L’esperienza della ricerca continuamente si rinnova. Coltiva una storia delle idee e delle forme, ben sapendo che un pensiero può diventare oggetto d’arte. Procede verso una nozione di verità. Procede tra forma e senso, nella tensione. Tra mimesi e realtà, ascolta una voce nel buio.
La difficoltà di essere poeti risiede anche nel mantenere attivo questo labile ascolto, mentre intorno tutto è stordimento.
Alcune tendenze della poesia italiana contemporanea, con i commenti della redazione di “Anterem”, costituiscono la parte prevalente di questo numero che ospita i finalisti del 25° “Montano”. I contributi di questi autori, espressioni di varie sensibilità e forme, si pongono quale ideale viatico per la prossima edizione del Premio che scade a fine marzo.
Oltre alla poesia, in questo XVI “Carte nel Vento” che ci restituisce la variegata offerta del Premio Lorenzo Montano, figurano prosa, musica, saggistica, critica letteraria, arte visiva.
(immagine di copertina di Kiki Franceschi, Historia)
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la morte che dovevi diventare che dovevi mangiare che dovevi dividere
come odio dal pane ogni gesto del tuo giorno ogni giorno del nostro anno
in tutte le nostre case di sentenza e redenzione dove dovevi ritornare
dove dovevi restare in posizione di artiglio e convalescenza
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la morte che dovevi conservare che dovevi tossire paziente come l’attesa dei laghi
che dovevi pregare in posizione di violenza e comprensione per restituire ai padri
corpi di figlio senza circoncisione senza colpa senza generazione
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la morte che capivi al buio nascosto nella parte impazzita delle leggi che ti scavavi
tra le gambe lungo l’arteria femorale quando mentire era salvare non avevamo altro
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sono storia la nuda madre la sana viscere e lana sono pane
conio bilancia olio sulla pelle dei primi strappata ai testimoni conosciuta
alle croci sconosciuta alla morte addestrata
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sono morte la chiara velocissima e immorale bestia feconda
festa cardinale acrobata superstite destino senza il male
sono il figlio tribunale e la madre altare muscolo visibile del vuoto
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allora sono io il muro io il nascerti io che muoio sono
il tribunale quotidiano in ogni buio in ogni volta che parliamo
al nostro male chiuso ai chiodi addosso al nostro addio supremo
sulle mani piene di calore ottuso che più a nessuno sarà dato
o ricordato negli anni che questa colpa superiore non trattiene
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allora sono io che ho perduto gli occhi che confidavano tutto
fino al sangue o nello scontro quasi incesto che domandavano tutto
senza un gesto o ringraziamento che scrutavano dentro il braccio teso
la forza della terra in tutte le obbedienze
Si apre, la raccolta “Serie del ritorno” di Stefano Massari, con un gesto che fa spazio all’imminente, paventandolo, ma anche con la rinata consapevolezza di sentirsi forti (si è più forti se si deve difendere qualcuno che si ama). La volontà può avere un ruolo fondante e dunque è individuato anche l’orizzonte in cui il gesto si attua: “come sempre è la legge”. Nello spazio diradato della notte, mentre la sua lei gli dorme accanto, il poeta verifica la dislocazione degli oggetti percepiti e conosciuti. Se è presentissima l’influenza di Nietzsche, lo è in maniera del tutto originale. Parole che appaiono più simboli che termini costellano il testo poetico: eterno, danza, inizio, anello, enigma, vendetta, serva s’innestano in un tessuto esistenziale in cui si ha il coraggio di affrontare l’aspetto in ombra delle cose, la sua alterità, la sua macchia: “Tutto il tuo corpo pane bianco e inerme / tutto questo mio sporco a cui acconsenti / nascondiamo tutti un male vivente per sempre / nascondiamo tutti una vita altra e qualunque”, per giungere a una scrittura in cui la sintassi si frange sempre più sotto la spinta del molteplice e dell’inevitabile emergere della contraddizione. Una profondissima umanità che risale come un anelito fomentato dall’amore, e in continuo colloquio con la morte. Naturalmente umanità è inseparabile dagli orrori che essa subisce e compie. Ma è sempre lei, la donna amata, la sua presenza, la sua voce a fare da contraltare, a spronare all’azione. L’amore si colloca come unica forza attiva possibile nella strategia e non solo per resistere, ma per essere diversi: “non sanno quale dio del loro perfetto mondo stiamo finalmente lasciando / non sanno che noi noi due adesso stiamo nascendo”. Una scrittura, dunque, che è analisi, ma anche progetto. Apertura all’evento.
prélude
non ci sono chiavi più o meno adatte
per prima cosa lo spasmo.
di pari passo con il tonfo.
l’uno elettrico l’altro sordo.
poi la retina.
irrimediabilmente circoncisa dalla luce.
la latenza singhiozza
un baluginio di garbugli di voci
la latitanza favorisce l’appropriazione indebita
l’ampio gesto claudicante
dell’attempato Efesto rinnova
i fasti della fucina di Lemno
e le parole si consegnano tronfie
al loro destino di cenere
non c’è spinta che sia definitiva
pas mal
infidi dettati
ancorati al piede
s’avvitano giambici
se mai limbici
a designare diametrie
ricucite
in punto e a capo
lungo la croce
che rinsalda il nodo
e glorifica il peso
profferta a inaudita pena
dilaga pavida e insincera
la storia di chi sa e conosce
l’incoscienza di una lingua
che può risuonare
solo come contrappunto
s’incava
come sabbia sotto l’unghia
la permanenza al senza
che imprime la sua firma
declinandosi nell’evanescenza
e quel neonato silenzio
che si configura
come antenato del senso
voltando le spalle
alle piaghe e ai germogli
muova il suo passo
verso il punto
che sfugge alla presa
non sono io la luce
che rifrange
la radianza del sibilo
nell’antro auricolare
né il mio verbo
potrà mai vibrare
su quella nota estrema
che devasta il costato
è ancora tutto fermo
nello stallo
della forclusa iconoclastia
ma sopra vive
in fondo al senza fondo
se pure dissestata
l’idea di una levata
ribattuta punto a punto
La poesia di Enzo Campi chiede tanto al lettore, principalmente in termini di cooperazione nella costruzione di un senso diffuso, già preesistente nel testo, ma estrapolabile nelle sue diramazioni dalla lettura materiale, anche quella dell’autore/lettore. Ma il tanto che questi versi chiedono viene ripagato nell’accoglimento di una scrittura significativamente straripante, magmatica, ma mai abbandonata a sé o al caos. In quest’opera l’urgenza che preme nello srotolamento del flusso verbale è segnata, fin dall’inizio, da un angolatura del percorso che dalla mente arriva al corpo, con un viaggio di grafia e voce in cui la coscienza della parola si arricchisce fino ad assorbire la sua in-coscienza, estrapolando e interiorizzando ogni sua relazione con l’esterno, con l’altro.
Ed è così che, da una disgregazione/ricomposizione, nasce nell’autore la domanda: “fagocito ergo sum?”, con un evidente traslazione dall’astratto al concreto, dal fuori al dentro, dall’estensità all’intensità, dall’esprimere a un più pertinente imprimere una nebulosa di sensi che andranno sia a implodere e a oscurarsi nel “nulla/di cui siamo costituiti”, sia a esplodere e a irradiarsi dal “neonato silenzio” che è origine di ogni voce che abbia ragione, ricerca e significatività di poesia. Ma in questo essere scrittura sorgiva, non c’è e non ci può essere una presa stabile sul significato, perché questo non ha nulla di pre-scritto o pre-detto, oscillando (come esplicita il titolo dell’opera) tra stasi ed estasi. Così il senso, costantemente teso a disequilibrare un’illusoria simmetria, infrange l’ordine e lascia fluire in un continuo ricominciamento i suoi fonemi, che si formano in lingua e deformano il dire con un dispendio rigenerativo di energie.
Lo sgretolarsi del linguaggio, però, pur inudibile nel “suono fuorviato”, prepara alla conoscenza la cosa (un reale per se stesso inconoscibile) chiamando “l’errante alla parola”. Ma da dove viene e che cos’è questa “erranza” su cui si costituisce il poema di Campi? Certo non è la chiarificazione di un andamento sghembo già stabilito, perché ciò che si produce scrivendo sono configurazioni sintagmatiche che, in figure vive, tendono a un’interpretazione che ne sblocchi la potenzialità avvolgente; e allora ciò che colpisce, nella parola destrutturante ma non distruttiva dell’autore, è quell’oscura illuminazione che il poeta riconosce nel segno di un gesto, che potrà anche essere destinato all’oblio, ma, anche solo per quel poco riverberato da una sillaba, porterà con sé un corposo, materico, primordiale cominciamento ad essere, nutrendosi “di muffa/e di muschio.” E’ dunque nell’umido e nell’ombra che nasce la sua urgenza. E da questi luoghi risale, ancora in suoni appena percepibili, in materia appena palpabile, in “sbavati fonemi” ma già capaci di procurarsi il sostegno di un’immaginazione verbale; di spingere ponendosi all’ascolto di tutti i suoni, per dare vita originaria a una lingua che prova il mutamento dei tragitti che ne fondano la possibilità di un’esistenza. Tragitti che sono gli elementi erranti, coinvolgenti e particolari nelle figurazioni di un soffio d’aria, una zolla di terra, un fluire d’acqua, una vampa di fuoco, che vagano entro il respiro di un corpo scritto.
I. LIMEN
È visione il segno
nel bianco
della pagina campo
e coltura
È e non è
sa e non sa
il suono dell’ombra
pro-logos e impronta
sulla bocca dell’antro
nient’altro
II. «NEL CAOS DELLE COSE»
Dal di dentro all’oltre
tra l’origine
e l’in(de)terminato
è un tumulto il principio
la fine in-finita
l’eterna contesa
«a sfera radiosa»
tendono
le cose prime
il respiro e la carne
nell’ora dell’ignoto
che viene
III. TRA SILENZIO E VOCE
In soglia - di soglia - in soglia
l’Uno e il suo contrario
davanti agli occhi
della Notte
l’«Antinotte»
spalanca il Nome
dell’essere-assenso
al silenzio
duplice eco dell’Altro
altrimenti che della parola
che si fa incanto
e nostalgia
dell’impronunciabile
Con “Dal segno alla parola”, Tiziana Gabrielli presenta una sequenza elegante, nel cui svolgersi gli spazi bianchi paiono esprimere, più che il silenzio, la muta cadenza di un sussistere poetico.
In particolare, alla terza sezione, la poetessa si sofferma sul gioco dei contrari, ossia su come ogni concetto venga definito anche per via del suo opposto, in un contesto che, ben lungi dall’essere considerato sterile, è avvertito quale essenziale àmbito dell’umana esistenza.
Un dubbio viene suscitato dal titolo, perché, se la parola è segno, appare impossibile ipotizzare il passaggio da un’entità a se stessa.
Forse per segno s’intende una traccia a priori confusa, poco chiara?
Non saprei, giacché il segno, proprio in quanto tale, indica qualcosa e, dunque, è già lingua.
Un certo gesto, ad esempio, può benissimo sostituire una certa parola.
Forse s’intende, con atteggiamento incline a una sorta di surrealismo idiomatico, il passaggio da un tratto a un identico se stesso? Oppure a uno eguale e contemporaneamente diverso?
Il persistere del dubbio non m’impedisce di apprezzare una poesia davvero espressiva, in grado d’insinuarsi all’interno della lingua con intelligenza e sensibilità.
E qual è l’esito di ogni buona versificazione se non quello di far emergere, tra le pieghe del linguaggio, vividi tratti capaci di riferirsi in maniera originale all’accidentalità del nostro stesso esistere?
Broggi propone un testo di sole venti righe. Venti righe dense in “un’assoluta assenza di dettagli”.
Eppure questo stesso testo potrebbe prolungarsi all’infinito (quasi), senza diluirsi, replicandosi “in una inquieta situazione di stallo”, un po’ come nelle vicende de La Modification di Michel Butor dove tutto scorre modificandosi impercettibilmente verso “un’ infedeltà parallela” fino all’ultima “goccia di senso”.
a R.K.
Imprevedibili rimbalzi trarranno forza come processi di purificazione planetaria. Sfrenate manipolazioni delle loro attrattive si svolgeranno in assenza. Non esisteranno livelli di riferimento. Rappresentazioni astratte dell’abbondanza inghiottiranno immagini e confessioni. Come se nulla fosse convincente al di fuori di un’assoluta assenza di dettagli.
Un’infedeltà parallela sostituirà la gerarchia con l’accumulo. Ne saranno prova i registri emotivi chiamati in causa. Una trama opportunistica di interessi acquisiti trarrà ispirazione da dati spremuti fino all’ultima goccia di senso. Un parossismo di prosperità prosciugherà e verrà in cambio prosciugato.
Una grande utopia potenziale sarà diventata un congegno organizzativo, un residuo. Forse sarà solo un offensivo scherzo dell’evoluzione. Ampie distese di reticenza monumentale fronteggeranno le attrezzature del nuovo in una inquieta situazione di stallo. La soglia infinita dell’esporre renderà la loro voluta serietà istantaneamente sfuggente. Un destino manifesto soddisferà l’impulso a sbarazzarsi di ogni sorpresa.
Legalità deboli coesisteranno in rapporti flessibili. Le loro insegne saranno sgargianti ma non memorabili. Il dominio di un ordine finito simulato sopravvivrà nella tensione verso la radicale indeterminatezza. Una tautologia senza crepe sarà, dopo tutto, la sua stessa ragion d’essere. La stabilità del clima sarà una sanzione definitiva.
[un dolore solo]
un frattàle di una nota
che organizza il tempo
e in ogni altra dimensione mg
Ascoltare Mariangela Guàtteri che legge Stati di assedio, fa delle parole un’enormità visibile: è fare esperienza dell’enormità di una visione inversamente proporzionale al numero delle parole usate per dirla. Stati di assedio è ideato, secondo precise restituzioni architettoniche a una gigantiasi, nel senso di deformità per eccesso, ben compresa nel singolo dettaglio e riprodotta secondo precisi stadi. In questo lavoro, che l’autrice stessa definisce articolato dalla paura, la costante a stordire del terrore è arginata da un controllo lineare in un assemblaggio plausibile che risolve l’espressione algebrica dell’emotività innescata nel concetto di paura. Nel pixel infinitesimo di un frantume verbale c’è già l’affresco di tutta l’opera. Ma non su di uno schermo. Tutto l’affresco della Guàtteri non si compone per schermate. Giorgio Bonacini nella prefazione infatti avverte della qualità di “disegni sonori” della lettura che si sta intraprendendo, riprendendo due parole che compaiono tra i primi versi del libro, che poi l’autrice, come altre formule, reitererà. Puntuale, la voce della poetessa, impegnata nella lettura dei suoi versi, fa intendere che quel disegno è solo l’ossatura che compare sul foglio. La lettura che Mariangela Guàtteri fa della sua poesia dice come una poesia autenticamente dissennata, elargita da una pianta perfetta, sta nel suo, pronta alla dizione, in una vocalità vicinissima a tre punti dell’essere estremo: il potere, il piacere, il dolore. Dico dissennata come segnando un confine tra il senno e il non senno che induce lo stremo dell’essere alla veggenza. Il testo è anche diviso in queste tre parti, che l’autrice chiama Neurosi. Neurosi I il potere, Neurosi II il piacere, Neurosi III, il dolore. “Le Neurosi sono allora tre segmenti di un solo programma articolato in routine, veri e propri code-verse annidati nel corpo del testo” (Federico Federici). Le Neurosi sono il blackout delle normodotazioni umane. Se il potere è “la detenzione di esistere”, il non potere risiede nella sparizione della volontà a modificare, quindi nella scelta di non avviare “un processo volontario di alterazione”. A ridosso di questo concetto è avvertibile tutta una proliferazione politica che la Guàtteri controverte dalla società ai corpi che la compongono con un linguaggio tecnico tanto più crudo quanto più si rivolge a materia organica. Cessare il solco della propria volontà sull’asse ibrido dell’orizzonte comune, significa accostare per gradi sempre più spaventosi l’azzeramento, in un incedere paritetico al proprio fenomeno “sognare polvere in rivolta che mostra i lati” perché solo “un accesso immediato si trasmette l’esistente” altrimenti perduto nell’alienazione metodica delle scelte. Nel parlare a sé rivolti, può stare il primo grado dell’azzeramento, il vero riconoscimento che avviene trasecolati dai desideri, giunti all’oscuro del tempo e di qualsiasi altra coordinata, nella circostanza immobile di essere uno che è mosso dal fatto plurale di venire assediato “senza mediazione/mi parlo/distillo/la purità muove/e ho gusti di darmi desiderio che infiamma per essere ogni mio tutto”. Venire presi dall’imboscata del dialogo con l’elemento alternativo di se stessi, ossia venire presi da un sé alterno che non subisce l’apoteosi di comparire, è come attraversare un desiderio barbaro e nullificante, che scatena la mossa della paura, è come essere trafitti da una corrente incontrovertibile che conduce alla continua verifica di esistere, enunciando se stessi a partire dal corpo e dal sangue “la paura mi conduce al peccato/col vostro corpo salvatemi/col vostro sangue inebriatemi”. E’ il corpo come presupposto fallace all’esistere che bisogna parossisticamente comprovare. E’ “l’indigenza del divino” che dà al corpo la separazione che lo rende vuoto, e che spinge alla gara iniziatica di un’azione radicale, un’azione che recida di netto la sensazione di non appartenersi. E in tutto il disamore che c’è nel potere questo, “vince chi muore per primo”. Tuttavia la Neurosi II, si apre con la definizione del piacere che per quanto sia non più la “detenzione” ma “l’abbandono di uno stato di esistenza” (che lascia ancora ogni intenzionalità a margine) esso conduce per cedimento ancora più da presso alla zero distanza dal baratro che separa il corpo e il suo latore. L’autrice a questo punto fa sapere che il corpo ha una possibilità nel piacere, cioè quella di giungere “in procinto di essere anima”, e ciò accade in virtù di un’imponderabile “contagio” con l’altro. Dalla Neurosi del piacere scaturiscono tutte le mosse corporee della metafisica animale, ed è un catalogo snocciolato di seguito, trattenuto il respiro, quello che catapulta la cognizione dalla Neurosi del piacere all’alienazione finale. Nella terza Neurosi il dolore confina il libro e l’esistenza. Là dove il potere, o il suo contrario, ha liberato i corpi dall’esistenza codificata e il piacere ne ha reso plausibile direttamente nella carne la sottigliezza inumana, il dolore è un buco “lo stato di ansia collettiva che diserta la memoria”. L’essere, reciso dal ricordo di poter ricordare, è eviscerato, per cui non nutribile. Il dolore è una costrizione che rende inagibili a tutte le dinamiche di scarto, in cui l’azzeramento smette la ricerca nell’inedia definitiva che prelude al distacco. Il dolore inghiottisce da “un pensiero assoluto”, così trascendentale che disgrega corpo e ambito, come sgranando il rosario circolare che non si interrompe malgrado l’interdizione dolorosa pare compiersi nel nulla da cui ancora è vinto, chi muore per primo.
**
si affrettava il passo e sembrava si spostasse,
l’unico spazio che all’uomo è concesso
tutto quel vuoto che manca all’adesso
**
la voce che non sento
è la mia lingua che non dice
le lettere spedite dall’esilio
a un indirizzo sconosciuto
dove il dialogo è uno spasmo
un tempo ormai reciso
**
rumore di ferro, di catene pesanti
si ama solo trascinando
**
fuoco di un presente
improvvisato
calore necessario
alla tua parola che sognava
di succedere
**
anniversario degli oggetti
condannati a esser densi
come noi che sorridiamo
tra le radici e le stelle
attraversando un silenzio
**
a capo
così la pagina non finisce
come spazio bianco
delle paure orizzontali
ma prosegue
amplificandosi
dal basso
**
di stanza in stanza
così divento casa
al plurale immaginando
mattone su mattone
costruire lontananza
con la calce dell’addio
Operare con le parole un diradamento per cogliere qualcosa, non diremmo l’essenziale, né un concreto risultato, piuttosto soltanto un percepire inusitate prospettive, nuove vie: “come meli che la grandine ha scosso / aggrappati alla vita / tentano il frutto”. Solo ciò che si tocca, che si vede, può dare qualche certezza, il linguaggio non dice, “il dialogo è uno spasmo”. Ma quanto possa servire la percezione in quest’afasia è pressoché dichiarato: “dimmi cosa c’è tra questo nulla e me”, dove se si percepisce il nulla è ancora al linguaggio che si chiede di tessere relazioni e dare definizioni. Pratica paradossale, ma non per questo non perseguita. Alessandro Assiri ci sembra un equilibrista che si sia assicurato la caduta per verificare i limiti delle possibilità del linguaggio e la praticabilità della sua assenza. Il suo esercizio linguistico non frantuma la frase, costruisce un dettato semplificato al massimo, che si potrebbe, forse, definire a trama larga. Certo, lo scenario che egli disegna è privativo: “restano solo storie / di seme che cola / senza ventre / per terra” e rari sono i tentativi di rianimare il senso lì dove non ci sono che tracce superstiti. L’immaginazione vi è usata come esca e le parole sono rese oggetti senza ruvidezze: nessun rostro che artigli prossemiche parole. In ogni caso si cercherà di mettere in nuce l’esistenza nuda: “si vive / e forse è troppo ancora / si vive solo / per nutrirsi di sole”. E, nonostante questo, le parole sono sempre in agguato, quasi impossibile tentarne la riduzione, allo stesso modo in cui sembra impossibile ridurre il nostro impeto all’attesa, pur se siamo consapevoli che nulla giungerà. In questo testo, che corteggia il silenzio per rendere presente il nulla, noi constatiamo che Assiri ottiene comunque di circoscriverlo.
(poesia)
non si dà
ragione e
misura
col verso il
ritorno
costante
di linee al da
capo del
testo
lo squilibrio
della parola
l’ubriachezza
che anche
stasera
sa già di
doversi bere
in anticipo
questo non
darsi mai
ragione
questo
misurare il
continuo
distacco di
ciò che non
combacia
da ciò che
non sa e non
sa
scrivere
perché non
può viverlo
ostacolo il
testo il suo
corpo
in quanto
tutto assorbe
e separa
Non si situa nel divenire e conseguentemente nella molteplicità inscritta in esso, Ettore Labbate con la sua raccolta poetica “Geografia”, seppure egli ci parli di un “continuare”. Un continuare che non ha un inizio, non ha qualcosa da cui cominciare. Un ricominciamento perpetuo e un ricercare inconcluso con “impossibilità quindi di poter finire”. Tutto appare statico e frammentato, impossibile da stringere persino con lacci. Meno ancora si potrà fare riferimento a significati unitari. Dall’immobilità dello sguardo di Labbate, però, si ottiene una descrizione particolarmente fissa, persistente, ossessiva, in cui la profondità non potrà essere solo una qualità adombrata. Lo sguardo sembra perforare le cose e andare oltre, ove l’oggetto fissato non è più visibile. Nell’astrazione dei segni, così raggiunta, eppure, nessuna geografia, nulla che valga come indicazione di direzione, nessun orientamento sembra possibile. Segni vagheggiano, vanno alla deriva, “nel tracciato / galleggiante / del loro / andarsene / qua e là”. Segni che hanno perso la loro capacità di porgere significati, ma è del tutto evidente che non sentire più i segni della primavera, o avvertire il risveglio della natura come ciò che non rinnova se non la morte, vuol dire tracciare una mappa in cui il soggetto non ha più gli strumenti per valorizzare ciò che vive. Il nuovo allora non potrà rigenerarsi insieme alla terra, la quale morirà con noi. Una cartografia finisce comunque col tracciarsi ed è di quelle costrittive, che non ammettono nemmeno di smarrirsi in essa: “non può più / seguire alcun / ordine o / regola // in lui e per / lui tutto si / spreca è / sprecato”. Ove solo l’ascolto della musica pare alleggerire l’esistere. Non a caso, una forma non linguistica.
ritratto
se esce dall’ombra o entra nell’ombra
a rischiarare un tempo oscuro della conoscenza
come accade per chi guarda
la costruzione di un volto che non è mai definitivo
è paesaggio sublimato devastato dominato dal tempo
la mappa e il magma di se stesso
come avviene in un quadro dalle moltissime stesure
e si procede per tentativi e si va alla ricerca
di una lettura più attenta che arriverà alla tua icona
ma la nostalgia per quel momentogià determinato
fissa ciò che sei in un lampo dove potersi riconoscere
riconoscere il senso della propria presenza
in una storia che non riesci più ad afferrare
se non per fotogrammi che non puoi ripercorrere
ed è come se l’attendessi ed è soltanto un pretesto
i problemi sono di forma di luce d’armonia
**
Se viole un giorno seminasti per me,
mio giardiniere, ai piedi del tuo
tronco tardivo io ne raccolgo
le silenziose braci.
**
che eri la casa dell’ombra
che eri qualcosa di oscuro invisibile
che continua a fiorire a finire
che un ascolto placato dentro questo silenzio
che questo pretendere senso
che ogni oggetto che muovi in un senso lo cambia
che parliamo di cose normali vivendo
se un sudore mi lecca le dita
se ostinata come scintilla
mi accade vivendo
**
La grazia è in relazione all’amore?
E guarire è una domanda a una domanda?
Guarire è lacerare, irrompere,
interrompere la strada inevitabile,
paradosso di libertà fra ruderi
Sperduti e circondati da rovine.
Salvàti.
**
Meta, metà di me?
Dimidiata sostanza,
meta adocchiata,
sostanza di me medesima,
prospettiva spezzata:
metà per volta eletta, meta
insospettata: sostare, forse.
Di quando in quando.
Sappiamo che la poesia, anche quando deve parlare d’altro, ha sempre in sé la capacità di pensare al suo essere. Ed è proprio questa doppia valenza che permette di trasportare la propria lingua in una scrittura e una lettura che diffonde nel testo i segnali di significazione autonoma; segnali che evidenziano una poetica, o almeno una sua interpretazione. Ebbene, Loredana Magazzeni, mostra in queste poesie con quali sentimenti di forma, forza e leggerezza, e senza forzature programmatiche, sia possibile risignificare un mondo. Il luogo, cioè, in cui i versi vivono e a cui danno contemporaneamente vita, con un lavoro di costruzione e crescita che è simile a quello di un “muratore” o un “giardiniere” della parola.
Ma, con ancora più valore e precisione, il fare poetico viene definito, attraverso la metafora del “cucire”, una riparazione: perché questo è “il gesto più sapiente”. Riparare attraverso la poesia che intreccia i fili e ridà nuova forma e nuova vita. E in questo senso si comprende, leggendo i testi, quanto l’autrice sia consapevole che una forma di vita porta sempre con sé una configurazione di sensi: una diramazione che interiorizza il suo dire, ma che non si dà mai nello stesso modo, mai con la stessa certezza. Perché un movimento, un punto di vista, una percezione emotiva o intellettiva, in condizioni diverse (per tempi, stati d’animo, letture) cambiano inevitabilmente le modalità generative con cui la significazione si fa senso.
Ma in questi testi c’è di più, c’è un’attenzione posta sul fatto che in poesia, pur essendo questa materia di parole, la parola perfetta è impossibile e la sua ricerca, quando diventa una sforzo incessante, può portare a qualcosa che “ammala i nostri sguardi di afasia”. Ecco allora perché il concetto di “riparazione” (che S. Haeney ha elaborato in suo importante saggio), legato alla concretezza della lingua, fa sì che questa poesia anziché distruggere per ricostruire, si adoperi per ricomporre pezzi (di memoria, di corpo, di pensiero) già dati e portarli a nuova vita. Il risultato è vera forza immaginativa, che può anche curare il dolore o la difficoltà di comprensione delle ferite esistenziali che si aprono nelle nuove ricerche di conoscenza che la poesia pensa e vuole attuare.
E dentro a questo percorso si situa anche la necessità di dare visione a ciò che cerca di “rischiarare un tempo oscuro”; nonostante l’andamento non sia lineare, ma ondulato, ricorsivo, sinuoso e l’ immagine possa chiudersi in ombra o deflagrare in fotogrammi inafferrabili. Qui il senso è il modo del sentire: sostanziale alla parola poetica, in ciò che ci unisce o ci divide, ma senza una fine definitiva, nello spazio “che ci separa dal dolore dei morti”. Dove non sai se il dolore è quello provato dai vivi per i morti o dai morti per se stessi, in una oscillazione emotiva e concettuale che soltanto la scrittura può mettere in atto. Anche solo in modo provvisorio o instabile, ma sempre nella concretezza di una riparazione possibile per la “fragilità del tempo” che ci scuote e la “fragilità del bene” che si spezza.
I
Trasmigrano i corpi, così l’amore
che mi sposta e muove
ali che si toccano sfilano appena
il collo gli occhi, più leggeri
nel sorriso. Sogno:
anse di nomi spinti da sonno cieco e
cani che riaprono l’alba
lui, lei che ricambiano
il cerchio del piacere,
dopo i cimiteri delle macchine là fuori,
e trattengono il cuore, lo smarrito
se balbetta il tuo nome,
o tenerezza.
Terra scoscesa e bretone,
nel verde
che disegna menhir in magnitudine,
parole come calvari in pietra -
Tra i nostri amori è l’acqua dove
una promessa sarà certissima
nel cuore,
colmo e con incerta mano
dai baci incoronata
la t u a voce.
II
Ha fede e ostinazione il mio diletto,
sparge il suo dire a coprifuoco
cerca mappe alle stelle -
per arrivare fino a me, la sera
una promessa, un rilevante sogno
in balbettii leggeri
esse-emme-esse che si sollevano
(deve essere già integro, discreto
lui, se lo capisce).
III
Il mercato è la regola
della circolazione delle merci,
e non dei sensi
che amplificano il regno -
Volessi io tornare al segno dove
l’anima e il corpo si fronteggiano,
si palpano da ciechi
un tesoro ai tuoi piedi io governo,
tu lo porgi
dal libro dell’amore inviti,
voli alto in dolzore
sopra le braccia poiché
il ragno della vita, la mia la tua
rinascano
in nuova c a s a.
Ti amo intanto, piccola
figlia nel bozzolo, mentre ti prende
il gioco della crescita;
ritorno un poco indietro, attenta
scelgo sedermi calma, cerco
la c e n a dell’amore vivo.
Con “Trasmigrano”, Maria Pia Quintavalla presenta un’intensa composizione articolata in tre parti.
Mi pare molto significativa la pronuncia:
“volessi io tornare al segno dove l’anima
e il corpo si fronteggiano”.
L’anima e il corpo, dunque, secondo la poetessa, si fronteggiano in corrispondenza di un segno.
Forse, s’intende, perché sono ambedue segni?
Come si potrebbe, altrimenti, ipotizzare siffatto rapporto?
Non si tratta, si badi, di un quesito ontologico riguardante l’esistenza dell’anima o del dualismo anima – corpo, bensì della consapevolezza dell’importanza dell’elemento linguistico.
Quell’anima e quel corpo possono fronteggiarsi soltanto nell’àmbito in cui, quali vividi paradigmi, esistono, ossia quello dell’umano idioma.
Felice il tocco di Maria Pia: i suoi versi si soffermano, efficaci, su simile importante questione con quell’elegante naturalezza propria di chi è teso a mostrare un sussistere senza pretendere d’esaurirne la spiegazione.
Talvolta, davvero, occorre non proseguire il discorso, poiché certi aspetti, taluni lineamenti, vanno osservati in maniera partecipe senza voler procedere oltre, provando feconda meraviglia di fronte a quell’enigmatico spazio in cui il silenzio non è più, mentre la parola, non ancora compiuta, è cenno, suggerimento, invito a continuare.
La poesia ci aiuta a vivere?
In questo caso, sì.
“che cosa resta di ogni parola sgusciata…”? Si prenda in mano una parola “sgusciata” e si avrà di questa parola la percezione più personale, spogliata dei significati correnti, riportata a un nucleo di identità sospesa fatta di memoria ed esperienza che la dilata. Ma ogni respiro, ogni sguardo, ogni soffio ha il suo inverso. Allora riappare il guscio che soffoca, nasconde, racchiude.
Ecco, dice Silvia Rosa, occorre lasciare la parola giusto a metà del palmo, al limite della sua esplosione o implosione, per donarla o serbarla.
Il limite, finalmente.
Ne sfioro il perimetro, ferendomi sull'orlo arrotato di gelo, io, che al gelo (non) appartengo.
Notte (epifania o della chiarità)
E dopo tutto a domandarmi ancora -muta- se sia stato più stupido giocare lealmente al tavolo (che sapevo) del baro, o aver accettato di partecipare a un gioco non mio (in qualità di giocattolo), nonostante facessi sul serio.
[S c a c c o, a prescindere. E l'impotenza del non (aver) detto]
Mi traccio intorno un confine di filo spinato: se sanguinare è necessario un poco a non perdermi esangue, che sia per impedirmi di superarlo di nuovo, quel limite oltre il quale c'è un baratro, specialmente nero di umiliazione.
Primo giorno
La voragine aperta dell'Assenza ha la forma di un sorriso scheggiato. Si scivola su qualche lacrima, rugiada di un dolore che si schiude ad ogni alba, ma si procede, a piccoli passi. In direzione inversa. Da lontano che sembra accanto, l'eco di voci amiche.
Secondo giorno
Con l'alfabeto della ragione misuro in lungo e in largo la lingua friabile del sentimento -al limite-, uno sguardo vigile sul precipizio, passeggio pensieri e mi interrogo. Come mai sono arrivata fin qui? Con la precisione dei geometri della mente riduco il confine a un grumo di terra, su cui ergo la logica asciutta, il rigore della consapevolezza.
Ho una chiave per liberarmi (?) invisibili catene, la stessa che apre i cancelli oltre il margine segnato d'inchiostro catrame. Nessuna distrazione nell'esercizio di analisi, mi concentro -uno sforzo dal vertice al suolo più sterile- e traccio la rotta dell'inversione.
Terzo giorno
Il vertice della solitudine è un chiodo, che ti fissa la carne al Nulla, è il freddo che abita il "Noi", quando l'Altro si fa trasparente, e scopri che era da sempre il non esserci, insieme. Il vertice della solitudine è uno spillo di luce, che ti svela il risvolto del Niente -Amore v(u)otato a perdere- appuntandosi al lembo più tenero (di te), che ti brucia d'offese.
Il vertice della solitudine è una piuma, che se la stringi abbracci te stesso, ti senti l e g g e r o -sul bordo del burrone indietreggi, nessuna vertigine-.
[Possiedi il tuo vuoto -per intero-, è nella mancanza -sola- che esisti]
Quarto giorno
Il tempo si è dilatato, i minuti respirano a lungo, e io prendo fiato con loro. Ma non è immobile questo restare sospesa nell'incavo spalancato tra secondo e secondo, questo virare lento dal nero alla macchia più accesa di rosso, questo scolorirsi leggero dell'ombra sfiorando la luce, attraversando silenzi che implodono gli occhi -li svuotano-. Attendo seduta sul ciglio (di me stessa) la rabbia. Quell'urlo che ho tenuto segreto, che precipiti al fondo e poi mi ritorni improvviso all'indietro, per sentirlo in un soffio, il verdetto i r r e v o c a b i l e la sentenza : Signori comprendo, ma no, non perdono Nessuno (tranne me stessa).
Quinto giorno
Che cosa resta di ogni parola sgusciata, se al centro il cuore di polpa -il significato- è marcito da tempo, un frammento cubico di una menzogna, un chicco spento bucato di noia, il verme del tradimento? Eppure si dovrebbe credere ancora che il Verbo possa dirsi (l')autentico, che possa coincidere con l'angolo vivo che pulsa annidato tra vertebra e costola, che possa segnare il battito esatto di ogni certezza, che pure nel dubbio si traduce in un interrogativo -qualunque- ma resta incoerente e se stesso. Al confine non vale ascoltare lo sgocciolìo sintetico che spiove tra i denti, l'aderenza di fede tra lettere e Amore: la salvezza dal baratro è in un gesto, in un passo all'inverso.
Che cosa resta di ogni parola sgusciata? Il ricordo della mano che l'ha fatta a pezzi, violandone il senso. Un gesto all'inverso.
Sesto giorno
Dove sono stata prima di affondare il respiro nel muro ovattato dell'orizzonte? Ho confuso la linea smerlata del cielo con una catenina di ruggine, annodata stretta alla carcassa del baratro, e a guardarla senza vederla davvero mi sembrava preziosa, un balocco dorato, con cui vestirmi bambina da sposa. Ma nel fondo scuro più fondo del fondo denso di ombre, ci sono solo catene che rendono schiavi e all'unico all'altare si arriva -annaspando in cunicoli bui d'umiliazione- come un'offerta, da sacrificare. Per Niente.
Settimo giorno
Possibile che di là dal confine non giunga nemmeno una voce, un alito tiepido di scuse? Possibile che ancora, nel lucore del limite che si apre scucito (un'asola) al bottone dell'alba, non si sappia credere a quel che si è visto -uno schizzo terso di vero-? Si attende, si aspetta qualcosa sprofondando nel centro più molle di un giorno (dopo l'altro), fino a sentirne il sapore di fango tra la fessura di labbra, fino a sentirsene parte, colmando la falda segreta che spurga il silenzio in acqua di sale. Aspetto me stessa, io, per smettere attese e mi abbandono, la pelle contro il recinto di ferro in cui pascolo oggi i miei giorni, al canto stonato di fede, al mio credere, credo che tutto quello che è stato -anche- Niente, per me è stato, e mi scuso, mi pento d'avere svenduto qualcosa che valgo, l'unica in cui credere ha senso. L'unica che ho rinnegato.
Un altro giorno
La conta dei giorni è una filastrocca, e io ho otto anni -da sempre- mi sento la stessa, e raccolgo innocente parole dopo parole dopo tutto chiedendo una culla -di quelle che pare ondeggiando che volino lievi- in una virgola, in un punto (di sospensione), la verità delicata parola dopo parola dopo Niente di una carezza perdendomi e invece [...].
Alla frontiera (terra di Nessuno) zolle di rovi, lembi seccati di polvere deserti, io interrogo il limite che mi appartiene e mi puntella lo scheletro di brividi e mi lega e mi tiene, ostaggio dietro grate d'insicurezza. Sto -da sempre- in questo luogo e peso le nuvole, sommo distanze di passi che mi portano dentro me che mi sfuggo, divido i fantasmi in pagliuzze di ombre, che mi lacrimano sguardi di tenerezze (inutili), e cancello con diligenza -in superficie- il fiore selvatico che sembra ogni segno, ogni mia cicatrice.
Un giorno a venire
L'inversione possibile è nello scatto obliquo dell'iride verso l'Azzurro, dal precipizio non si sfugge, il precipizio è il buco che coincide con la mia bocca, col mio ombelico, con la geografia di anfratti scuri che mi connotano - (il) Corpo- dentro fino all'atomo più piccolo di vita sfibrato, fino alla mia stessa origine. Il ghigno del baro fantasma carnefice è quella mia cicatrice, il ricamo di sutura con cui l'ho sottratta alla vista -al (mio) perdono- è la catena, che corre lungo derive -di resa- su cui (mi) sprofondo nel vuoto, nel buio senza appiglio pareti, nero su nero oltre il nero medesimo, dove non c'è niente io nemmeno.
Epilogo -qualsiasi giorno-
Non si va da nessuna parte. Si liberano fogli increspati di nostalgia -aquiloni che (non) volano, nella pozzanghera che cola d'arcobaleno indifferenza-, si fingono aurore improvvise, tramonti rivelati tra quattro punti -cardinali-, suggello di fine capitolo (chiuso per aprirne un altro uguale), si volta l'angolo e si ritorna a prima, si indugia troppo tra le parole -divaricandole- con le dita affondate nel Senso, a godere poi di che cosa? Di quel Niente che è (stato).
Aspetto me stessa, e spero che arrivi -al limite- d'io con la (mia) mano tesa: un'offerta di tregua, il pane caldo del perdono, uno spicchio di Cielo che non frani la Terra.
[-Stimmate- sulla linea interrotta della vita, a metà del mio palmo, il solco che resta].
**
Lontananza che allontana.
Notte dentro la notte.
Danzano le ombre
al canto dell’Assenza
e già nel buio
si perdono i confini,
i nostri nomi incerti.
E non c’è più
non è più qui
il corpo ignoto
del mondo.
**
I tuoi occhi adesso.
E quanti anni nel corpo
quante domande
per dire noi
per dire senza.
I giardini nella piazza
e una promessa.
Un viso, un’ombra.
Il tuo nome una volta.
**
Scrittura d’ombra
e d’esilio,
capovolta aurora
di pagine perse.
Dov’è il vento
che chiama
le labbra,
il raggio bianco
che scuote
la terra?
Dov’è la voce
perduta
del sasso,
l’eco ammutolita
del cielo?
Tutto
si cancella
dove tutto
perdura.
Una frequentazione della filosofia che divenga combustile nella fornace della poesia è esperienza usuale, ove però di volta in volta, per singolo caso, è importante verificare il lavoro sulla parola e sulla sintassi e in ultima analisi il portato di tale investigazione. Ci pare che il lavoro di Mauro Germani, testimoniato dalla sua silloge “ Terra Estrema”, effettuando un prelievo terminologico dal contesto filosofico innanzitutto semplifichi al massimo la presenza del tessuto sintattico, quasi giungendo a un dettato elementare: “E’ questo solo / lo scandalo della carne, / l’enigma di ogni nome, / il pianto segreto / delle mie parole..”. In tale semplificazione, giocoforza acquistano maggior rilievo i termini presenti, monadi indeclinabili e non relazionabili, sui quali Germani sceglie di non attuare nemmeno una teatralizzazione dialettica. ”Non sappiamo il corpo / l’assoluta verità del sangue”: scissi i legami tra parole, esse paiono rilucere in un vuoto simulacro. In fondo, esse sono state private anche del loro bagaglio storico. Sembra che siano vicinissime a perdere ogni senso: “E non c’è più / non è più qui / il corpo ignoto / del mondo”. Che tale svuotamento sia progetto strenuamente perseguito ci viene dichiarato da Germani stesso: “Il passo che non ha sentiero /e scende nel cuore dell’ombra / solo / lungo il crinale del tempo. / Dov’è mai adesso? / Dove mai non c’è?”. L’auspicata presentificazione dell’essere forse non avverrà, non è che una speranza o una proiezione, e allora sarà “qualcosa come un respiro, / il nome perduto del mondo”. Di tutta evidenza che l’essere non appartiene che al regno delle parole per Germani: “E quanti anni nel corpo / quante domande /per dire noi /per dire senza”. Ma è appunto solo nella scrittura che si può tentare: “Scrivere sempre / il già / cancellato”.
**
E tuttavia
per uscire dal mondo dovremo
intuire
decifrare
tradurre
l’angolo minimo di tempo dove
il pane è una luce verticale.
Si passerà da una porta assente
che si può immaginare dietro
le scale, in basso, all’opposto
del rosso che occupa le ore
per tutto il giorno. Il vecchio guardiano
conosce ogni passo, i lati insidiosi
eppure ripete
“Entrate entrate, poi
scendete sette scalini a destra.
Il luogo della fenice è un triangolo
vi accorgerete subito dove
conviene arrivare dove
non si dovrà andare”.
Si entra nel triangolo
e non si pensa a come uscire
se mai si dovesse tornare, o a fuggire
anche se nessuno dice da che cosa
ma è certo che accadrà
in un’altra parte del giorno.
**
Il vento si muove e raggiunge i confini.
Entrando nel triangolo domanderai
se la vita è ancora viva.
Uscendo dietro la fenice chiederai
della sorte del deserto. E della sabbia,
che come rondine illusa
fruga tra le rose di sasso
la verità nascosta agli uomini.
Si direbbe che non esista una realtà autonoma, per Massimo Scrignòli nel suo racconto in versi “Vista sull’Angelo”, ma essa sia già un tessuto di segni e simboli da decifrare, attraverso cui orientarsi per effettuare passaggi, per percorrere comunque il labirinto. Non è via iniziatica, percorso formativo, non esiste gradualità verso la conoscenza. Vivere consiste in questo attraversamento in cui i segni sono falene, lucciole da cui lasciarsi affascinare per quel che valgono: “Se il sentiero del ritorno avrà un pensiero / sarà un’iscrizione vuota / dove forse è meglio perdersi / o inseguire il mondo quando si sposta / spinto da un vento che non riconosco”. Pertanto, nel riconoscere quanti più segnali si delinea la riuscita della partecipazione al gioco. La possibilità di arricchirlo senza sosta, di renderlo vieppiù rifrangente e ricco, poiché in questa lievitazione, in questa moltiplicazione risiede il piacere e la pienezza dell’esserci. Ma non è soltanto pacificata aderenza all’esistente. E’ anche strategia di sopravvivenza: “E come vedi / la verità si è fermata nel grano, là / tra la spiga e la macina risveglia / l’ansia di un destino infedele // trasumanar che rapisce la vista // e consola”. Alla prova è messa inoltre la capacità di interpretare correttamente. Poiché i segni servono anche a questo: a non ripetere gli errori della storia. Nostro dovere è evitare un’altra Auschwitz. Diviene importante cogliere le differenze, affinché si possa rilevare “l’imprevisto lascito di presenze”. E’ il lavoro della libertà, affinché sulla messe di segni si effettui la cernita, “utile a stanare dal fondo della vita / il canto d’amore di un ‘anguilla // o l’impazienza // del destino”. E che sia relazione pacificata tra lingua e oggetto o ardente lotta tra essi, la lingua resta enigma irrinunciabile .
dalla sezione Serpe di Laconia
(introibo)
Risibili alle passioni del rapace
falcidiato volto,
la presa pur convinta della mano
e il mesto freddo della pietra
lavica, come di profilo
calcidese o messenio, mercatante,
profugo da un mare,
per cui levare l’acqua all’occasione
d’umiliato controllo, debito
all’occhio ionico, tra brume.
(prospettiva dell’ascesa)
Dentro, nel corpo di, nel calco di
calcaree divinità sostantive,
degne del lampo della sparizione,
si decide ora un vento,
la sua seta d’ascesa
da un arco di vicolo a tribona.
Questo, ovvero l’altro, sopravvissuto
monte dei dolori, il postumo
suo ciottolo si slega – era scalone –
all’aria prospettiva.
Dall’idea delle mappe qui si compie
la ventura inclinata dei muri
nella dimenticanza delle luci,
un’onda di diniego dai terrazzi,
specchi in frantumi tra fontane erose.
(la furia refurtiva)
La furia refurtiva
archetipo discorre, lo riscuote
muto bronzo dell’epoca,
tonante, tinnante, sempre
per manufatte lastricate
strade in pietra d’avi,
nell’infanzia del morente
si consolida, l’orante.
dalla sezione terra picta
I
S’accosta, da un’urgenza
di luce, nell’oscuro strappo
della volta, nel tremante
saluto della mano,
sul dorso un rossore
di nerbo, ustione, nutrimento.
V
Profili disegnati dalla marea –
è la visione delle ginestre in alto.
il vento dall’interno accatasta
barche e nuova smania
per la fuga. Al disfarsi dell’aria
un varco nel seccume
del greto ieri navigato.
Se è vero che una fra le caratteristiche proprie della lingua poetica è la destrutturazione e una diversa articolazione del normale sistema di significazione linguistica – nelle diverse forse sintattiche o semantiche – qui, nella scrittura di Enrico De Lea, si manifesta anche un altro operare: la sua scrittura sottopone il linguaggio a una concentrazione tale da non poter più dividere, nel suo andamento, la lettera dalla figurazione. La parola condensa al suo interno una lingua che aderisce in modo indissolubile alla cosa stessa di cui fa esperienza. Ci troviamo nel vivo e nel fondo della lingua dis-ordinaria delle cose, “dentro la “gola/ del cielo minerale”, dove il senso si prosciuga, smagrisce e quasi pietrifica. Ma questo non significa un impoverimento o una perdita del significato, bensì una sua riattivazione, a partire da un corpo essenziale, in direzioni indeterminate. Alcune sfuggenti, altre misteriose e oscure, ma tutte potenzialmente capaci di sprigionare il loro carico di sostanza concreta.
Questi testi sembrano non regalare nulla di già dato, di già conosciuto, sembrano scolpiti in se stessi e tesi a rappresentarsi per sé in ciò che hanno inglobato di esterno. In realtà è proprio in questo rapporto totale con l’esterno, che si manifesta il dovere e il desiderio (per chi alla poesia dedica il proprio pensiero) di apertura. Il lettore è obbligato a spaccare la scorza che ne ricopre la voce. E, paradossalmente, questo obbligo è un regalo, perché guardando dentro lo squarcio si trovano i semi di una passione di poesia. E così De Lea mette in atto la costituzione di una crescita continua “verso l’alto”, alla ricerca di un “rifugio/con percezioni d’altro”.
Ciò vuol dire che qui la parola non ripiega mai sull’io dell’autore; è come se si facesse da sé, come se ogni testo fosse già inciso in autonomia. Lo stesso titolo “La furia refurtiva” vive in un’ambiguità semantica in cui non si sa se ciò sia materia di furioso furto o oggetto di furia derubata. Il senso non propende né da una parte né dall’altra, e sembra quasi che l’autore non partecipi della sua scrittura, ma semplicemente mostrando ciò che è scritto. Infatti nella poesia eponima tutto si svolge “per manufatte lastricate/strade”. Ma in fondo a questa forma dura si muovono esistenze che provano a dire, a smuovere l’ammasso che li stringe, provano con le uniche armi possibili per la poesia: il suono della voce e il fruscio della scrittura. Ma ci vuole anche umiltà, consapevoli che spesso la lotta si fa con “derelitti fonemi”, strappando un pezzo alla volta nell’oscurità, balbettando, incespicando, ma sempre scrivendo, anche solo un poco, anche solo un niente.
De Lea, con la sua metafora concreta, ci restituisce un reale di purezza: senza fronzoli, senza ingenua innocenza, un reale tutto dentro le frasi come grumi calcarei, dove il formarsi di una crepa è una ferita all’umano pensiero di ogni tempo. E’ così, allora, che il sentimento che pervade questa raccolta di versi diventa qualcosa che può sgretolarsi come terra secca, o bruciare con uno sfrigolio continuo. Ma non c’è scelta, perché se gratti il “gelo di verità” che ricopre ciò che vediamo, ne risulta solo una “schiuma per le dita”, o soltanto “polvere senza peso”.
Persefone esce dal Tartaro per reiterare l’annuale ritorno sulla terra. Demetra l’attende. Ade l’insegue. Sfinita dall’eterna divisione tra il desiderio di un uomo che la trattiene nel mondo delle ombre e una madre (doppio di sé) che la reclama alla vita, per far maturare i campi d’orzo, Persefone dimentica il suo compito. Il suo ventre nel mondo delle ombre rimane sterile, mentre quello della madre, doppio di sé, partorisce ogni anno, grazie a lei. Ella allora, prende coscienza del suo corpo sterile eppure fecondatore, del desiderio che la minaccia senza darle piacere. Il suo nome le dà senso e coraggio. Lei è pharo-phonos “colei che porta la distruzione”, niente più di questo. Il corpo-donna si ribella al mito e conquista uno spazio, una “no man’s land” tra la vita e la morte.
non esiste una vera posizione del piacere
il fiato sul collo è il mio
le mani sul ventre sono le mie
le dita nel mio utero cercano con misura
una piega tra la pelle rugosa
dove poter ancora resistere
ho dimenticato i semi di melagrana e
non ricordo più qual è il mio compito
quanta luce arde il sole
io cammino non ho memoria dei passi della fuga
il cemento ha distratto chi mi insegue
non comprendo altro ritorno che non sia demolizione
la dimora non emette suono
sono un mattino di fine giugno
perché mi chiamate sera d’autunno?
mia madre che ho generato
mi aiuta a partorire in
questa lunga giornata estiva
stesa nel campo d’orzo
sotto un sole di ferro arrugginito
ma non vedo uscire nulla dal mio utero
solo liquido amniotico che lei
asperge sul campo e una
placenta livida e maleodorante che lei
dà in pasto agli animali fermi sul
margine del bosco di pioppi bianchi
dov’è il mio frutto? il partorito?
nell’utero solo le mie dita
io sono ancora un mattino di fine giugno e tu
da me generata che mi chiami figlia
parli dell’autunno e del ritorno
mi dici che lì sotto questa terra che
stai fecondando con il mio ventre
lì sotto c’è la dimora
la mia dimora
ma il demolito è l’unica dimora del ritorno e io
ho dimenticato i semi di melagrana
chi mi insegue è lì con il viso
rivolto verso l’alto distratto dai lunghi
pilastri di cemento armato
i suoi occhi soffrono perché non conoscono la
possibilità della luce e non
sono allenati alla velocità dello
spazio verticale
con le mani come tettoia spera di trovare riparo
ma lucide lastre nere continuano a
scorrere sulla sua retina
il mio fiato sul suo collo gli dico che
il demolito è l’unica dimora del ritorno
le mie mani sul suo addome disperdo
lo sperma sulle mute macerie
con il ventre vuoto torno nel
campo d’orzo da mia madre
da me generata
trascorro le lunghe giornate estive
distesa tra secchi arbusti di paglia
l’orzo non è più maturato
gli animali se ne sono andati
in cerca di cibo altrove
l’estate è permanente e il sole
arrugginisce inutilmente
mia madre da me generata agonizza
chi mi insegue ha purificato la retina
dalle lunghe lastre nere e
trascorre il suo tempo
ad inseguire lo spazio in verticale
io ho dimenticato qual è il mio compito
Con “il demolito è l’unica dimora del ritorno”, Sofia Demetrula Rosati presenta una poesia la cui assidua cadenza allude a un quid in cui sembra, alla fine, precipitare:
“io ho dimenticato qual è il mio compito”.
Dico “precipitare” perché, a mio avviso, proprio di questo si tratta: le pronunce poetiche, ampie e precise, ricche di riferimenti alla maternità e, in generale, alla fecondità, compiono articolate volute per concludersi, in maniera repentina, con la suddetta dichiarazione.
Dichiarazione inattesa, poiché il corso dello sviluppo linguistico pareva tendere al raggiungimento di maggiore (responsabile) coscienza, anche se il verso che dà titolo al componimento risulta, senza dubbio, inquietante.
Bene, credo proprio che in questa presenza simultanea di dati costruttivi e di profonde inquietudini consista il nucleo di una poesia che intende mostrare, con coraggio, non concordanti aspetti.
Per riuscire a superare un doloroso contrasto occorre prima riconoscerlo in tutta la sua angosciante pienezza, con sincerità, senza riserve: appare questo il messaggio di una poetessa troppo coinvolta nell’esistenza per negare ogni possibilità di salvezza.
Salvezza nemmeno eccessivamente implicita in immagini certamente non usuali, per nulla conformi ai quotidiani canoni, in grado di porre in essere uno spaesamento non sterile, non fine a se stesso, tale da indurre a riflettere.
Immagini come
“mia madre che ho generato
mi aiuta a partorire in
questa lunga giornata estiva”.
Ecco da Silvia Ferrari Lilienau un’ analisi delle forme artistiche del contemporaneo che mette il “fruitore” sempre più al centro della “produzione” e lo porta ad essere, in parallelo, anche critico di un’espressività che si presume “la coda del surrealismo”.
Ma non si pensi ad un Bréton invecchiato intento a rileggere ingialliti cadavres exquis, piuttosto a tipi alla Tzara e alla Duchamp che sfidano il caso via web in una mescolanza di reale e virtuale teso a mantenere “qualche dubbio percettivo”.
…a meno che non ci si distacchi dalle parole, dai tableaux e finanche dalla terra fino a credere nel vuoto, come l’insuperato Philippe Petit, surreale nel suo funambolismo vero (lui sì che prende per la coda - per la corda- l’arte).
Si provi a pensare all’arte tra l’inizio del Novecento e oggi come a una bilancia, i cui piatti in origine contrapposti tendano a una posizione di equilibrio solo temporaneo. Si immagini che sul piatto più alto sia collocato un generico concetto di arte, sul più basso un’idea altrettanto generica di vita.
Nell’osservare il mondo per riprodurlo, prima del Novecento l’arte si è sempre tenuta a debita distanza, come per meglio mettere a fuoco l’oggetto del suo desiderio. I confini dell’una e dell’altra erano stati fin lì piuttosto chiari, benché pare che il virtuosismo pittorico di Zeusi già anticamente avesse insinuato qualche dubbio percettivo.
Sono state le avanguardie storiche a favorire il progressivo livellamento dei bracci della bilancia, specie il Dadaismo, che all’imitazione del vero ne sostituiva l’introduzione diretta entro i margini dell’artificio, confondendo l’uno con l’altro, attribuendo anzi ai campioni prelevati dal quotidiano un coefficiente artistico che eludeva il tramite artigianale, e si connetteva direttamente alla sottigliezza dell’ideazione.
La successiva spinta discendente dell’arte verso la vita è stata determinata dal Pop, e dalla traduzione in arte del quotidiano massificato. Da lì la vita ha preso a fluire nello spazio artistico attraverso filtri sempre più esili, nonostante la strumentazione si sia fatta via via più sofisticata.
Superati gli esiti di partecipazione collettiva degli happening, e di sollecitazione visiva pubblica del graffitismo e della street art, l’identità tra quei concetti di arte e vita inizialmente assunti ha incominciato a circoscriversi entro margini autoreferenziali, per le mutate modalità conoscitive dell’osservatore.
Lo sguardo sovreccitato dalla multimedialità di ampio consumo raramente può ora rallentare per la contemplazione di opere isolate. Abituato allo spostamento rapido sullo schermo, sulla superficie di connessioni orizzontali che non rallentano mai, esso attinge alla pluralità di informazioni per selezionare quanto gli è più consono: il consumatore preleva e riconduce a sé.
La dimestichezza con le diffuse tecnologie ha anzi generato una frequente autonomia di impiego negli utenti, che si sono esercitati a produrre per sé emulando in tono minore le modalità operative degli artisti professionisti, ma appunto esautorandone la lezione, grazie alla presunta auctoritas conferita loro da una perizia tecnica di facile accesso.
I piatti della bilancia, dopo essersi brevemente sfiorati tendono allora al ripristino dello squilibrio iniziale, benché invertito, il concetto di vita proiettato verso l’alto, l’idea di arte diretta verso il basso.
Questo perché l’arte, che già aveva variamente deviato dal manufatto, ha infine deviato anche dall’artista per accomodarsi in grembo al nuovo spettatore, al quale si offre come occasione di autocoscienza. Obiettivo perseguito ispirandosi a certo spontaneismo creativo, che l’ampio successo ha ormai imposto come fenomeno di rilevanza sociologica, se non culturale.
I prodotti amatoriali per lo più assemblano tre ingredienti: immagini riprese con video o fotocamere, musica concepita come colonna sonora del filmato, diffusione dell’elaborato a un pubblico ampio e indistinto, specie tramite siti web. In tal caso, ricetta e applicazioni dipendono interamente dal gusto degli autori, gli spettatori si limitano a obliare o scegliere.
Anche nell’intervento artistico invece fondato si ripropongono due fattori del video dilettantistico: ambientazione e musica, resi imprescindibili dalla familiarità con i non luoghi individuati da Marc Augé, gli spazi anonimi come centri commerciali o aeroporti, in cui si transita per il solo completamento di un’operazione. Qui la variante consiste, però, nella partecipazione imprevedibile di un pubblico attivo.
L’autore – sia egli architetto o artista – concepisce ora la sua realizzazione come una sorta di videogioco animato dai fruitori, la cui coscienza del ruolo e dei modi incide sulla qualità dell’esito, ma senza la quale il risultato apparente permane, purché i fruitori si rendano anche solo istintivamente disponibili agli stimoli offerti.
Lo spettatore è impiegato dall’artista, non in senso didattico ma, con una punta di cinismo, per garantire animazione all’opera. Se la disponibilità è piena, l’opera ingloba lo spettatore nella sua interezza psicofisica, altrimenti riecheggia e conferma – solo variandone il tono – comuni riti quotidiani scanditi da muzak di sottofondo.
Esempio significativo è il centro di design Stilwerk recentemente realizzato da Jean Nouvel sul canale del Danubio, a Vienna: chi si sposta al suo interno può associare i tracciati prestabiliti alla visione di installazioni pensili di Pipilotti Rist, in competizione con il cielo; oppure – immerso nella musica filodiffusa e nei suoi circuiti mentali – limitarsi a salire e scendere le scale mobili, acquistare oggetti d’arredamento, sedere al ristorante. Senza pedine mobili al suo interno, il luogo ricorderebbe un flipper spento; il flipper si anima se le biglie rotolano, diventa un gioco quando esse reagiscono ai colpi variati delle alette.
Il valore dell’opera è dunque duplice: in superficie, esso consiste nell’installazione, effimera o permanente a seconda che si tratti di un allestimento di sapore scenografico o di un’architettura abitabile; a un livello più profondo, non propriamente quantificabile, corrisponde alla ridefinizione dell’orientamento fisico, emotivo e intellettuale degli spettatori implicati.
Sembra si possa ora parlare di un’arte bifocale, che è di assestamento del dato sulla distanza assunta dallo spettatore: impossibile ottenere un risultato univoco, il rischio è anzi l’accumularsi di momenti mai aggregativi, e la legittimazione anche di psicologismi di maniera: la musica che ascolto si coniuga alle immagini che in quel momento affollano la mia mente, ai gesti che compio; sono in una soggettiva cinematografica, conduco un monologo interiore in un set connotato in senso artistico.
Ci staremmo così confrontando con un’appendice postmoderna del Surrealismo, che sostituisce all’inconscio dell’artista il passo interiore del pubblico: l’arte attuale corrisponde forse a un esperimento di reinterpretazione di sé in segmenti di esistenza parallela, conferma e amplificazione dei frammenti autobiografici sparsi nella globalità delle realtà virtuali.
Kiki Franceschi, note di poetica
Una lingua che re-inventa i segni intende accogliere la totalità del mondo, di quel mondo Enciclopedia sognato da Borges che è parte della grande Biblioteca dell’universo i cui libri sono la moltitudine dei mondi.
La vita del cosmo ci appartiene. E’ là che terra e cielo s’incontrano e cifre ritmi alfabeti quadrati magici, qualità delle cose destini degli uomini poteri degli astri dei pianeti degli dei chissà, s’intersecano e s’incontrano.
Ed è allora che sogno che gli abitanti del mondo non sono gli uomini ma le potenze stellari, dominate dal numero perfetto ed è allora che rifletto che il mito della caduta originale, causa della decadenza e del buio contro la luce, significano che il cosmo è ordinato e giusto mentre l’uomo è transeunte, disperato e triste. Ed è’ allora che mi sento un William Blake, eroico e folle e giusto.
La letteratura iconico- linguistica è un genere a sé nell’ambito sia letterario che grafico. E’ un genere che esiste dall’inizio della storia della scrittura che nasce come pittogramma, come traduzione visiva di un pensiero e di un’emozione. E permane anche dopo l’accettazione unanime della convenzione alfabetica. Se si va oltre il confine stretto della letteratura e dell’arte si entra nel campo libero del gioco,della magia e dell’artificio. I carmi figurati ad esempio combinano in una figura voluta le lettere alfabetiche, incrociano parole, gli acrostici e i calligrammi avviluppano le lettere discorrono il percorso diretto della trascrizione ordinaria, solleticano la curiosità, danno una spruzzata di magia alla pagina che li contiene. Voltaire sosteneva che la Scrittura è Pittura della voce.
Acrostici,anagrammi, forme delle lettere dell’alfabeto, palindromi e calligrammi sono assunti anche dalle pratiche magiche, si ritrovano nel pitagorismo, nel neoplatonismo, nella Cabala ebraica, nei tecnopegna medievali, nel Simbolismo di Apollinaire, nel Dadaismo, nel Lettrismo e nell’Inismo. Nelle più recenti correnti artistiche i segni alfabetici riproducono alfabeti fantastici che non rispondono a nessuna lingua naturale, sono pure invenzioni da osservare con gusto, come gli alfabeti di Paul Klee.
Far poesia oggi, dopo le esperienze delle avanguardie storiche di oltre un secolo, dai Simbolisti ai formalisti, ai Futuristi, ai poeti visivi, concreti e sonori significa cambiare il senso delle parole di sempre, come sosteneva G.Apollinaire, fare una rivolta contro la lacrima scritta
Il poeta obbedisce al proprio ritmo personale, usa un verso libero che fa parte di una lunga tradizione poetica: già lo usavano i poeti greci melici e Dryden, e Blake e Milton e prima ancora Chaucer.
Scriveva un grande poeta Dylan Thomas:”La poesia dovrebbe agire dalle parole, dalla sostanza delle parole e dal ritmo delle parole uniti insieme, non verso le parole.” Nella poesia contemporanea, c’è velocità,ci sono immagini, stacchi, dissolvenze, fotogrammi. La descrizione segue il processo del pensiero, è registrazione in atto, rappresentazione simultanea, va al di qua e al di là della parola. Ecco perché Breton arricchiva i testi di collages e rebus, alfabeti antichi e inventati, per lui la poesia era gesto, superscrittura invenzione, astrazione. Tout le reste est letterature aveva scritto Verlaine.
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Al primo passo sei un manichino
senza ombra, un vestito di seta appeso fuori
dei miei occhi di madreperla: amore,
che interminabilmente ripeti te stessa, donna
che nasci dagli angoli della mia bocca, vecchia
stanca che appendi logori vestiti alle corde
del cielo, guarda: al tuo primo passo
la mia lingua è una vecchissima parola.
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Il secondo passo, se nessun occhio
ti avesse visto, tu lo staresti ancora compiendo,
un usignolo beccherebbe indifferente la mollica
dei tuoi seni, avresti le ali
ma di duro diaspro,
accenderesti il fuoco ma senza bruciare,
le mosche si poserebbero sui tuoi occhi
di medusa e io non ti avrei mai amato.
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Il quarto passo lo compi su una delicata
tovaglia di lino: incominciano gli amori
fra le meduse e tu cammini leggera
sugli occhi. Non ti sei ancora
staccata dalla mia ombra e sui calici
fai tintinnare i cucchiai del nostro amore.
C’è un diamante sotto la tua lingua
e tu sei così bella, ma che follia pensarti eterna.
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Al settimo passo giaci distesa nel ventre
di una macchina e i tuoi occhi mi guardano, appesi
fuori della porta. Hai acceso i fanali
per illuminare le meduse a filo dell’acqua: quando
torneranno a riva ci saremo già detti addio
e le nostre spore, ancora una volta, si apriranno.
Nel vortice mnemonico/immaginativo che Guido Caserza innesca sulle pagine del suo “Priscilla”, l’amore non è un pretesto, è la condizione sine qua non dell’esperienza esistenziale. E’ in questo cilindro esplorativo/sperimentale che egli visualizza la vita con i suoi cicli, il rapporto della mente con il corpo, gli stati del proprio essere. Da cui non sono escluse le conoscenze scientifiche e filosofiche chiamate in aiuto non tanto per classificare, quanto per rendere più complessa e aderente al reale la lettura. Amore partecipa ai cicli vitali della natura: “nella mia mano ti cibi di mosche, mentre tra le fiamme / anche oggi un uccello disputa il tuo verme”. L’esperimento riuscirà quante più variabili potranno prendersi in considerazione e viene condotto scrivendo poesie: “e mentre mordevo / la bianca cera del tuo seno tu / piangevi cenere / ed ingannato io ti ingannavo”. Pertanto, falsificazione, incertezza non risolvibile, credenza, fede, dubbio, immaginazione, creazione sono sovrani nel gioco in cui l’amore non è mai riducibile ai due corpi che si uniscono, dove anzi persino i corpi sono eliminabili, dove il gioco può essere giocato anche dalle sole capacità mentali: “Priscilla, ciò che voglio dirti / è che tu non esisti, anche se esiste / il mio amore per te”. Senza, inoltre, lasciare fuori, anzi rappresentandolo con grande forza e veemenza, il sesso, e la rappresentazione virtuale dei corpi, le apparenze o gli inganni, e persino la fine, la quale non giunge a termine finché è pensata. Che sia pura creazione, l’amore, è esemplificato dalla sezione “Cornici scespiriane”, ove esso viene ricreato a partire dalla suggestione di una lettura, in cui, ancora, il tempo non è che un’illazione, una vuota scatola da riempire con la determinazione del sé, restituito dalla donna amata, e che è insieme esperienza dell’amore ed esperienza della scrittura poetica.
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ci vestiamo con i panni degli altri, perduti nelle strade
degli altri. tra case anonime e bianche. a cercare un vincolo
un luogo della terra, un qualcosa da assomigliare
non per qualche muta libertà, per qualche piazza Tienanmen...
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a volte sembriamo voler galleggiare,
muoviamo la testa come pendoli.
altre volte qualcuno trapassa,
qualcun altro nella mischia
getta un salvagente.
non so bene spiegarvi cosa
passa cosa resta...qui, di tanto intanto,
s’incontra un silenzio di luce
o qualcuno che tacitamente annega.
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c’è una tregua segreta tra noi e loro
un parlottare trafelato quasi in punta di lingua,
un raccontarsi fitto di tutte le Guantanamo
che conosciamo e che ci hanno attraversato
come un odore scabroso e lentissimo di paura.
c’è un affidarsi comune a cose mai viste
un confondere le acque, un accartocciarsi
negli spazi degli altri e starsene all’aria
nutrirsi di lingue sconosciute, di terre
selvaggiamente spregiudicate.
siamo forse in cerca
di una colpa taciturna e lontana?
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se vengono le parole
lasciale
cadere nelle mani
purché tutto appaia
dopo il volo
il lampo generato
dopo il calvario
i suoni delle cornamuse
non faremo altro che ascoltare
lo sfregarsi delle divise
i buchi dove guarderemo
saranno i nostri occhi
qui dove si cerca un battesimo
e ritrovarsi
è un domani che volevamo.
“Ci vestiamo con i panni degli altri”, con queste parole inizia la raccolta di Ceccarini e ci accoglie subito, con semplice linearità, l’ambivalenza del soggetto parlante: un io plurale che è parte del poeta e parte di coloro di cui parla. Ma questi sperduti, soggetti a vagare in un mondo non loro, in cerca di un luogo proprio, non sono anche ciò che la poesia ha quasi in obbligo nel suo scavo verso una conoscenza altra? Assistiamo allora a una fusione tra chi dice e ciò che dice, non per un’ingenua e trasfigurata auto-rappresentazione di un sentire esistenziale, ma proprio per la precisa posizione dello sguardo che va ad ancorarsi, con una lingua che respira e dà fiato e con una tensione umana di comprensione etica, alle vite che provano a sopravvivere. Fondamentale è l’immersione nell’ascolto di voci collettive, nella visione di figure spaesate per le quali, talmente tanto è l’abbandono, che diventa improprio anche il tragico. Più vicina a loro è la rappresentazione interiore di un dolore dentro “un silenzio di luce”, dove è possibile incontrare “qualcuno che tacitamente annega”. Un patimento estremo nel mutismo di chi non ho più parole, o sa che le sue non contano. Ecco, Ceccarini sa unire l’intimità della lirica con l’esteriorità di una poesia civile, attraverso una sensibilità speciale nell’uso della parola. E proprio perché la sua è una voce che si lega a una reale umanità di disperazione, tiene saldo l’andamento dei versi. C’è, la lucida consapevolezza di attraversare un deserto brulicante, una contraddizione che ferisce, con un sentimento di commozione che si raffigura in chi deve rischiare tutto per avere anche una minima possibilità di esistenza: anche bisbigliata, anche balbettata o solamente e marginalmente in “un brusio da quasi niente”.
E’ una scrittura avvolgente quella che si dipana in questi testi; una scrittura apparentemente piana, ma emotivamente carica di lampi che rischiarano per un attimo la solitudine di chi trova il proprio percorso – la proprio bussola – non in una seppur limitata precisione, ma in un turbinio; un movimento continuo – una bufera – , un’impossibilità di fermarsi che non da tregua. Ma l’autore è poeta che non registra semplicemente uomini ed eventi in processo di negazione del loro essere, ma attraverso la concretezza, il fare della poesia, costruisce il formarsi degli accadimenti con una leggerezza dolente, intrisa di infelicità, in cui però trova ugualmente spazio l’idea di un grande amore che si intuisce non solo nel sentire la grandezza del cuore, ma anche osservando “i processi della mente”, per credere ancora a una bellezza, anche piccola, anche trasandata, ma con “innocenza strepitosa”. E ancora di più va a fondo, con un’esplorazione empatica, la sua capacità di sintesi generativa, nel passare da un immagine quasi di allucinazione, di miraggio delle cose vere (l’insegna di un bar o un aereo ad esempio) che abbagliano quasi a profanare il cielo, alla folgorazione del lampo che nasce “dal calvario”: cioè dalla più personale sofferenza alla sua resa collettiva e universale. E dove tutto sembra ormai morto e sterile, e i patimenti rinsecchiti, c’è ancora forse una possibilità: un’utopia che viene dalle parole lasciate “cadere nelle mani”, un barlume nel precipizio di “un’altezza inutile” che sia possibile, prima che l’autunno si cementi dentro, dettare “un altro tempo”.
Invece
La piazza è il luogo di nascita della democrazia, che per sua natura è partecipativa. In questo caso la partecipazione è data dal numero attivo. La democrazia rappresentativa è la forma politica mediata che subentra al numero attivo quando il sistema di rappresentanza provvede a trasformare la partecipazione popolare diretta in numero passivo e avoca a sé ogni legittimità.
Invece qui stoppati dalla nebbia non si scorge
nemmeno l’ombra d’una guida
o d’un passante caritatevole che ci soccorra
indicando come da programma il percorso, il fiume
infido per mulinelli d’inganni fa la sua parte
siamo noi che incerti al bivio invano invochiamo
misericordia di cartelli con località e distanze, per cui
la strada da prendere ci appare
ignota e oscura, e dubbioso il cammino
disabituati da sempre ai rischi, alle rotte
senza mappe, agli intralci imprevisti, né altro
è dato all’insicuro passo
che un viatico di inciampi e di sconcerti
al tramonto inciso sui nostri volti
d’ovatta, miserevoli ostaggi del sospetto
che la strada possa avere una fine
senza fine, un alt quando meno te l’aspetti.
da Occasioni per tutti i gusti
Senza titolo
L’incellofanata vanagloria del dettato
che il dettaglio agghinda a esclusivo
beneficio degli addetti, quasi fosse
il così-è del mondo, macerie comprese
e il resto, tutto, viene in seguito
come segugio dietro i passi del padrone
come simmetria di rapporti causa-effetto
come se la linea di volo fosse a priori circoscritta
come singolo fattore quando l’insieme è dato
come enigma di tramonti intrisi di macaia
come questi versi a surrogato del vento.
Si dice comunemente che la letteratura non cambia il mondo, e, in senso materiale, forse è vero, ma con la scrittura poetica c’è una possibilità in più, se si vuole, di considerare le violenze, le iniquità, le ipocrisie, le volgarità del luogo e del tempo in cui viviamo, sgretolandone in senso ideale i presupposti. Perché in poesia l’oggetto materiale esistente viene interiorizzato e ridefinito in forme e sostanze diverse, che possono non solo dire, ma forse fare (o far fare) qualcosa. Ciò non significa che la presa sul reale da parte della poesia sia dirompente, e di questo Bugliani è ben consapevole in quanto, come egli dichiara, “la vita nella sua contingenza quotidiana non ha giurisdizione nel verso che è, quando va bene, verità mediata.”
Questo però non impedisce al poeta, quando decide di accettare la sfida con un pensiero che si opponga a una realtà obbligata e menzognera, di tentare l’opera usando una scrittura come uno strumento di antagonismo. E queste poesie sono un lucido esempio di partecipazione e contrapposizione etica a certo deleterio uso del mondo e anche di certa poesia, secondo l’autore, chiusa a contemplare se stessa. Infatti in questi testi, oltre a una voce di indignazione e di invettiva contro tutti coloro la cui ideologia dominante è fonte di sofferenza per coloro che il potere reprime e deprime, c’è un occhio di critica particolare per certa poesia lirica che tanto ha avuto e ha corso. E per questo Bugliani cita Rimbaud, per il suo smarcamento dall’io (Je est un autre) e Hölderlin a proposito dell’ impoetico che diviene poetico. Infatti nei testi di questa raccolta, l’andamento del discorso contiene sempre in sé una riflessione sul referente esterno e l’autoriflessione che la scrittura opera sul suo programma significativo e formale. E in quest’opera la dichiarazione di poetica è altamente esplicita e diffusa: la poesia deve stringere d’assedio la realtà, interpretandola non con languida, seppur bella e significante, fonìa, ma come se lavorasse nell’officina dell’essere e del mondo con precisa e personale idea e ferma volontà di cambiamento. Chi fa poesia deve rilevare l’impoetico e usarlo, anche con un po’ di ironia, ma con sguardo sempre attento, “nell’attesa che il testo faccia il gioco” e non viceversa, a far sì che il poeta (uomo immerso senza distacco alcuno in questa realtà corrotta), sia lui a proporre e a dire, e non a subire il propositivo e il detto potendo solo una reazione indotta.
In tal senso Bugliani precisa, con grande sensibilità, che alla poesia ci si avvicina “mentre in sogno/sogna”, perché è lei che può e deve, come cosa nel mondo, farsi carico del tutto esistente senza paura di usare ogni tipo di parola: con umiltà, dismettendo l’appiccicato ruolo profetico e avendo a cuore chi perde e non chi vince. L’autore è poeta cosciente che i versi sono a volte truffaldini e perciò solo una scrittura non disgiunta dall’ethos, con passione e compassione, può aver vita e dunque senso in una contemporaneità di false illusioni che per molti è durezza e sofferenza estrema. Insomma la poesia deve essere di più, deve creare una civiltà della poesia in cui chi scrive possa offrire non tanto meraviglie ma solide concretezze di “terra aspra”.
ascolta l’orizzonte dissimula lo slancio
che sbalza ricordo e premonizione
in superfici che si guardano appena
nebbie fanno albe fittizie
separata la memoria di ciò che resta da accadere
il vuoto torna suffragi:
che torni in un soffio
pure che niente lo immagini
lo chieda, lo ami
che torni niente dopo niente
e che si veda che cambi
che chiami che pianga soltanto una volta e poi
cresca a scoppiare cicala
a sparire formica
nella curva di un gorgo
a morire il soma
così non esiste dimenticarsi
rimane fin quando anche il luogo
sparisce l’oscillazione nel plesso di un bacio
e abitato articola fusi inquieti
una piccola talpa dissoda volumi di memorie
mentre mi porta il capo tra le mani
schienata la falsa riga dell’orizzonte
non saputa non vista affatto la forma dove confitto l’abbaglio
accostata e compulsa una sorta di catalessi sformava il buio
linee da presso sostenute le spalle, cunei inanimati, vincibili
eretti a sfondo, non siamo che giaciuti, questi corpi di mattino lieve
(inerpicata l’addizione i conati l’immobilità degli atti tristi le parole quiescenti le
empie le infrante i frantumi annidati la bocca spenta)
mima minacce non compreso, il presente, mima gridando tutti giorni solitudini
permeate a tutti gli oli, grida il lascito della sua convulsione fratta di segni canori,
grida i fiati sconnessi che fanno la pelle meno conosciuta
“piccola talpa, abbandona il mio quarto azzurro dividi l’osso che tralcio mentiva
d’esserci dopo che mai dopo che sempre c’ero stata un niente, l’inventario dei silenzi
le cose diradate spente. aperte, ci sono stanze,
il corpo apprende solo
l’istante che scaglia a ritroso il sangue
sulla soglia delle intenzioni”
in quel modo accorto di non amare, io pure non ho amato
sordo come a una fitta continua
il cielo rapprende in una stringa lunga una sola luce
lì tempra una forza amara
senza notte, un risvolto di fattezze inavvertite
una flagranza che non lascia
Con “Genius Loci”, Viviana Scarinci presenta una poesia in cui immagini, suoni, colori, paiono nello stesso tempo separati e fusi in àmbiti esistenziali accennati per via di profili linguistici davvero persistenti.
Dico “separati e fusi”, perché il tema dell’aspetto, della fisionomia, mi pare ben presente in una versificazione capace di soffermarsi, intensamente, sulla parte per alludere a un tutto che, secondo la poetessa, può essere detto soltanto così.
Un dire in cui la memoria svolge un importante ruolo: se gli uomini fossero privi di memoria, concetti come quelli di passato, presente, futuro, non avrebbero senso alcuno.
Ecco, dunque, l’importanza del ricordo quale elemento fondante della stessa idea di tempo, perciò del nostro stesso vivere.
Quella “piccola talpa” che “dissoda volumi di memorie”, insomma, richiama la nostra maniera di stare al mondo per via di un’immagine che sembra essere, nel contempo, prodotta da e produttrice di poesia, ossia indissolubile unione di segno e senso, di lingua e vita.
Occorre aprirsi nei confronti di qualunque aspetto, occorre rendersi disponibili al fascino dell’inedito non con l’arrogante intento di abbandonare gli usuali schemi, ma con l’attenta operosità di chi si sforza di illuminarli dall’interno per renderli maggiormente espressivi.
Questa poesia, insomma, ci invita a una migliore comprensione della nostra esistenza.