Entrando nel decimo anno di “Carte nel vento” è doveroso ricordare tutti i poeti e prosatori che finora ne hanno accompagnato il cammino, tra conferme di autori già noti, proposti in gran parte per testi esemplari, e scoperte di nuovi talenti, spesso punte della nuova poesia italiana. In pratica, molto del lavoro intorno alla poesia svolto negli ultimi anni dal Premio Lorenzo Montano. Questo periodico trae infatti argomento da tutto quanto accade nella composita geografia del Premio, tra i suoi vasti confini. Il presente numero è interamente dedicato ai vincitori del “Montano 2012”, commentati dalla redazione di “Anterem”, e presentati non solo attraverso le opere premiate ma anche con l’aggiunta di contributi inediti che ne amplificano il discorso e la poetica.
Per proseguire nel cammino, per rinnovare questa particolare storia della poesia con altri autori, è già disponibile il bando della nuova edizione.
Scarica il bando del Premio che scade il 15 aprile 2013
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In copertina: olio su tela di Laura Caccia
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Sebastiano Aglieco, Marcello Angioni, Cristina Annino
Lucianna Argentino, Alessandro Assiri, Dino Azzalin
Luigi Ballerini, Armando Bertollo, Giorgio Bona, Leonardo Bonetti
Silvia Bre, Alessandro Broggi, Roberto Bugliani
Laura Caccia, Rinaldo Caddeo, Nanni Cagnone, Giovanni Campana, Enzo Campi, Allì Caracciolo
Lorenzo Carlucci, Alberto Casadei, Guido Caserza, Alessandro Catà, Alessandra Cava
Roberto Ceccarini, Giorgio Celli, Gaetano Ciao, Domenico Cipriano, Roberto Cogo
Silvia Comoglio, Federico Condello, Marina Corona
Marcella Corsi, Elena Corsino, Erika Crosara, Albino Crovetto
Mauro Dal Fior, Alessandro De Francesco, Enrico De Lea, Chiara De Luca, Evelina De Signoribus
Tino Di Cicco, Vincenzo Di Oronzo, Edgardo Donelli, Paolo Donini, Antonella Doria
Marco Ercolani, Franco Falasca, Gabriela Fantato, Anna Maria Farabbi, Roberto Fassina
Federico Federici, Paolo Ferrari, Aldo Ferraris, Paolo Fichera, Massimiliano Finazzer Flory
Giovanni Fontana, Luigi Fontanella, Kiki Franceschi, Mario Fresa, Lucetta Frisa, Adelio Fusè
Miro Gabriele, Tiziana Gabrielli, Marinella Galletti, Mauro Germani, Alessandro Ghignoli
Gianluca Giachery, Lino Giarrusso, Andrea Gigli, Carolina Giorgi, Marco Giovenale
Alfredo Giuliani, Lorenzo Gobbi, Marcello Gombos, Cesare Greppi, Maria Grimaldi Gallinari
Ermanno Guantini, Vincenzo Guarracino, Mariangela Guàtteri, Gaia Gubbini
Gian Paolo Guerini, Stefano Guglielmin
Giovanni Infelìse, Carlo Invernizzi, Gilberto Isella
Ettore Labbate, Marica Larocchi, Alfonso Lentini, Tommaso Lisa
Loredana Magazzeni, Marianna Marino, Francesco Marotta, Giulio Marzaioli, Stefano Massari
Daniele Mencarelli, Manuel Micaletto, Francesca Monnetti, Emidio Montini, Sandra Morero
Alberto Mori, Alessandro Morino, Renata Morresi, Luigi Nacci
Francesco Onìrige, Cosimo Ortesta, Luca Paci, Giuseppe Pellegrino
Camillo Pennati, Gabriele Pepe, Luisa Pianzola, Stefano Piva, Chiara Poltronieri
Giancarlo Pontiggia, Nicola Ponzio, Michele Porsia, Maria Pia Quintavalla
Andrea Raos, Jacopo Ricciardi, Giuliano Rinaldini, Gianni Robusti, Marta Rodini
Cecilia Rofena, Andrea Rompianesi, Stefania Roncari, Silvia Rosa
Sofia Demetrula Rosati, Pierangela Rossi, Giacomo Rossi Precerutti
Luca Sala, Tiziano Salari, Luca Salvatore, Massimo Sannelli, Viviana Scarinci, Evelina Schatz
Massimo Scrignòli, Maurizio Solimine, Lucia Sollazzo, Pietro Spataro, Maria Paola Svampa
Italo Testa, Matilde Tobia, Maria Alessandra Tognato
Luigi Trucillo, Guido Turco, Giovanni Turra Zan
Tonino Vaan, Matteo Vercesi, Maria Luisa Vezzali, Ciro Vitiello
Davanti a questo esistere,
all’ora locale, dilatando la strada
e la storia ai loro sguardi
in ogni traduzione e carezza
Quantomeno non si lascia
alle spalle erbe abbottonate al cielo,
terra e porti fuori
angolo Qui è parola
minuscola all’unisono,
ferma sulla nostra pelle, ha impronte
minerali, filo spinato
tra le sue fenditure Un canto
piegato verso i traslochi
in prestito dalle proprie origini dove
le foreste si smarriscono,
dove nidificano
Quando si avvia a parlare il poeta non sa qual è e dov’è l’inizio da cui spingersi, parte verso una direzione ancora sconosciuta e comincia a dare voce e scrittura, per prendere vita e ridarla. Così, per Laura Caccia, partenza e percorso prendono forma con l’ignoto: che è principio di attrazione e di conoscenza. La sua è una scrittura che affonda in un sentire, fisico e intellettivo, dove ciò che non si sa è quasi una fluttuazione potenziale, un vuoto d’ombra da cui emergono, come quanti di realtà, “notizie... paragonabili a un’ emozione...”. E da qui comincia a farsi strada, in un tragitto di sequenze e conseguenze, un senso che cerca nel reale l’accordo con l’esistenza. Partendo dal non-ancora-conosciuto, che ha il suo rifugio nel mondo che c’è, l’autrice incide con una metafora ancora oscura, ma che va lentamente a prendere luce. Una luce, però, non omogenea, perché la poesia, questa poesia, non può che dislocare parole e connessioni difformi, non comunicazioni in un “inizio capovolto”, dove l’umanità sembra andare al contrario.
Ma il poeta ha, nel suo sguardo lucido, un orizzonte di appartenenza e memoria, di vuoto e spaesamento, non come sintomi contraddittori, ma cambiamenti e rinforzi incessantemente persi e ripresi, e ogni volta arricchiti dal mare di nomi che la parola poetica si prende a cuore di far crescere. La voce dell’autrice si costruisce in versi che sembrano percorrere un labirinto ricorsivo, un andamento di circonvoluzioni piane, senza stacchi: così come è senza fratture la visione a cui è data “tutta la leggerezza che occorre” per transitare verso l’inconosciuto. E più la percezione si avvicina alla fonte di ciò che risuona nella mente, più il dire aumenta il suo sforzo per sostenere il senso che sembra non appartenere nemmeno alle cose. Ma se così è, allora il sentimento che anima i segni deve portare necessariamente a una voce che convoca il nulla. Ma chi scrive sa che è la poesia a riconoscere e a dare nuova identità al suono che si è perso, con un respiro che, anche se flebile, non è mai compromesso con i dati apparenti. E’ sempre un’opposizione alla realtà, un contrasto che intreccia silenzio e voce senza appartenere né a l’uno né all’altra, né ad entrambi: ma al loro imprimersi ed esporsi, in vista di una vita reale e perturbata da un esproprio che porta stupore contro le anticipazioni del senso comune.
I versi non conoscono tregua, emergono e si diffondono come per ripopolare il mondo, e lo fanno con una naturalezza inimmaginabile in un pensiero che non sia mosso dall’ adesione totale con la parola da cui è prodotto e che produce. Così l’opera che si fa apre a una visibilità altra, non ancora codificata, dove può capitare di “smarrirsi tra le incrinature” della sua materia. Ma ciò è un bene, per polverizzare “verità illegittime”, che solo la poesia, come una scienza dell’incanto, può ricondurre al vero. Laura Caccia chiede al lettore di affrontare un perturbamento che raccolga in sé la perdita di senso che spinge a rientrare nel sonno del silenzio. Perché solo così il vivente può riavere parola e scrittura, per ospitare la meraviglia e musicare il dolore. Ma c’è un rischio: non riuscire poi a tenere salda la concretezza dell’ immaginazione. Un’esondazione potrebbe portare all’oblio per troppa oscurità o all’ accecamento per troppa luce. Qui, però, dove non c’è sperpero di lingua, la poesia riesce a dare alle figure il riconoscimento del proprio dissentire, grazie alla fervida emozione che “scioglie sintassi e orizzonti”.
Questi testi non sono mai dettati da smania di dire, ma da un sentire polivalente che sgorga dalla sorgente di una respirazione parlante, ai margini di quel vortice lento, che diffonde grafia e fonia a formare una propria interiorità. E’ questa la sfida che i versi accettano: spogliare una supposta verità e riportarla al canto intimo di “vita inedita”, di “grammatica umana”. Sono fruscii e luccichii dentro cui anche smarrirsi, ma sempre per poter rinominare “lo stormire del mondo”. Ecco la disposizione all’ accoglienza di ciò che non si sa, ma che certamente è: raccogliere la precarietà di ogni significato e la dissipazione che attua la sua semina, per far crescere una lingua senza abusi. Una lingua che dilati la sua esistenza fino a contenere, anche solo nello spazio di una sillaba o nel tempo di una pausa, lacerazioni e ferite, dimenticanze e perdite. E’ a questa tensione che Laura Caccia affida il suo pensare, impaginando un reticolo che contamina se stesso nella cura risorgiva del poema: con ritmi e ondulazioni che mai si perdono o inciampano in ingenuità o artificiosità. La poesia è un’arte speciale: ha in sé la propria consistenza e la propria dissolvenza, ed è qui che segna ciò che è “affidato alle sue tracce”: un sommovimento incurante delle moltitudini che ripiegano; una sollevazione che porta traslochi e discordanze di senso e smantella le immagini chiuse per dare esistenza, per riparare, per dare un nido.
Postfazione di Stefano Guglielmin
6 poesie da “D’altro canto”
Laura Caccia, nata a Varallo Sesia (1954), laureata in filosofia, lavora nella scuola e si è dedicata per diversi anni alla pittura.
Dopo Asintoti, Cierre Grafica 2004, l’interrogazione sulla parola è stata la ragione e l’oggetto principale della sua scrittura.
D’altro canto vuole essere un omaggio ai poeti, la cui eco ne ha contaminato la ricerca, e a tutti coloro che si prendono cura del dire e della sua indicibilità.
Da questa luce precisa di marzo,
il suo calibro di sete: l’inconoscere dell’alba,
il respiro che tace. E questo altrove
comune, strofe immutate di cieli
che i cieli non conobbero. Ora che è stretto il grido
a dirci di ogni cosa prossima,
impensata, la proprietà del buio, fauci ai vinti,
labbra iniziali e ciò che fugge
dentro le ossa, ai bordi del silenzio. Gravita
lo sfondo sui ripiani a piccole
dosi, nell’esortazione del sangue la nostra
ombra felice. A volte saranno
dintorni colmi al di sotto
della pelle, frammenti di ciò che non ha difesa.
Tra le contraddizioni ai cardini
del viso dove cerchiamo l’inizio e il trasalire,
appena dubbio, stupore.
Un’esitazione di terra e stelle flesse,
rarefatte, suoni dall’udire
asciutto gettati al centro del principio.
Nel sipario di una screpolatura,
come nel sonno che interrompe le stagioni
trattenendo a stento il fiato.
Non una voce, al capogiro improvviso
inatteso d’essere rogo
d’attrazione, sortilegio d’abbraccio
alle notti inarrese.
……………………….
Sarà immersa nel posarsi e lievità
nell’abbandono dei segni, fino al chiarore
che non dà tregua ai morti,
ai mari verticali. Sulla pelle a risalire
le trame degli occhi, in un gesto che accolga
mutazioni, tendini di luce
e pioggia a esserne grati.
La finitudine al suo inizio, così legame insieme
e ulteriore, fino a che il verso
tramuti il vuoto tra le ceneri, l’ora divenuta
erba, l'ultima ferita a vegliare
la voce. Perché
abbia tempo umano
e moltitudini nel balbettio sulle labbra dove
si addensa ogni origine.
Dai vetri appannati confonde
i luoghi, le similitudini, trattiene tutti noi dentro
il suo respiro a sfigurare
le ragioni che gravitano in prossimità dei sensi.
Dipende da quanto è essere
luogo e identità oppure
il sonno che balbetta le sue
visioni. Così piega a simulacro ogni fugacità,
tessitura perenne
al guscio di stagioni
ruvide, stupite. Tiene il dire sospeso, l’ossido,
il fiato corto, l’anima in festa.
……………………….
Scrostavi il buio a freddo
e spatola, le figure sghembe, le moltitudini
accanto. La notte trascinata
tra le pietre e gli archi a tutto
tondo al lievito d’udito, lungo i sentieri impigliati
alla risacca dove vegliamo
segni, controfigure ai vivi come grammatiche
inquiete. Saranno germogli del mattino
gli alfabeti che si rifrangono
nei corpi a confondere
ogni cosa da sempre, dove non appare.
L’oltrepassare è la tua ostinazione,
non è solo delle stelle spaesare
distanze e sguardi inadatti, così che intoni tutto
il nostro affidarsi. L’ora
è polline, una faglia dipinta al desiderio
d’essere soglia e a braccia
l’accadere, uguale
l’occhio che intorno ama.
Dentro di noi sarà traccia, apparenza al suo
distare, accanto benché
minuscola e riverberi
e tuttavia sia, la morte sottratta alla sua grazia.
Nelle braci di un canto
retrocede senza altra
tenebra che la voce a mani nude, l’erba
in equilibrio sul vuoto.
……………………….
Le parti del corpo, ognuna
con la sua durata: la testa ferma in questo istante
mentre le gambe camminano
tra i secoli. Dentro bozzoli
di stirpi, estremità ovunque disperse, qualsiasi grido,
le figure chiare, le anime
blasfeme. Se l’approssimazione
nasce al desiderio, una pronuncia cresciuta
nei canoni dei boschi,
negli esiti umani, prima che si smarriscano i gesti,
le andature. L’altrove in noi così
accanto da non metterlo
a fuoco, a sorprenderne
il battito sarà vana la cura, uno spolvero disperso
di materia dove l’impensato
sorriderà, lievito al verso nell’assenso del dolore
in agguato tra le cerimonie
delle ombre. Nelle vene
ne conserveremo le impronte,
in fondo cosa dimostrano l’ostinazione
dei ciottoli, il logorio
delle città rastremate
in un ciglio di terra a dirupo, secoli di strade
a dire ciascuna sera profuga,
fatale. Se sarà
dare voce l’acconsentire di ogni fibra
alla sua eco mortale.
……………………….
Tenere testa al senso, al nostro
stare così remoto e prossimo, lo avrebbe amato
e tanto meno. Venuti ad abitare
attimi, l’alfabeto terreno del respiro, il desiderio
che raduna i vivi. Una controfigura
tra sintassi di morti e stormi
a mani concave. Muta
tra i corpi la stessa profondità, sradicati suoli,
presente dopo presente
alla caduta dei segni sulla pietra. Come erbe
di tempo inquiete di fango
e chiarità, nell’azzardo scosceso
a rugiada e vigilie. Dove
si incresperà il nome che ci bussa alle porte
a cuore vivo, lungo prossimità,
metamorfosi in un battito
uguale. Ogni inizio e fine nel coro innaturale
dentro la parola che manca,
il grido che i secoli hanno privato
di luce. La voce di tutte le generazioni
non basta a se stessa,
polvere al guado in un setaccio
d’ora. Se cerca fiato e germoglio, lesione
di figure dentro
il verso che ignora,
dal suo riflesso al tremolio che incrina.
Questo istante respira.
……………………….
Saranno maree le anime di gennaio
scese in corpo a caso. Secoli di guerre e di nevi
non battono all’unisono,
come le ghiaie di corrente,
le congetture unanimi. Ne abbiamo fatto
un tempo indifeso, così proteso
a eccedere, così incerto a ogni cosa.
Nelle tracce ancora prive di voce nei volti
sottostanti, ogni risonanza
d’essere, ciascuna morte
che custodiamo: una parola divisa nell’oscuro
del giorno si fa tempo
e conoscenza fino all’osso. Allontana eternità
nel vento divenuto vertigine lo stupore
disarginato tra le pietre,
un capoverso fossile di luce
al volo delle labbra sarà brezza, nel fondale
del tuo dormiveglia. In grembo
tiene finestre col loro carico di cielo nella loro
versione inesatta, non la terra
su cui poggiare
il capo né alibi è istante
che al nostro cospetto avviene. Abbeverare
così le moltitudini in pegno,
quello di vivere poi aveva
il suo peso, da quando la condotta
delle erbe insegna.
……………………….
Vedi alla voce: materia rarefatta
e sangue, scorrendo senza meta e figure
come a toccare il senso,
il segno non incontaminato
che corrode le pietre. Tra fondamenta e carestie,
in uno scarto che ingorga
radici alla sua fame, le stagioni
imbucate tra le ossa, sconosciute ai greti.
È perseveranza d’essere
nella sua devastazione, una pronuncia muta
a fare di ogni presenza ascolto,
ciascun passaggio
inaccesso, ogni ombra e notte,
gocce d’acqua, respiri. Le vibrazioni dei rami
intorno alla luce
nel rovescio del cielo,
dove procediamo così a trattenerci, tracce
a malapena. Ovunque e mai
intriderà la pelle per una manciata di ossa
e di anime a sghembo.
Forniremo indizi
anche se inutili: al loro
punto di rottura, la sottrazione dei venti,
il respiro interrotto,
di profilo. Nomi che salgono a fatica
nell’ordine degli steli
a pozze e buio.
……………………….
Da qualche parte l’udire
tocca il suono. Lo tratteniamo ai polsi di scritture
corrotte, afasie addomesticate,
se sulla pelle delle cose
ne racconta ombre e stupori, moltitudini ovunque
tra le versioni contemporanee,
invisibili stanze moltiplicano i nomi. In un pensiero
irragionevole, il suo calore nel sangue
che allatta gli orizzonti
e questo improvviso
biancore di neve, custodito dalle ceneri
nelle zolle abitate dall’assenza.
Non dire, sulla soglia a pena, come superficie
di vento, vivi dopo vivi. A decifrare
chiaroscuri esposti
come fosse laggiù resina
di luce, il suo tempo superfluo. E di questo
movimento profusione,
lungo le estremità che slabbrano
asfalti, lingue d’acqua e massacri. Tra i fiori
dell’uranio l’umano
insonne smisura. In questa chiarezza
lievita indugi, anziché
sottrarsi ogni identità respira.
Senza farne voce, irrisolta
nel calco che affila, avendone cura,
la misura e l’arbitrio.
……………………….
Ogni nostro corpo finito e sfinito
d’aria e di voce, di demoni, stragi e ancora
prima di morte, nel mutare
che cresce come fosse un dettaglio
inesauribile, stupito, il suo accadere specifico.
Un arsenale ai sopravvissuti,
viscere e nudità in questa sintassi umana,
nella pronuncia a corde tese,
spalancata in ogni
moltitudine a capo. A tenerci
a mente, a prenderci in parola. La sola a dilatare
costellazioni a braccia aperte
in un grumo di pena
accolta tra le camicie mentre sembra che muti
la leggerezza appesa alle pareti.
Saranno voci in punto stette alle bocche mai
finite, l’apnea del cosmo attraversa
volti e respiro, come fossero
richiami sterrati per aratri
e rimozioni. Ovvero qualche notte di strade
rampicanti, saghe di cieli
nelle stanze da poco a frantumi. È cosa
breve l’andare. E smarrimenti
di rotte agli orli di città
in risacca, un esercizio
sulle labbra all’unisono, tra le albe dove
ogni mattino è porto.
……………………….
A ripetere uno stesso suono
è voce che chiama, insensata, a tradurre
finestre e mondi, parafrasi,
un crepitio immenso questo
archivio di stelle. Poiché una pagina in anticipo
sulle mani, dove tende,
si tende. E attecchirne generazioni, quasi rugiada
tra le conversazioni a corda tesa
in ogni storia minore,
lungo il senso sommerso. Il ritorno
scagliato nei boschi, le immagini precipitate
in una lingua tentata,
senza saperlo balbetta.
Al riparo del fiato dal fondo dei decenni saranno
corpo e mutazione, le ossa
prendono la forma del sonno, la sua lesione,
un’apertura che sorprende a volte
la notte. C’è una luce
al guado in cui sprofondano
passi e rifugi nell’ordine: fianchi guerrieri, abiti
e respiri in affitto, il canto delle acque,
gli alfabeti umani. Se insiste
un’armonia d’urto e innesto, quando non ha
più tempi da condurre, altro
da arare, come riconoscerci in cocci
d’alba, vento d’argilla e pietra,
sillabe in gola.
……………………….
Esige altro la voce che involucri
di risonanza: chiede doglia e bersaglio, ferita,
morte insaziata. Mai l’ultima
parola, polpa ostinata,
latitudini di acque, ardesia in fiore, ombre
di metamorfosi tra i passanti.
Accanto espone il suo tempo
impoverito, un vibrato estremo si fa grido, sussurro,
fertile copia, un’esposizione
che squarcia i secoli a macchia. Se ustiona i sensi
fra amnesie nel disordine muto, notti
tra le labbra concave
il volto immenso d’essere
e insieme il luogo quotidiano da cui giungi.
La fronte violata dove
si sporge il mondo. Se resiste in un nodo a filo
teso, quasi emerso da una metafora
di terra fra secoli aspri,
remando pagine contemporanee,
così l’accadere intrinseco, la congettura
che non salva l’inverno.
Prendi ad esempio
il livello di buio, il respiro della neve
al guado, l’incandescenza
e il vano che arano
incanti e bufere, il segno deposto,
il tronco, la polpa, il pane.
……………………….
Come è potuto accadere. Che ci siano cose
a cui non abbiamo dato voce:
e popoli, uomini, mattini e frulli. E silenzi .
La chiarità senza preavviso
se accosti secoli al disamore, suoni di radio, alture
stupefatte tra le connessioni
che trattieni sulla tovaglia stesa. Attraversa i volti
dispersi come fiato sui vetri, a spatola
di stagioni sembra cosa
da poco. Scava fami e polpa
schiusi come una fioritura improvvisa, una traccia comune, il dettaglio che smuove
la materia e sposta il campo
visivo dal suo cumulo d’alba, breccia per ogni
soglia e ostacolo. Si vedono ombre
che sgorgano rugiada ed un improvviso calore
sulla scena che raccoglie realtà,
simulacri, costellazioni
di città, fuochi fatui. La luce
non ha eco, anche se la parola potrebbe
e ciascun corpo riflesso.
Ma le acquisizioni dell’acqua
rimbalzano nello stesso suono mai concluso,
la pagina bianca su cui canta
fin dove arriva la voce.
Sono coaguli in controvoce a filo di mondo
per meraviglia nuda.
……………………….
A quale radice o pane, a quale musa
inesperta. La partitura sospesa nella pienezza
limpida che ignora, così
simulare l’estensione, il fiato breve, la parola
che diventa corpo per averne corpo,
umana e al tempo
disumana metafora di ogni
generazione all’unisono. La prima notte del volto,
una profondità screziata nel divario
dei vivi, identità e misura
che prosciuga fino al foglio, attuale. Se potesse
trattenerla sorgiva di segni accanto
a sé, mutare necessità al chiarore
che penetra la pelle. Lungo il tatto esile e breve
a spolvero in un malinteso
inciso tra i profili della nebbia.
Come raschiare lingue sui confini del corpo,
il cosmo che si inalba nel suo sguardo
immutato di febbri, controsensi.
Graffiti dispersi come pioggia lungo i vetri,
verità disuguali dove non sono.
A volte gli orizzonti hanno la densità dei nomi
mai raggiunti, a volte tremano:
al contatto di tutto il prima
e l’oltre, è un fatto normale.
Se la voce riesce a farsi tatto, a posarsi
sui corpi, a toccare le cose.
……………………….
Si esercita a nascere la voce forgiata,
l’atroce meraviglia. Nel suo magma d’alba, fino
a che punto si spinge, dove
si mescola alle folle e ai respiri,
dai destini delle strade ai visi in cui la realtà insegue
il suo sguardo e il fiato in un ammasso
di pietà. Se a monologhi di nubi e asfalto, accesi
legami nell’intonazione mortale,
scarti il suo nodo opposta
al calore dove resistono anfratti,
cardature a macchia visibile. La sua necessità
altro non è, vicino il nome
aggiunto alla sua moltitudine,
nell’aratura delle acque, al setaccio di tangenziali
e insonnie, l’apparenza inattesa
sul lato opposto della scena, pietra e vagito
a chi somiglia, opposizione di sguardi
e muse. Le cose accanto,
il sangue in attesa. Dove
balbetta il vento tra i muri, di questa poca
ombra che levighiamo,
se le labbra cadono o trattengono
l’ultimo ospite, amato. Le dissonanze a riva,
similitudini di erbe feriali,
ogni atomo, ogni esercizio
di vita: ciò che siamo e non siamo, specie
comune, dismisura.
……………………….
Questa fame: la voce umana,
una recita che dimentica la parte e l’insensato
dentro di noi che inciampa
nella sua pagina incolta
senza appello, fiato animale agli strappi delle vie
in un’esposizione d’essere
in curvatura morte e parola, somiglianze nel viso
potato tra i legni delle ombre.
Ciò che sulla pelle
in superficie strappa i venti,
i gusci testardi delle cose. Muove segnali al suo
punto di tensione dove la mente
è grumo, diserba asfalti e maree senza punti
d’appoggio. Soffio e cratere
dove sarà ieri incontro,
esodo ignoto d’eco
nel silenzio che crea per ogni canto improprio.
L’eco di tangenziali affacciate
sulle fronti dei boschi, adombra
cosa in un niente di figura. Più della luce, verso
i corpi e le ombre, si tiene
alla caduta e quanto più terrena può, è qui
il suo dire: un’approssimazione
che si fa polvere
di rugiada e arbitrio
tra i nomi di cui cerca, avvicinandosi,
la ferita, il debito.
……………………….
A una voce si sfama, gheriglio
e volo, radura. Mai finita: negli strappi, nel tatto
luminoso, sradicato, lingua
di macerie e talee non addomesticata né indolore.
Chiede nomi, silenzi, rischi collaterali.
Tiene il cielo teso
senza orizzonte, nei legami
che dispiega, un’eresia sui paesaggi dischiusi,
né ci appartiene la parola
che aderisce e se domanda è
senza rimedio, screpolatura di destini quasi fossero
indirizzi sconosciuti al loro inquieto
respiro. Affama profezie,
ombra del dicibile a filo d’acqua, alla rinfusa,
la riva divenuta scrittura.
Si inabissa, riemerge quando abbandona il certo
vicino e il pretesto ad evaporare senza
ombra né luce. E attecchire
in gola una radura di notte
leggera. Superficie su cui disperdere vertigini,
farne sostanza intorno,
febbre e pane lasciati
sul gradino. Raduna vasta la piega del labbro
vano sul fondale, la pietà
che invoca e butta cose
e innamora finità al suo estremo confine,
il segno in anticipo, vano.
IL LIBRO LUOGO D'ABBANDONO
Il libro è un’utopia tentata, defraudata.
Luogo di un abbandono, pagina che chiude pagina,
recinto di ombre più che di luce.
Il libro deve nascondere. E’ un oblio di pietra, un
tentativo venuto prima della forma.
A due pagine aperte corrispondono mille pagine
chiuse in un rapporto esageratamente sproporzionato.
Vero luogo di privazione, è nel suo silenzio che si
aprono tutte le frontiere del mondo.
Perché c’è una scrittura prima della scrittura che non
esaurisce la misura dei suoi significati.
E ogni lettura sarà riscrittura; e il lettore colui che
aggiungerà una parola al libro chiuso e, dopo averla
scritta, lo chiuderà nuovamente.
E’ la distanza che passa tra la parola scritta e l’atto
della scrittura che permette al lettore di profondere
tutto se stesso nella pagina chiusa.
Il libro chiuso ha pagine saldate; si può leggerne il
dorso senza rammentarne l’oblio.
Il libro è un mondo non esauribile. Anzi, sostitutivo del reale. Parrebbe possibile affermare che vi è più vita e realtà da scoprire in un libro che nell’esistenza che pure gli dà la stura. Apparentemente silente, monumentale, distante, utopico, macchina produttrice di oblio, ma sono proprio queste le chiavi di volta da cui scaturiscono plurime voci, percorsi, confini, ombre rigogliose, la proiezione dei secoli: sulla “pagina chiusa, alitano respiri eterni”. Se è vero che l’interrogazione sul libro ci riporta immediatamente alla mente i testi di Jabès, con cui Bonetti condivide anche parzialmente lo stile, è anche vero che sarà proprio negli interstizi di quest’operazione poetica che si potranno rinvenire le vie non intraviste prima. Equivale, per noi, al vetrino che apparentemente pulito, messo al di sotto del microscopio sveli un’ulteriore dimensione. Una sorta di cannocchiale che, se stabilisce come oggetto dello sguardo il libro, finisce col mostrare di fatto i meandri e le rifrangenze dell’inesauribile, poiché, miracolo dell’inversione, il libro è vita. Infatti, “A libro chiuso si può sperimentare l’assenza del suo corpo senza compiacimenti”. Anzi parrebbe che esista una relazione profonda, che funziona come una serratura a scatto, nel rapporto fra noi e il libro: se il libro è chiuso, se sta accanto a noi o fra le nostre mani, o se invece ne apriamo le pagine, ecco che tutto intorno a noi cambia, le scenografie, le reti, le profondità, gli echi. E in questo meccanismo, “in questo inganno eserciterà tutta intera la sua libertà”, poiché nessun senso ne può essere estratto, né potremo possedere. E’ qui che si misura l’originalità della voce di Bonetti, in questo spogliare il libro di tutte le sue particolarità, caratteristiche precipue per farne uno strumento, un oggetto equivalente allo specchio di Alice nel paese delle meraviglie, qualcosa da cui si passa e che consente “cambiamenti meno apparenti e più duraturi”. Varrà anche come antidoto al potere, poiché il libro si rivela capace di fagocitare e trasformare tutto, ma avendo al centro l’umano, o meglio, risospingendo i valori umani sul gradino più alto, in una vera e propria rivoluzione. Allo stesso modo di un aratro che rompa il muro di terra in zolle, il libro “promuove una sfida eterna tra la sua costellazione e la sua possibilità”. E per tutto questo, mirabilmente, è sufficiente che il libro sotto il nostro sguardo sia chiuso, preservando “il mistero dell’essere, dell’oblio, del nulla”.
Leonardo Bonetti è nato a Roma nel 1963, ha esordito per Marietti con Racconto d’inverno (2009), vincitore nello stesso anno del Premio Nabokov. Nel 2010 ha pubblicato sempre per Marietti il suo secondo romanzo, Racconto di primavera, accompagnato da una nota critica di Walter Pedullà. Con questo libro ha vinto recentemente il Premio Carver 2011.
A libro chiuso
riflessioni a margine
di Leonardo Bonetti
Perché A libro chiuso? Perché un libro dovrebbe essere rappresentato attraverso la propria chiusura, la propria resistenza all'esibizione? Forse per un problema di moralità, di diffidenza calvinista verso le estroversioni della cultura?
Non credo. Questa immagine verbale, così a me sembra debba essere intesa, nasce infatti da un'esperienza vissuta sulla pelle del libro stesso. Sulla mia stessa pelle. Frutto di un rapporto che ha origine nell'infanzia.
Sin da piccoli, infatti, apriamo il libro trovandoci di fronte alla sua pagina luminosa, aperta. E la parola ci appare fissata, immobile, persino eterna. Crediamo che dietro questa sua immobilità si nasconda un enigma da sciogliere. Noi dobbiamo capire, comprendere, far nostra la parola scritta sul libro. Sin da piccoli la nostra esperienza del libro si fissa nello sforzo di comprensione del significato della sua parola. Ed è solo quando assolviamo a questo nostro piccolo dovere che possiamo chiudere il libro, riporlo nella nostra libreria, sui nostri scaffali, accanto ad altri libri chiusi, saldati, imprigionati. Sicché ogni qual volta passeremo di fronte al libro chiuso nella nostra libreria avvertiremo un sentimento di turbamento, un'attrazione o una repulsione, l'urgenza di riprendere il libro e aprirlo di nuovo o, invece, il bisogno di allontanarcene con spavento. A volte, infatti, noi sentiamo di non aver portato a termine fino in fondo la nostra comprensione del libro. Che qualcosa ancora deve essere sciolto del suo enigma di parola. E questo avvertiamo e viviamo come una umiliazione.
Ebbene, io credo che una tale incapacità di ridurre il libro a significato definitivo non debba essere vissuta come una mortificazione ma, semmai, come un impulso verso il mistero del senso della parola del libro. Perché la parola affonda sempre, nel suo significato più fecondo, all'origine del pensiero e del rapporto tra natura e mondo. Così che la congiunzione possibile attraberso la parola poetica acquisisce una funzione più sottile. Essa è il tramite che ci permette di passare dal significato al senso. Con questa parola intendendo non la ricerca di un luogo ultimo ma, semmai, la direzione di un cammino.
Il libro chiuso è dunque tra altri libri chiusi, saldato nella prigione di una libreria. Quella libreria fisica è il nostro cuore. Il libro chiuso è sepolto dentro di noi. Abbandonato. Possiamo paragonarlo all'infanzia perduta, al bambino ripudiato nel fondo della nostra memoria. E mi viene alla mente l'apothesis greca, l'esposizione del bambino, l'abbandono del bambino alla morte. Nella Grecia arcaica questo è a volte il luogo d'inizio di un libro. E penso all'Edipo. Il bambino esposto e abbandonato non è morto. Vive ancora. E dentro di noi il libro chiuso, come l'infanzia che crediamo perduta, non è materia inerte. È ancora capace di sprigionare una energia, di innescare una reazione salutare. Il bambino abbandonato che è in noi, il bambino creduto morto, è la nostra speranza perduta, l'immaginazione offesa, la scintilla mancata.
È a partire dal bambino che abbiamo esposto e abbiamo abbandonato che potremo vivere le epifanie dei fatti più insignificanti. Attraverso la scintilla dell'immaginazione capace di tramutare un semplice dato di fatto in mondo, in visione.
Dobbiamo credere nel bambino abbandonato che è in noi.
Il libro è chiuso perché solo nella sua chiusura può costituirsi di una materia di parole dimenticate, di detriti, una pietraia di parole appartenuta a un registro sotterraneo, a un bagaglio fuori dalla memoria razionale, all'ombra della coscienza, occultato in un qualche angolo riposto. Parole di una memoria dell'ombra, ma non per questo meno sperimentabile. Ed è l'esperienza di questa memoria di libri, di queste aure interrotte che fa il libro chiuso.
Tanta è la fiducia nel libro che è solo nel momento di maggiore debolezza del libro stesso, quella che viene giudicata apparentemente come la sua massima fragilità, quando è chiuso e dimenticato, che il libro agisce contro la nostra volontà e alle spalle della nostra capacità di controllo. Non si tratta di una vendetta del libro, sia detto chiaramente, ma solo di un'affermazione naturale del suo potere povero, indigente. Perché il libro chiuso è un contropotere. Il potere della sua sapienza che non vende e non nasconde. Un potere nascosto costitutivamente, senza calcolo.
E allora la parola del libro chiuso è nell'arco di un ponte che approda a due rive del sé. Tra queste due sponde di fiume gioca incessantemente la sua fortuna. L'arco del ponte suo arco d'orizzonte. Uno spazio stretto tra fiume e foce, tra canali e luce di canneti, e dune e sabbia e vento e sudore. Arco di ponte e di parola tra due lingue, tra due voci. Così che la scrittura, arretramento e sconfinamento possibile, sia occasione da tentare in un luogo e in un tempo che divorano se stessi.
In occasione della XXVI edizione del Premio Lorenzo Montano, il riconoscimento “Opere Scelte” – speciale e fuori concorso – è destinato dalla Giuria del Premio a Vincenzo Vitiello, per aver orientato il pensiero oltre i canoni acquisiti e i sistemi già dati, al fine di cogliere una parola rivelatrice – filosofica e insieme poetica – in grado di registrare i mutamenti che accadono nel sottosuolo della storia. Il premio viene attribuito a Vitiello proprio per aver esplorato la natura di tali sommovimenti, i quali, prima di apparire alla superficie della coscienza, si annunciano attraverso segni la cui interpretazione è sempre difficile e rischiosa, avendo essi a che fare con la verità dell’essere. Con tali motivazioni, grazie alla decisiva partecipazione della Regione Veneto, viene riconosciuta a Vitiello la pubblicazione di una raccolta di riflessioni selezionate tra quelle che più compiutamente danno conto del suo lavoro, ovvero della necessità di individuare nell’essere il luogo essenziale in cui il nostro destino si decide. L’opera ha per titolo Una filosofia errante e viene edita nella collana “Itinera” di Anterem Edizioni. È introdotta da un intervento di uno dei più significativi filosofi italiani, Carlo Sini, Accademico dei Lincei.
"Acquisizione" è come un breve manuale per l’uso: ci sono istruzioni pratiche e considerazioni dotte per affrontare l’onda delle parole. Per esempio la parola acqua. Per “esercitarsi fino all’acqua” . Ma quale acqua? Un’acqua forte di tutti i suoi possibili significati semantici, capace di liberare dagli argini tutte le sue form(ul)e.
In ogni discorso è in agguato una vena di comico. Una bolla di vapore spaesante può formarsi sia nella fraseologia spontanea che nella costruzione di strutture linguistiche colte e codificate.
Manuel Micaletto – Prosa Inedita
acquisizione
magari non tutta, magari solo un bicchiere, che sembra una miseria ma vi sbagliate, un bicchiere è, de facto, un ingrandimento dell’acqua, l’acqua messa a fuoco, un primo piano, un particolare, un’acqua al dettaglio e nel dettaglio.
oggi ad esempio c’era un rubinetto, e non bastava girare, serviva tirare, spingere verso l’alto. l’acqua si creava cioè senza i giri, senza accartocciarsi, ma con uno slancio cervicale, si inarcava, si levava come se non potesse esserci acqua senza un soffitto a custodirla, come se il soffitto fosse per l’acqua un garante, come dio per l’etica, o per meglio dire un nume tutelare. le macchie d’umido.
in tutta onestà, io non so se ciò che ho visto, oggi, immediatamente dopo lo stacco e i giri, è l’acqua, davvero l’acqua, o se invece è un bacino, la stanza premuta in una conca, una lordosi del piatto oftalmico, un accerchiamento olografico, una saturazione di ciascuna cosa ma come dall’interno, un embolo o ancora il sonno, che è una bolla e non si smentisce.
sta di fatto che: l’acqua non si può vedere, ma solo avvistare (e avvitare, nel più fortunato
dei casi: pensiamo proprio ai rubinetti) e a maggior ragione oggi, che ciascuna america è stata scoperta e nessuno grida più “terra”.
questa non è solo l’acqua di oggi, ma un primo modo di estrarre l’acqua, che diremo “parabolico” e che sprigiona quasi un’acqua-vapore, che si sviluppa in altezza, un’acqua-boa (sia serpente sia galleggiante) e conclusa in se stessa, perfino autoreferenziale, autarchica, indipendente, un’isola; un’acqua-uovo ermetica, a tenuta stagna, liscia e impermeabile, capace di almanaccare il mondo tubo per tubo, uno stato sovrano, un potere centrale e un taglio dei ponti, la ragione intima di ogni embargo, un’acqua gerarchizzante e giurista e giurata, come un nemico o una promessa, costitutiva
infine, quel che più importa, integra.
coi lavabi e le manopole, comunque, non abbiamo ancora chiuso. (all’acqua vera e propria, invece, arriveremo solo in un secondo momento). abbiamo trattato l’acqua verticale, l’acqua analoga alle travi, etc. va detto che a volte succede il contrario, succede che uno debba spingere verso il basso, esercitare pressione (un po’ come accade per il gas), esercitarsi fino all’acqua.
primo avvertimento: per l’acqua occorre allen(t)amento, non si può arrivare all’acqua impreparati, poiché l’acqua è liquida ma inflessibile e ci ripudia. non c’è un secondo avvertimento.
questo è un secondo modo dell’acqua, ed è una sorta di pantano, è una condotta più goffa, impacciata, pesante e in qualche modo enfatica; è un’acqua che esaspera la sua uniformità, la tende e la dilata finché non diviene lentezza.
(un capitolo a parte, invece, meriterebbero i materassi ad acqua, che usano cioè l'acqua come carburante per innescare il sonno, e a dire il vero non si capisce dove finisce l'acqua e dove comincia il sonno, sicché il rischio è quello di dormire l'acqua, e non riesco proprio a figurarmi, a quel punto, cosa potrebbe succedere. forse il mare. di dirac).
dicevamo che non è possibile comprendere l’acqua, che l’acqua è insolubile, e non parlavamo a sproposito: nessuna abduzione, ma piuttosto abluzione; bisogna essere sommozzatori, non logici. mi vengono in mente, anche, le acque gemelle di putnam. una “semantica dei mondi possibili” fradicia – ma forse queste acque sono fin troppo estrinseche, forse qui c’entra davvero il riferimento sganciato dalla comprensione – era per non citare proprio talete.
veniamo all’anatomia dell’acqua. l’acqua è quella pellicola, quel diaframma che si frappone tra noi e il mondo e che non è il freddo, o almeno non del tutto. questa si può dire, a ragione, una buona approssimazione dell’acqua.
(la differenza principale che sussiste tra acqua e freddo, e che ci permette di distinguerli con discreta precisione, sta nell’evidenza che l’acqua può essere “aperta”, “chiusa”, “messa”, “controllata”, “buttata”, “tirata” – a me è capitato addirittura di “stringerla”, magari al petto – mentre niente di tutto questo può essere fatto al freddo. abbiamo dunque sull’acqua un margine di intervento, di partecipazione che col freddo ci è invece precluso).
vogliamo essere più scrupolosi. vogliamo andare a fondo, vogliamo affondare. chi tra di voi si è mai imbattuto nell’acqua allo stato “selvatico”, se così si può dire; chi ha sbirciato l’acqua anche una sola volta, anche di sfuggita, sa che ai lati è squamata, che normalmente ha la forma di una spirale e quando e dove finisce si nota distintamente una coda.
se invece l’acqua è bloccata, allora si compatta, si infittisce, sigilla le scaglie, si contrae, come in preda a un crampo, si carica a molla e sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro.
a lasciarci sbigottiti non è mai il contenitore ma il contenimento, questo accumulo impensabile di (es)tensione che si eterna, oserei dire si tramanda, e non si scompone davanti a nulla, neppure ai nostri pigiami a righe, ai nostri spazzolini sciupati, ai tubetti colgate, e viene da pensare quasi a una dignità dell’acqua, a un portamento, un contegno. (l’acqua, almeno quella nelle bottiglie, ha un’etichetta vera e propria, fateci caso).
non è in discussione.
se è vero che noi possiamo passare sopra all’acqua, possiamo attraversarla o sorvolarla, occuparcene o ignorarla, è altrettanto certo che l’acqua non passerà sopra a noi, non farà finta di non vedere, e se non laverà (che è altra cosa da “levare”, è più “tirare a lucido”) le nostre colpe, non è detto che voglia graziare anche i nostri capelli.
barare ma fuori dai giochi, muero porque no muero, quello che l’universo sarebbe stato senza il cedimento della creazione.
la cosa peggiore è: quando le acque si rompono, improvvisamente plurali, divise, faziose, quando si scuce la falla e cede l’ordine, il criterio dell’acqua, ed è allora che accadono le cose più terribili.
più precisamente, il bastione, l’avamposto da cui irradia i suoi tentacoli. non ci tocca, neppure ci sfiora: diversamente, ci sovrasta.
non so se credete ai mostri marini, o almeno al calcare, ma sappiate che i tubi servono proprio a questo scopo, a proseguire la morte come un discorso. a permetterne anche un deflusso, una scappatoia.
controindicazioni: se noi chiamiamo l’acqua, ecco che quella arriva, ma in cambio pretende qualcosa, e non si tratta di una contropartita alchemica, equilibrata, si tratta ormai di un ricatto (non tratta, è un tratto caratteristico, niente trattative) poiché l’acqua è assetata di conquista, è imperialista, tende a occupare tutto lo spazio e nessuno può assicurarci che un giorno non reclamerà proprio il nostro.
niente abissi, però. l’acqua è proprio una forza opposta agli abissi, una tensione del tutto superficiale, l’acqua è anzi sfacciata, è tutta in superficie, sta in alto, più in alto della terra.
abbiamo preso le nostre contromisure, abbiamo argini, grondaie, canali di scolo, questi tentativi laterali di formare fermare l’acqua, di educarla, disciplinarla, di iscriverla nel piano cartesiano, di cavarne una geografia leggibile. non sto dicendo la forza della natura, gli uragani e pompei.
sto dicendo, piuttosto: distrazione, non distruzione. l’acqua sostanzialmente passa, e così noi. non si ferma e non si sofferma, non indaga e non studia. non si muove dal letto e non va neppure agli esami. sempre come noi.
non pensiamo, in questo modo, di aver sciolto o sezionato o illustrato l’acqua (ma giusto un abbozzo, uno schizzo), perché l’acqua è inestricabile. non pensiamo di averla esaurita. ma un sommario, un indice.
perché si potrebbe pensare altrimenti, si potrebbe pensare che io sia un acque-dotto.
Manuel Micaletto nasce in bold il 4 agosto 1990, a Sanremo, e si chiama Manuel Micaletto. E ha 20 anni (quasi tutti consecutivi, peraltro). Sanremo. Non riesce a farsi una ragione dell'acqua. Ama i letti, soprattutto se sono libri. I suoi morti preferiti sono, in ordine sparso: Cioran, Schopenhauer, Kierkegaard, Borges, Leopardi, Benn, Bene, Unamuno, Landolfi, Blanchot. Ma i morti gli piacciono un po' tutti, e fantastica un giorno di adottarne moltissimi e giocare con loro e vederli crescere e iscriverli al college. Questo vale per tutti i morti, tranne che per Wallace. E' felicemente spossato, è magro e anche carino, 3403456789. Ha conseguito la maturità classica e frequenta la facoltà di Lettere Moderne all'università Statale di Milano. Suoi testi sono capitati su “La Mosca di Milano” (sotto lo pseudonimo di Manuel Lotario). È co-fondatore e autore (assieme a Daniele Bellomi) del blog di poesia e scrittura non-narrativa “plan de clivage”. Fa parte dell’ensemble di ricerca letteraria “eexxiitt”. Collabora inoltre, nella veste di editor, alla rivista di letteratura e teatro online “Niederngasse”. È astemio, non si diverte, e nemmeno voi dovreste, a pensarci bene. Giura, inoltre, che non è solito parlare di sé in terza persona. Continua a non capacitarsi dell'acqua.
Si ostina (il nostro eroe, Manuel Micaletto) a intendere la poesia come quell'atto (se ne esiste uno) contrario alle cene di classe, alle gite, all'ERASMUS e più estesamente alla vita. Un crampo del discorso, un rafforzativo dell'organismo-linguaggio, un accento del muscolo (e così via): contr-azione, non tanto nel senso di "azione contraria a", ma in quello di spasmo e di azione allo specchio, rovesciamento dell'azione.
I
*
alcune, nella scuderia delle cose, partono e arrivano
a perdifiato. queste diremo a rotta di collo
o altrimenti a precipizio, a piè sospinto, o ancora
cose di buona lena, e non conoscono
che un vuoto, uno, a vario titolo.
le restanti non offrono
che il cappuccio di medusa,
la cuffia cerata, l'astuccio
di pongo: per questo dette
cose a tenuta stagna, o ancóra
a impacco,
una camomilla.
*
anche l'occhio è una spora,
un impiastro: se non lo credi
frugalo, affettalo con buon giudizio,
fanne una porzione, un pannello, fanne
oggetto di studio accurato, passalo
per il collo di un alambicco,
fanne un ping pong,
un flipper.
II
*
ora invece tutte quante le cose, in punta di piedi,
stirano il muscolo, la macchia fibrosa, al fondo
- e il pistone, a tutto spiano
si mostrano
per come sono: snodabili, convinte alla torsione
questa medesima stanza
non fa resistenza, si imbarca di proposito, rivolge l'elastico,
il sangue in panne - col mento arriva un palmo
avanti alle ginocchia - escogita una fionda, uno stretching.
*
(se il mondo non fosse elastico
si sarebbe accartocciato
in un dolore di stomaco)
(un'altalena di calci)
*
noi, da calotta a calotta, spaccati
lungo la fessura, come uova di cioccolato
custodiamo un caucciu, un nastrino,
un amuleto da niente, da scemi.
III
*
quanta acqua hai totalizzato?
Paolo Fichera, Premio Una poesia inedita 2012: “una parola libera dalla parola”, con una nota di Marco Furia
una parola libera dalla parola
la stele scritta dal nome letto, la fronte
ancora a chiamare la verità sbozzata
l’unica voce che non chiede memoria
che chiama presenti gli ultimi
frammenti, come interne rovine.
fuori l’interno genera le tracce
insorge per riannodare nel filo
la tela, s’addensa il suono
più forte nella sua povertà.
la corda resta. tesa.
“una parola libera dalla parola” è il primo verso della poesia di Paolo Fichera.
Un verso che getta un cono di vivida luce su tutto il breve componimento.
Nessuna parola, in realtà, può essere libera da se stessa e nemmeno da quel complesso sistema chiamato linguaggio, poiché, se così fosse, non sarebbe tale.
Il poeta riesce tuttavia a conferire valore a simile pronuncia: la sua, anziché un’asserzione, è la manifestazione di un desiderio grande, immenso.
La sua libertà non richiama un’assenza, bensì una tensione verso un altro dire, verso una lingua originale non irrigidita in forme poco appaganti, tale da far emergere
“l’unica voce che non chiede memoria
che chiama presenti gli ultimi”.
L’ultimo verso, che a mio avviso si rispecchia nel primo, propone l’immagine di una “corda” “tesa” quale restante, ineliminabile elemento.
La corda, lo sappiamo, è un intreccio di fili tra loro identici, sicché l’eliminazione anche di uno soltanto di essi rende l’insieme più debole: se essa “resta”, ossia permane inalterata, dobbiamo pensare che nessun filo è stato reciso.
Dobbiamo insomma ritenere che il Nostro non nutre desideri di tipo nichilista, che la sua è voglia di qualcosa di più, di meglio.
Per esempio, di una parola affrancata da uno sterile ripetersi, vale a dire di una parola come quella della poesia e, nel caso specifico, proprio della sua, il cui tocco, intenso e raffinato, davvero convince.
Paolo Fichera è nato a Sesto San Giovanni nel 1972. Ha lavorato in editoria. Ha progettato e diretto il quadrimestrale Pagina zero – Letterature di frontiera. Per la poesia: è stato pubblicato in antologie, su siti e riviste nazionali e internazionali e tradotto in inglese, francese, spagnolo, arabo, serbo-croato, albanese. Sue raccolte di versi: Lo speziale (Lieto Colle 2005), Innesti (Quaderni di Cantarena 2007), La strada della cenere (Fara editore 2007), nel respiro (L’arcolaio 2009).
*
in nodi l’alba che non ha frammento
mentre fingo inconoscente il frantume
di ogni opera stipata in orgogli malsani
mentre un’opera ruggisce nel profondo
di un’opera l’acqua è fibra innata a non dire
a non voler restar pensiero che il mio sangue
dona ora al nido che la mano ad artiglio
stringendo crea nello spazio di un foglio
*
a te che ombra aspetti nel solco
ora che il precipizio oscura
ogni resa pensata – a morire spezzati,
come assenza scagliata
nel bosco feroce e calmo e vivo e santo
mi inchino a ogni deserto, mi inchino
all’indivisa armonia delle mani, mani
che raccolgono marciapiedi e specchi
a sera il grido indorava la danza
iniettava in occhi coincidenze
e bestie placate nel flusso di una fame
ordinata dalla pietà di una grazia
*
non è sacro questo sangue
questa scheggia illimitata di trapassi
animati da organi? – mentre il vuoto
pulito dalla sua pelle gonfia
la gola di una pietà che si fa
culla nel relitto di una traccia
Un musicista, che parla delle poesie di Gianni Robusti, che non si considerava poeta, e per farlo deve parlare prima di un’altra persona: Carla Canedi. Questo è quello che succede quando si ha a che fare con la creatività vulcanica e totale.
Carla Canedi, Carlina, è stata:
Tutto inizia nel 2000 quando Carla Canedi mi commissiona “40 minuti di musica erotica” da eseguire all’inaugurazione di una mostra di “Arte Erotica Astratta” organizzata da Gianni Robusti nella sua fornace di Cunardo (Varese).
Per la ricorrenza verdiana del 2001 è la volta de “La Traviata Straviata”, titolo inventato da Gianni Robusti per un evento musicale con voce, pianoforte e due percussionisti, su musiche di Giuseppe Verdi re inventate da Francesco Bellomi.
Infine nel 2002, sempre nello spazio magico delle antiche fornaci di Cunardo, “Klangfarbenmelodie”, 12 brani per clarinetto, chitarra e percussioni, per una proiezione di diapositive con relativa mostra del fotografo Antonio Bandirali.
A tutto questo si mescola indissolubilmente l’odore dell’inseparabile pipa di Gianni, della sua corporatura tozza da scultore del ferro e ceramista, della sua strana risata e del suo sguardo. Con lui sempre Carlina, la più veloce, la più leggera, la più bella.
Un giorno a tavola io dico che bisogna aggredire violentemente la materia se vogliamo riuscire a cavarci qualcosa e Gianni mi risponde: “anche per chiudere la porta a tutto il dolore e il rumore del mondo per mettersi a lavorare il tuo pezzo di carta o di lamiera ci vuole una violenza totale”.
Questo scultore, che in gioventù fu allievo prediletto del grande Lucio Fontana, sapeva cosa voleva e cosa faceva: non barava con se stesso e con nessun altro.
Infine l’ultimo abbraccio nel 2011, sotto la pioggia che mascherava le lacrime perchè tutti sapevamo. Carlina lo ha seguito dopo meno di sei mesi, compagna di vita, di malattia e di morte.
Cosa centra tutto questo con le sue poesie?
Centra perché queste poesie sono state il pane e il metallo che ha riempito le ultime telefonate e le ultime lettere tra me e Carla Canedi “nei mesi della malattia, quando le forze non gli permettevano di affrontare materiali appena più pesanti delle parole”, come lei ha scritto nella prefazione al libro, parlando di Gianni Robusti e forse sapendo già che queste parole sarebbero state giuste, dopo poco, anche per lei stessa.
Il tutto è chiuso nel cristallo della poesia n. 217
Trasgredire la morte
guardandola
senza nostalgie
in versi di vento e di mare
sulle tracce
di confini sfuggenti.
Ora non posso che dire grazie a Maurizio Mingardi per aver impaginato il libro delle poesie, per aver fornito le foto delle opere, per aver condiviso con Gianni Robusti vent’anni di cammino.
Grazie a Gabriella Canedi, per aver autorizzato la pubblicazione di testi e foto.
Per Carla Canedi e Gianni Robusti tutti i miei suoni e tutti i miei silenzi.
Da Le mie poesie, C2M edizioni, 2011
*
Il grande vuoto oltre il viaggio
nello spazio di una polaroid.
Ci si perde in linea d’aria.
*
Una lotta impari con la sorte
per disgrazia ricevuta
sulle ali di una realtà simulata
da un teorico delle ragioni
sul vivere e morire
l’ombra che genera il numero.
*
Punti di fuga
e forza di gravità
del pensiero
per una impossibile rotta.
Quasi un territorio da mappare
in un film digitale.
Nessun destino nelle formule
senza poter dire “ho vissuto”.
*
Percorrere la luce
sulle tracce del diluvio
in una scia di bianco silenzio
parlando per non capirsi
in un infinito rilegato.
*
Solo belle storie
malinconiche
fatte con materiale altrui
quando la poesia
sta con gli sconfitti
e le loro esistenze
impossibili.
*
Trasgredire la morte
guardandola
senza nostalgie
in versi di vento e di mare
sulle tracce
di confini sfuggenti.
*
Zone d’ombra in libertà
di un impressionista delle scene
per riguardarci con sconcerto
in un’immaginifica visione
antagonista del vero.
*
Utopia della parola
in una lettura progettata
con il suo dono nello stile
se il luogo del cuore
è sul confine
del vivere in bianco e nero.
Dalla premessa di Carla Canedi
(...) Le chiamava poesie ma non voleva essere considerato un poeta. Solo un artista che assembla materiale diverso per costruire il suo universo di simboli (...) Parole che cercava e trovava solo in un inserto settimanale (...)