[...]come la storia delle arterie
all’altezza della mia morte[...]
se lo sguardo d’un tratto
(inconsapevolmente) si facesse tatto,
potrei allora - ma solo allora -
cedere al gesto l’angoscia,
le pupille come mani a verificare
il palpitio, il tremolio
che niente sa
e niente dimentica.
il battito lento, significa sul tamburo
dell’occhio
e in nessun altro luogo
che non sia mio, in nessun altro
nome che non sia il mio.
***
se fosse anche solo un osso
una frattura interna congeniale al dicibile
uno scricchiolio che contrasta con il silenzio degli organi,
che si estende a macchia d’olio,
che invade e valuta il cranio,
lo abita.
se fosse la congestione a fare di te
l’altare del freddo sismico
uno slancio verso il pallore
ti amerei, patologia mai verificata.
ma c’è dell’altro: il sonno non vale
come anestetico, e di notte ti penso
come si pensa a una scossa: con tutto il tremolio
del corpo raccolto dalla palpebra.
***
ricordo di quel giorno
che sembrava non contenere nessuna notte;
nessun principio della fine.
in un unico sonno spariscono i secoli, si estinguono
e ricordano le antiche bestie feroci. ritornano, a volte zoppicanti,
con i loro musi tristi a ispezionare il bruciato.
ci si sveglia, come se qualcuno l’avesse chiesto.
nella pesantezza del torace
si scioglie la tosse, nella camminata - sentiero da me al
non so dove - quando sparisci, e rimane il solco,
l’erba pressata, le pietre,
a formare un “forse torno, forse no”.
Nottu(urna)
I testi marciano alla guerra
- il testo al fronte che prediligo è il cecchino -
fuori dalle parentesi la morte si annuncia come
un’esondazione, trabocca dal testo.
“perché quel che racconto questa sera avviene questa sera, a questa stessa ora”
è così naturale la morte frontale, così tirata a lucido
senza sbavature.
la laterale giunge a
spiazzare le ore invece, fa fronte con le fionde,
ci costringe al punto e virgola; morte laterale.
la morte abita ogni girone dell’orologio
Oh gironi orrendi. In così verde etate!
tutti noi, da piccoli,
abbiamo preso quella botta
tra i piedi e la nuca
che ci consegna - un dono nel suo livello massimo di generosità -
la sventura del domani.
quando dormiamo in sospensione, la mattina
(appostata com’è dietro le cose) ci fredda al volo.
spesso la notte ci misura la febbre con un bacio della fronte,
mentre le gambe del letto
affette (come lo sono spesso)
da sproporzione, ci passano la torcia.
il prossimo fuoco dista un sonno. Solo uno.
Il futuro è una fila di bambini nati morti
la morte non è mai stata qui,
tra le cose ancora in corsa.
è sempre stata lì, al riparo:
nel principio di ogni dove.
“essere è essere incastrati”
la violenza di tutte le cose che sono
(fuori dalla nostra portata) ci colpisce, e noi
contiamo i reduci, i residui di questo corpo,
- abbiamo rivendicato anche l’ultimo colpo -.
non è necessario questo peso
questo cuore che impazza
prende sangue, rende marmo.
“mamma mi fa male la morte
all’altezza della vita”.
non siamo mai scivolati, abbiamo da sempre
preteso lo sfregio, l’attrito del corpo contro
tutte le cose.
- noi non siamo che il nostro cadere -
ma ancora prima di cadere non siamo
che le nostre mani disperate
che fiutano il fuoco
e trovano cenere.
Antonio Scaturro è nato a Giaveno il 27 aprile 1992, abita a Orbassano e frequenta il corso di Culture e Letterature del Mondo Moderno presso l’Università degli Studi di Torino.
Finalista del concorso “Opera Prima” edizione 2012.