Che una descrizione così sonora e raffinata possa avere ragione anche di un argomento triviale, o semplicemente banale, del tutto insignificante come la visione di un camionista in panne visto per qualche secondo mentre si percorre un’autostrada, riporta immediatamente l’attenzione sulla pura forma, come in un esperimento che voglia isolare solo alcuni elementi all’interno del fenomeno poetico, dove la visione sia strumento dichiarato d’indagine che attesti di un atto poetico che fonda la propria certezza quasi in una ripresa di cartesiana memoria. Se a questo si aggiunge un dichiarato riferimento al segno, il quale è innestato nel linguaggio utilizzato da Marica Larocchi come pietra preziosa che nel linguaggio non si dissolve, ma funge da elemento aggregatore, elemento boa, allora siamo di fronte a una dichiarazione di poetica talmente limpida che il suo significato a questo punto non può che risiedere nel flusso poetico che si dispiega ininterrottamente e imperiosamente richiamando la nostra attenzione al senso sonoro dell’ascolto: “bensì, nel vario / itinerario imposto / dal nume locale, segni / stinti d’ascesi / o parapetti d’anabasi / indiscussa”. E che tutto diventi segno sotto lo sguardo di Larocchi indica la metamorfosi che ha luogo sul foglio: “Ed ora / non ti avvedi del / timbro ammalorato / su questa cute / di voli tatuati”. Suono e senso non si confondono, né si uniscono, ma coesistono nella loro doppia esistenza, rubando continuamente l’attenzione del lettore, imponendo un’autonomia che non può essere dissolta, nemmeno nella considerazione di un ordine superiore. Pare che nessun residuo resti, che realtà, per quanto piatta, insignificante, forata, discontinua sia, venga senza sosta e immancabilmente sottoposta a un processo attraverso cui debba assumere necessariamente un senso. Di questa immaginifica visione, incantatrice pagina, colma di sonorità e di senso come può esserlo una fonte da cui sgorghi continuamente una rapente immagine per gli occhi, Marica Larocchi è straordinaria fautrice.
Solstizio in cortile
1
A lungo ho sperato
che fosse un volo
lasco e poderoso
sopra l’immenso
brulichio di larve.
Invece è questo
tuffo molle
di starna, d’anatra
muta o di svasso
in parata dentro
i crepacci della memoria;
e che riemerge adagio
con l’infanzia nel becco.
2
Pensieri a sciami
sono alla cova
tra i licci di
un’antica fame;
già pronti a divorare
accenti e toni.
Oggi mi accoglie
soltanto la cinica
risacca d’alghe
riepilogative,
se l’oracolo
mentitore
impone ai presagi
di sprangarmi il cielo.
Restano poche
spine nel crampo
della luce.
3
Ecco la poiana
dei vaticini
appesa al ramo
in cortile,
avida persino
di un’indagine troppo
fatale.
Ma sul collo scalzo
dei tetti la sua
invettiva inciampa
nel nido degli incontri
sonnambuli che lo
spiedo della mente
infilza senza colpo
ferire.
da La linea della vita
2
Né ascisse né ordinate
per l’insolita adunata
dei segni, ma solo
un rimpianto che albeggia
adagio dall’orlo
un po’ scheggiato
della guida
quando, scissa
dai suoi tutori, anche
l’angoscia cade
nel suo astuccio
di trepide astine.
6
C’è nell’inchino
esperto della vela
la presunzione di approdi
e bonacce;
ma è sempre una
folata estrema a
declinare nel taglio
scogli ed ormeggi.
Perciò ne conservo
la rotta collaudata:
fulva e sottile
linea della vita.
Marica Larocchi, lombarda ma di madre slovena, è poetessa, narratrice, traduttrice e saggista. Tra le sue raccolte poetiche: Lingua dolente (Milano 1980), Fato (Milano 1987), L’oro e il cobalto (Bologna 2001), Le api di Aristeo (Bologna 2006); tra le opere in prosa, Il suono del senso (Verona 2000), Carabà (Lecce 2000), Rimbaud, Un racconto (Lecce 2005), Il tavolo di lettura (Lecce 2007), Luogo e formula (Lecce 2009); ha tradotto Rimbaud, Flaminien, Radiguet, Jouve e curato un’Antologia dei poeti parnassiani (Oscar Mondadori, 1996). Vive a Monza.