste a uno spettacolo per bambini che solo per finta è rivolto ai bambini. Non ci si faccia ingannare dal tono semplificato fino all’inclusione dell’errore grammaticale o dalla voce delicata che sembra per noi leggere i versi. Patrizia Gioia ci consegna assieme al suo effettivo candido sguardo, ma ripetiamo teatralissimo, con tutto ciò che questo paradosso comporta, la volontà ferrea di non accettare nulla come dato, e l’espediente per attuare ciò è appunto il consegnarsi alla propria voce, all’infanzia mai cessata e in perenne ribellione contro l’ordine costituito. Nulla resta indenne dalla verifica e dall’analisi, ma anche dal desiderio di credere possibili le favole, tant’è che la scelta di attraversare la valle dell’infanzia è a sua volta piena di trabocchetti e di sviamenti. Si avverte la necessità di far tutto quadrare, quello che si nota nell’esistenza e quello che raccontano i grandi, in assenza di una cornice di riferimento esclusivamente razionale: “e a proposito della fedina penale / che ci hanno spiegato ieri mattina a scuola / non ho dormito tutta la notte / perché non so più a chi chiedere / se la fedina è come l’ostia”. E apriamo qui una parentesi anche sulla “strana” educazione che si riceve sia a scuola sia dai genitori. Così la Gioia finisce per costruire un mondo a metà strada, sospeso nella propria credulità, mentre è così incline a dubitare, conquistato dalla magia di una soluzione analogica quanto più è consapevole della mancata relazione esistente fra le cose. Ci riagganciamo in questo senso al nostro incipit: si crede di assistere a una regressione infantile, ma si nota che è una lente a infrarossi quella messa in atto nei versi di Patrizia Gioia; si pensa di trovarsi innanzi a una personalità candida come sarebbe quella del Candido di Voltaire, ma solo per ravvedersene all’istante e notare che le cose non collimano, che nessuna corda o scotch può costituire il ponte attraverso cui unificare credenze e bisogni, divieti e fondamenti. (R. P.)
da Tita
***
io abito al primo piano
di una casa di ringhiera
sopra di me c’è un terrazzo
di fronte invece ancora due piani
perché non è mica tutta uguale
anzi ogni porta è diversa
come chi ci abita dentro
ci sono in cortile due negozi
uno che fa il droghiere
e uno che vende cose di lana
e un cane tenuto alla catena
bianco pieno di pelo
sempre un po’ sporco
ma non abbaia a nessuno
e mi pare contento
il giorno che mi piace di più
non è la domenica
ma durante la settimana
che ognuno fa qualcosa
sulla ringhiera
e arrivano tutti i profumi più forti
anche dalla pattumiera
da Tita su una gamba sola
***
io alla domenica
vado sempre in ospedale
certo che mi piacerebbe
di più andare a giocare
ma mio papà è là
e quando lo vedo
cerco di ridere
e di non fargli capire
che anche io sto male
perché mi sento come lui
e senza una gamba
come si fa a ridere e saltare?
***
come fare a dire le cose
se non riesci a trovare le parole
come fare a imparare a volere bene
se mancano le persone?
Patrizia Gioia, poetessa, artista e designer, è nata e vive a Milano. La sua creatività nel mondo della pubblicità è diventata parte dell’immaginario collettivo. La sua scrittura poetica è una ricerca tesa all’incontro con l’alterità, all’analisi del profondo. Tra i suoi libri di poesia ricordiamo Inutile fare trasloco (Milano, 1985), Tre storie in bianco e nero (Milano, 1997), Parole di passaggio (Milano, 2004).
Se il pensiero si riducesse unicamente all’orizzonte in cui insistono gli oggetti che accompagnano la nostra esistenza e fosse limitato al linguaggio da essi veicolato, nel senso che “il medium è il messaggio” del mai sopito sobillatore McLuhan, saremmo catapultati, come difatti accade in queste pagine di Albero Mori, in una bolla, sorta di epochè in cui si possono verificare alcune ipotesi. Non ultima quella della sfera estetica, in cui però questa volta è il linguaggio a farsi promotore. Alberto Mori ha dunque creato una stanza, diremmo, insonorizzata, dove ci sono strumenti musicali o strumenti che producono rumori come il telefono, la sveglia: “Quale luogo? / La rampa delle scale armoniche scoscende / Appunta veloce intervallo pianerottolo / Più tardi swinga nella clip del musical condominiale” e ove a partire da oggetti si costruiscono analogie con lo spazio, si innestano metafore, si rompe la sfera, ma appunto linguisticamente, con abbondante uso delle sinestesie: “Fra narice e pruno / sniffo chitarrista del colore assuono / Dalla tromba ancia FiatoVetro”. In tale guisa, l’ipotesi iniziale è verificata tramite la creazione di un mondo percettivo esclusivamente personale in cui il linguaggio s’incarica di costruire relazioni altrimenti inesistenti: trasparente, vibratile passaggio in cui da oggetti reali si giunge all’io che produce. Ma è un io che si costruisce esclusivamente tramite percetto e che individua nel pensiero estetico, l’unico pensiero d’interesse, ove la logica deve lasciare il passo a una maggiormente sinfonica rappresentazione e a una non meno complessa organizzazione. Così le esecuzioni che Alberto Mori mette a punto sono da vedere e da ascoltare, miracolo, mentre si legge. (R. P.)
9 (0:44)
Nel cerchio carillon giostrante
la nenia abbassa lenta
degrada ed appiatta
Scorre fantasmagoria rotoria
Poi oscillano dita xilophone
14 (2:54)
Tornasole del Reggae
Sguardi lucchettati disserrano
Oscillano ancora in narcosi penombrea
Dea Calypso danza lenta e scatenata
20 (1:44)
Trascorre alternanza
La sequenza si allunga
Varia nelle consecuzioni
Individua la serie
Raggiunge permanenza attiva
nella durata immaginaria
22 (4:05)
La tensione armonica sospinge improvvisa
La linea conchiude le mani
nel disegno tattile in composizione
Al dispiego appena meno labile
annotano evanescenze in battito
35 (1:02)
Battito oscuro
Atemporale della lontananza
Timpani taciuti simultanei
La luce scivola invisibile sulla musica delle sfere
Alberto Mori, poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia: dalla poesia sonora e visiva, alla performance, dall’installazione al video e alla fotografia. Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni in poesia: tra queste ricordiamo Objects (2010), Financial (2011), Piano (2012) edite da Fara Editore. Sito internet: www.albertomoripoeta.com