Carte nel Vento
periodico on-line del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
“A ogni istante è come la prima o l’ultima parola, il primo o l’ultimo poema, imbarazzato, grave, senza verosimiglianza e senza forza, la fragilità testarda, la fontana perseverante; ancora una volta di sera il suo rumore contro la morte, l’accidia, la stupidità; ancora una volta la sua freschezza, la sua limpidezza contro il veleno. Ancora una volta l’astro fuori dal fodero”. Philippe Jaccottet
Ancora una volta, attraverso i finalisti e vincitori del “Premio Lorenzo Montano 2010”, tutti commentati dalla redazione di “Anterem”, in questo periodico viene proposta una rassegna di poesia italiana recentissima e prevalentemente inedita. Nel vivo delle ricerche in campo, trovano spazio anche prose e saggi brevi, espressioni del più giovane segmento di questo Premio, la cui 25^ edizione scade a fine marzo 2011.
Ranieri Teti premio.montano@anteremedizioni.it
Lo scriba di Montini mi riporta all’opera Deiscrizione (1972) di Claudio Parmiggiani: uno scriba ricoperto di scritte, simboli, ideogrammi e altri alfabeti, tiene sulle ginocchia una tavola bianca priva si segni. Di fatto la scrittura ancor prima di venire prodotta dall’uomo con intenti comunicativi si sedimenta sulla sua epidermide. “dirupi, forre, cortecce, coralli” sono iscritti, non scritti. E il “taccuino” diventa terreno o “tappeto di foglie” dove i segni linguistici sono tracce tra le tracce, a volte decodificabili, a volte tenacemente imprendibili.
Lo scriba
Dolorosamente candido, dolorosamente in lutto. Come può essere? Fuori squadro. Di fronte al mondo. Un sollievo. Le strade un tappeto di foglie. Questo taccuino un libro proibito. Un campo di battaglia per angeli e demoni, come al momento della nascita. Non sono un banchiere, non sono un mercante. Non devo ingannare nessuno se non me stesso. E questo lo faccio spesso. Sono un esperto. Dura da una vita. Ma ora basta. Perfino il crogiolo è stanco, di borbottare. Credo il ferro sia pronto. Una spada, un forcipe. Sto partorendo in casa. In casa sono nato. Una strettoia di valle. Un vecchio mulino. Cumuli di coperte. Sul davanzale a prendere il sole. Quando c'era. Ricordi miei o di altri? Non so. Grandi nebbie. A due anni andato via. Mai più tornato. Credo il torrente sia asciutto. Come i fiumi della terra. Ma a me è rimasta la sete. Una sete implacabile. Dentro. Un amore per le cose aspre. Dirupi, forre, cortecce, coralli. Abissi e sommità. Gli estremi sempre. E poi le stelle. Le donne. Imprendibili entrambe. Perché distanti le prime, perché amare le seconde. Iside morta con il suo Osiride. E la razza pure. Tutto nei mezzi toni del tempo. E l'eternità che langue. Che aspetta i suoi divoratori veri. La tavola non è più rotonda. Ora è fluttuante. Informe. Come le parole. Quella detta non è mai la pensata. Una maschera per ogni occasione. Un'occasione per ogni maschera. Il filo a piombo fa paura. Il cristallo di neve pure. Troppo semplici, troppo perfetti. Troppo colmi di fede. Troppo atavici. Per fortuna ci è rimasto il pianto.
Emidio Montini nasce nel 1954 in una valle del Bresciano fra le più laboriose e chiuse a tutto ciò che non ricada sotto la voce “tempi e metodi”. Forse, a condurlo ignaro verso quella vanità chiamata poesia, solo può essere stato quell'elemento, primitivo e sacrale, ereditato da parte materna. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni poetiche dal 1978 ad oggi: Poesie (La Voce del Popolo, Brescia 1987); A Colloquio con l'Angelo (Edizione del Leone, Venezia 1990); Mutamenti e Identità (Edizioni del Leone, Venezia 1992); Cassandra la Bella e altre cose (Edizioni Tracce, Pescara 2002); il romanzo breve Il Panico e la Grazia (L'Arcolaio Editrice, Forlì 2008); Uo-dishallo, Diario Africano (L'Arcolaio Editrice, Forlì 2009); La moneta a noi donata, Poesie (L'Arcolaio Editrice, Forlì 2010). Alcune buone recensioni su quotidiani e varie le segnalazioni in molti premi letterari.
Un libro congegnato, quello di Andrea Raos “Le api migratori”, per inglobare anche elementi eterogenei come l’immagine ( nei disegni di Mattia Paganelli), l’articolazione spaziale della pagina, sempre variegata e sorprendente (la quale invita a una costante dislocazione il lettore rispetto alla pagina) e il suono, elemento costitutivo della poesia, che viene però qui enfatizzato non solo da un’attenta autonoma valorizzazione dello stesso, ma potenziato, appunto, da una stimolazione percettiva del lettore attraverso la compresenza di tutti gli altri stimoli sensoriali, contemporaneamente attivi. Il volume, a questo punto, se è epico racconto - migrazione delle api equivalente alla migrazione degli atomi di lucreziana memoria e che avendo come soggetto uno sciame di api riecheggia anche le favole di Esopo – è anche libro-enciclopedia. Il racconto si snoda per metafore e allitterazioni, per progressioni continue. Infatti, avanza includendo intere porzioni della rete semantica (differenti ambiti linguistici) e letteraria (riferimenti ai classici): “tirata, tratta, stretta, terra, terramara / erra, rena, nera, nero, era” e “mentre esplode, dalla fiamma, lo sciame delle api trasformate, irrompe al mondo”. E che si tratti di favola morale: ““ma ne ho compiuto il male, che ricade, - ne ho toccata / nell’intimo natura, ho fatto il male.” / si dibatte, tenta, mentre invano cede” è presto confermato. Non si vuole in queste poche righe riassumere la posizione di rifiuto di Raos degli aspetti osceni della vita, preme piuttosto porre in nuce gli aspetti linguistici, sperimentali che agiscono nell’opera come distanziatori rispetto a un traguardo (la forma-libro) non raggiungibile in maniera compiuta e, altro aspetto non secondario, l’indefessa spola tra l’io e lo sciame in quanto l’introspezione soggettiva non rivela con incontestabile chiarezza il discrimine tra l’io e la collettività poiché entrambi presi in un movimento vorticante che tende a moltiplicare lo stesso soggetto percipiente.
Fuori dal laboratorio
La terra esplodeva, ancora una volta. Sono milioni di millenni
in piena, per completa frantumazione
si riversano per terra – esplode, esplosa:
“nella dolcezza, nell’amore,
né la dolcezza né l’amore
stanno – non sopporta più niente,
la vita, non sopporta niente”
“venite, attraversiamo” – traversando
“volo d’animali,
l’immenso il più disteso
non ho mai visto un altro fiume” – con l’amore
come l’acqua, com’è acqua,
colma di leggera, come fuga
a malapena, a stento volo, che non vuole,
che non prende il volo. Sprofondano dentro la terra,
cascate di roccia che la roccia, voragine che dentro la voragine,
da quella stretta che, dentro, alleva,
morso dalla morsa della pietra:
“trasvolando che sento, che cadrò”.
La roccia si solleva, esplode il suolo,
si fa lava, bolle, folle:
è trasvolando che cadendo, sciame dopo sciame,
tutto passa.
Ed ora che passato
passava tutto, intero, per intero,
e su ciò che diventa, si avventa:
l’orso piccolo strappato, che confuso, dalla madre,
alla madre, ombra,
l’orso da poco nato che spaventa
ancora il mondo (che da adulti rende muti senza spaventare, è lì e
basta, è cosa che succede, uccide),
che zampetta e uggiola un po’ debole, un po’ mite – è via
dalla madre
ombra, d’ombra
“ti ho sognata ma eri già morta,
ti ho sognata ma non eri niente, un agitare
di follicoli, estinzioni, di parentesi”
cosa, oh cosa di sangue e di niente, ad annerire ora,
cosa significa restare in vita?
che cosa strazia ora questa
mano, mano che non tiene? questa gola?
capivi che ne usciva suono, nel frastuono,
non perché la vibrazione arriva,
non vedi il battere
e ribattere laringe, strepito –
è il corpo intero che si chiude esplode,
ricontrae, riesplode, nel riaccelerare che il respiro,
per respirare, spira, che i polmoni,
nel vibrare, emettono, riemettere
con tutta la carne che li chiude
mentre, ancora (e come morde, come tremito, che trema)
e nuovamente, intanto,
affollano il nascere i morenti, si affollano, al disnascere, smorenti
- l’orso piccolo, già morto, muore ancora,
cosa nasce?
l’ape pazza che attraversa, il corpo,
cosa non nasce?
sono soli, ora, il vuoto, accerchia l’erba,
verso cui, già piega, verso dove
la terra serba il pianto che le spetta,
cosa nasce e non nasce?
allontana, l’allontanarsi altrove, il numero
di api-sciame, innumerevole –
cosa né nasce né non nasce?
“Non posso, pure, non passare, vero?”
Andrea Raos. Nato nel 1968, ha esordito con la raccolta Discendere il fiume calmo nel Quinto quaderno italiano diretto da Franco Buffoni (Crocetti, Milano 1996). È presente nel progetto ákusma. Forme della poesia contemporanea, (Metauro, Fossombrone 2000). Ha pubblicato Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo, Roma 2003) e Luna velata (cipM - les Comptoirs de la Nouvelle B.S., Marsiglia 2003). Ha curato l’antologia bilingue di poesia contemporanea italo-giapponese Chijô no utagoe - Il coro temporaneo (Shichôsha, Tokyo 2001). Presente nel VI Quaderno della rivista on line Poesia da fare di Biagio Cepollaro. Con Andrea Inglese ha curato Azioni poetiche. Nouveaux poètes italiens, in Action poétique, 177, settembre 2003 e Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, in Nuovi Argomenti, dicembre 2005. È membro di Akusma e di Nazione Indiana. Suoi testi sono apparsi sull’antologia Il presente della poesia italiana a cura di Stefano Salvi e Carlo Dentali (LietoColle, 2006).
La poesia contemporanea, si sente dire, è talmente oscura da essere incomprensibile e perciò poco frequentata dai lettori non specialisti. Ma questo, noi crediamo, è un sentimento diffuso che parte da una premessa stupida (il senso deve essere evidente) e arriva a una banalizzazione totale: e cioè che la poesia debba essere comunicazione. I poeti sanno quanto ciò sia falso e quanto lavoro di scrittura e di pensiero ci sia in ogni singola parola. Ebbene, questo poemetto di Antonella Doria è un mirabile esempio di quanta ricchezza ci sia in una voce talmente concentrata da crescere in un testo che fa della sua opacità il suo gesto significante. E’ una poesia che misura la sua forza a partire dall’ origine di un pensiero che produce la forma linguistica della “cosa” prima che la scrittura si imprima, rendendo cosciente la sua sostanza poetica “a margine del verbo” e “a margine del senso”. Perché la parola poetica, anche se vive in trasparenza nel linguaggio, esce da un buio interiore e passa dal chiuso all’aperto in modo preciso o vorticoso, a seconda delle necessità che convengono e convergono per quel momento, ma ha sempre bisogno di uno sforzo per essere vista più che per vedere.
Entrando nello specifico vediamo che il poemetto di Antonella Doria si presenta come una composizione di testi concatenati: otto poesie/strofe che si legano l’una all’altra attraverso la ripetizione dell’ultima parola all’inizio della poesia successiva, e un prologo e un epilogo che si richiamano e racchiudono (e quasi riassumono) in una sintesi estrema quanto affiora dallo spezzettamento del corpo centrale. Ma questo insieme vocale non è qualcosa che viene prima della poesia che lo rappresenta, bensì è ciò che accade mentre la scrittura si fa. Non c’è un dato di realtà precostituita, non ci sono segnali o conformazioni note che portino a conoscenza la devastazione in cui tutti ci troviamo nel “tumultuoso gran fiume” dell’esistenza, ma è lo scorrere dei versi “oltre ogni possibili segno” a comporre il suo venir prima. E la scossa che dà il movimento sta nell’inganno e nella violenza del mondo, resi veramente significanti, e quindi corporei, da una parola che è al limite delle sue forze. Una parola dura e selvaggia che apre crepe e fratture, perché lei stessa nasce come voce spaccata, lacerata dal turbinio che genera sensi reali ma anche tesa a svuotare ciò che ancora non c’è. Perché se anche tutto e niente a volte si confondono e si fondono tra loro, la parola resta un segno che illumina in modo imprevedibile “il primo e ultimo/ conoscimento”.
Allora il fondamento di questa poesia, che raccoglie il dolore nell’oscurità di un’ ombra, sembra essere l’atto di conoscere attraverso la trasfigurazione dell’ esistente, con una capacità estrema che solo la scrittura può catturare. La percezione di un miraggio, di un caos, di un labirinto si incontra nel paradosso di una visione “dove capovolta/la terra sorgere/vedrai”. Immagine che apre e chiude un testo dove i luoghi di paura nemmeno alla fine sembrano attenuare la loro avanzata.
da Millantanni
Introibo
tumultuoso un gran fiume
verso l’inverno avanza
a piedi ciechi folli mercenari
di peste d’oblio appestati avanza
la notte inquieta nelle palpebre
una sola moltitudine
insegne menzogne portano
seguono inseguono in marcia
d’avvicinamento verso dove...
(forse tutto era niente)
a piedi ciechi molti
in marcia incatenati ronzini
ronzinanti tutti
danzanti tristemente
tumultuoso un gran fiume
(devastante inondazione)
incontro al raggioverde
all’orizzonte estremo incontro
dove capovolta
la terra sogere
vedrai...
***
pietre comporre
comporre parole
echi di una partitura
musica tuttita città
nuova (nuova Athenae
Troia o Carthago) sale
al monte d’Acropoli
serve pietre comporre
in cuore si quieta
l’inquietudine e sale
l’insieme di fiaccole
mani illumina macerie
illumina ogni notte
di cretto fascismo
o terremoto
un cuore selvaggio
ritorna riprende mani
e lingua dalla terra
alle viscere materne
ritorna matrici di
memoria
***
(forse tutto era niente...)
all’orizzonte sorge
la Terra capovolta
una nuova sola moltitudine
esistenza nuda di corpi
erranti
avanza verso l’inverno
a margine del senso
a margine del verbo
tumultuoso un gran fiume
Vedrai...
Antonella Doria, siciliana, vive fra Milano e la Liguria. E’ presente in diverse riviste e antologie. Ha pubblicato: Altreacque (1988); Mediterraneo (2005); Metro Pòlis (2008). Ha curato Poesia contro guerra (2000, 2007) con una nota di Dario Fo. È condirettrice de Il Segnale, Percorsi di ricerca letteraria, e redattrice di In Oltre, rivista di antropologia, politica e cultura.
Pare, leggendo la raccolta di Enrico De Lea “ Ruderi del Tauro”, di sentire sulla pelle il meriggio opprimente e arso di una campagna senza vento, in quelle ore lunghissime il cui il tempo si dilata fino a divenire un miraggio e le cose, perdendo il senso della contingenza, risultano irrorate dalla passione del percipiente che associa a ogni sostantivo un inatteso attributo volto a frantumare tale compatta ambientazione per innestarla con un’atavica memoria: “ Passio omiletica della cava / virtù, porge l’uovo della diruta / casa, passato l’oltre del padre / innervato, nell’asse del ciliegio”. In questo intarsio continuamente movimentato, nessuna parola ristagna o s’indurisce, ma immediatamente cede il passo a quella che segue pur se semanticamente distante. Se “nominare è morte e polvere”, pure parlare è sponda, è muro che si erge. Un continuo costruire e decostruire con le parole la propria visione morale. In una farandola di specchi che si frantumano e si ricompongono, variando continuamente il paesaggio contro cui s’inscena il soggetto, scopriamo che il ricordo risale dalla materia stessa, che è quello dell’intera umanità: è questo che crea l’alternanza della voci, il dialogo fra cultura e natura: “Avvalla nelle gole / il fuoco dei verbaschi / la dismisura dei morti”. Inevitabile sarà, allora, anche la sovrapposizione fra natura e corpo. Sarà come chiudere un cerchio per la religiosa lettura che, appunto prefigura una saldatura tra la natura umana e tutti gli altri elementi: “l’albero / dei mortali figurò la croce / al volto arso del morente, / quale eccessiva traccia del paesaggio”. Ecco, dunque, che la ricomposizione è stata raggiunta: che ogni cosa appare segno di qualcosa d’inesprimibile. Che se il linguaggio può solo mostrare è fra le sue pieghe che bisogna cercare. Una poesia densissima e barocca, nonostante la propria scabra e spigolosa apparenza.
dalla sezione Boschivo per le furie
(boschivo per le furie)
Ruga della grafia o del graffito
facciàle, brama lo scoramento
dell’ingresso – in giornate così,
che lo scirocco succeda al tramontano
e i gradi delle unghie
solchino il dopo-luce, il forno
dei barlumi. Pianta le spine
apprese al muschio, schivo
d’incenso scorteccia
l’argine del verbo – boschivo
per le furie...
(tramontana)
La formula impetrata del conforto
dona un lacerto del mondo riapparente
al pozzo-luce voce declamante
non di un suo serro estremo di borea
e di rena monastica trascorsa,
sì uguale seta all’occhio
fiume del danno e mare del consòlo.
(paesaggio lavico)
La concezione del fiore basaltico
non ammise alcun flettere
dalla vena millenaria
al fuoco terraneo – l’albero
dei mortali figuròla croce
al volto arso del morente,
quale eccessiva traccia del paesaggio.
(et in hora), 4
Arte della visione include l’artificio
acceso del volto noto nell’osceno sguardo,
verso l’alto della caduta, creatura.
Ordinanza notturna si dispone
all’austera furia, marchio a fuoco
dell’occhio e del rastrello ad un pietrame,
memoriale ingenuo
della sentìna dei corpi, senza gioia.
dalla sezione Invenzione della gloria
(adieu)
È disincanto del rintocco, campanario
squarta l’asciutto espianto della lingua –
dentro un paesaggio che lo pasce e nega.
Il debito che non s’estingue, la pingue
larva della catena – una coperta
che la terra tesse.
(l’ordine)
“degli anni e dei mondi” – per una convenzione
fissi al tempo, a un’ostensione della macchia,
sia fuoco d’artificio castellario e, dietro, notte
vuoto mestiere e mistero dell’inganno,
ché sia la detta materia della fuga.
Enrico De Lea (1958) è nato a Messina e vive a Legnano. Ha pubblicato nel 1988 Esercizi vitali e nel 1992 la raccolta Pause, Edizioni del Leone. Suoi testi sono apparsi sulle riviste “Wimbledon”, “Specchio”, “Tuttolibri”, “Atelier”, “Sud”. Cura il blog personale “da presso e nei dintorni”, www.delea.wordpress.com
Certi alfabetieri un tempo si chiamavano Primo incontro con le parole o qualcosa del genere. Molti scrittori hanno raccontato con emozione di questo loro primo incontro infantile (Benjamin nella sua Infanzia berlinese, Canetti in La lingua salvata…). La scoperta dei segni alfabetici, il potere della scrittura, la complessa operazione della lettura in fondo mai appresa completamente (ci sono sempre alfabeti da decifrare) si rivelano essere “il filo teso tra due margini invisibili di vuoto”.
E’ “Uno sguardo che fa vibrare l’alfabeto” e propone al lettore un’ esperienza di continuo rinnovamento nel nominare le cose nel “prenderle” nella loro essenza di geometrica struttura linguistica.
Due prose unite
Non per arrivare a sapere qualcosa, ma solo per dire un nome si sono dunque inventate le parole? Ciò che sicuramente vorremmo toccare invece ci meraviglia, raccolto nell’oscurità della sintassi dei suoni, senza ascoltare quale sia la sua voce.
È bello vedere le frasi farsi discorso, sbocciare dai contorni alle cose, filare via convinte, migliori tra tutti gli altri che invece tacciono, libere da una calca di pensieri, mostrare le ragioni, certe come cifre stampate a un foglio, arrivare al punto, scavalcarlo. Si va dietro la prima, fatta per scherzo all’inizio, poi diventata più vera, vera all’improvviso, che ne ha chiamata un’altra a convincere gli incerti. Una frase sola all’inizio, che sembrava aprire e chiudere il discorso, ci ha scoperti invece, messi sotto gli occhi di tutti a sostenere una parte, fatta solo di parole e argomenti, proprio per quelle parole che ora non ci lasciano più stare.
Non ci soccorrono i fatti, perchénon ci sono mai stati. Tutto si riduce cosìper dire, come quando al racconto di una storia si aggiungono i dettagli, che la rendono diversa a chi l’ascolta e la prende vera e impara così come vanno le cose al mondo, sentendosele dire, imparando solo a mettere bene la lingua sui denti e pronunciare i nomi.
Ecco un’ansia metafisica: prendere la parola – una – tolta al mondo, senza paragoni spingerla sul baratro sola, sino a non sapere più se salva o vinta dalla sorte, metterla di fronte al suo silenzio, assoluta, abbandonarla. Aspettare con pazienza e ripronunciarla umana, più umana, e umanamente risentire la paura in lei di quel momento, di piombare nel suo buio non-significante, non più interrogata o trattenuta, anzi sfigurata nelle cose.
Non so – dire, scrivere di più di quello che non scrivo, di quello che a fatica taccio perché già più sottile, di quello che trattengo alla parola, perché mai dia di più o di meno, in attrito al silenzio.
– « Sii cosa, vera! »
A tratti uno sguardo fa vibrare l’alfabeto, come a un primo incontro, un peso, un tuffo al cuore per il salto in volo di un uccello, sopra il filo teso tra due margini invisibili di vuoto.
Sembra mano a mano manchi il tempo e che tutta la vicenda per destino resti muta, nell’agitazione brulicante, tutta gesti osceni e segni di chi non sa nulla.
– « Dove vai? Dove si va? »
Quale nome – immagine del mondo – nella tenebra ci chiama a luce?
Federico Federici (Savona, 1974) è ricercatore e professore di Fisica, traduttore (da tedesco, russo, inglese) e scrittore. Ha pubblicato (a proprio nome, o a nome Antonio Diavoli) raccolte di poesia e prosa, traduzioni, articoli di critica. Ha preso parte a incontri e letture in Italia e all’estero, a mostre di pittura, a manifestazioni legate alla videopoesia e al cortometraggio. Ha tradotto e curato la prima edizione italiana delle poesie della poetessa indiana Rati Saxena e il primo lavoro postumo della poetessa russa Nika Turbina. Nel 2009, con L’opera racchiusa, è tra i vincitori del “Premio Lorenzo Montano” per l’opera edita. Nel 2010 esce in Inghilterra il poemetto Requiem auf einer Stele (The Conversation Paperpress, UK).
Di prossima pubblicazione lùmina (archivio apocalittico farsesco) per La Camera Verde e la traduzione di Adage Adagio (di David Nettleingham e Christopher Hobday) con un saggio introduttivo sulla poesia civile per le Edizioni Polìmata.
Cura su internet lo spazio http://leserpent.wordpress.com
In "Il cerchio oscuro. Trilogia dell'erranza", componimento, articolato in tre sezioni, di Tiziana Gabrielli, proprio l'erranza appare enigmatica entità con cui la poesia, nel suo svolgersi, s'identifica per via di calibrate successioni verbali volte a considerare il linguaggio medesimo quale proprio oggetto.
La pronuncia
"il senso
nel controsenso
di uno stare che è già un distare"
costituisce, con evidenza, attenta riflessione sulla natura dell'idioma.
Il discorso poetico, per così dire, inizia dal punto finale, ossia dal punto in cui la lingua sembra rimandare a se stessa: dobbiamo forse rassegnarci alla mancanza di vie d'uscita?
Non direi, perché i versi
"dove il silenzio
è vita"
chiudono il componimento con palese richiamo ad un'energia vitale che, pur non ancora lingua, è silenzio fecondo, intimo tratto umano non distinguibile dalla parola una volta che questa sia sgorgata.
Con un dettato conciso, secco, ma non schematico, determinata ad esprimere un'esperienza dell'enigma vissuta in modo particolarmente intenso, Tiziana Gabrielli mostra come ogni interrogativo, anche uno di quelli più preoccupanti, affondi le proprie radici nell'esistenza degli uomini e come la consapevolezza di ciò possa mitigare l'inquietudine.
"Il cerchio oscuro", insomma, può diventare più chiaro.
Il cerchio oscuro
I. Soglia
Svia
da te a te
il nome - il giusto nome -
la «frase ulteriore»,
l’oltre-misura
l’in-definito
la «terra mattinale del principio»,
grido dell’origine
a-venire
II. A traverso
Rifrange
da te a te
l’ultima eco
del viaggio verso
l’in-scrivibile
ombra, dall’ombra
all’ombra
tra-versata
tras-versale
che e-margina
il senso
nel controsenso
di uno stare che è già un distare
nell’incessante svanire
dell’att(im)o
III. In cammino verso il principio
Trasmigra
da te a te
il linguaggio senza dimora
né orizzonte
che linea lasci immaginare
e l’essere
custodire
nell’intermittenza perturbante
di un soffio
- primizia d’aurora -
nel buio lunare
oscuro stupore, oscura
lingua
dell’esilio
e la devianza
nuovo pensiero-stella
del cerchio infranto
dove il silenzio
è vita
Tiziana Gabrielli (1969), laureatasi (cum laude) nel 1996 in Filosofia presso l’Università degli studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara, si perfeziona presso la Scuola Normale Superiore di Pisa sotto la guida di Remo Bodei, professore presso l’UCLA (University of California, Los Angeles) - che le conferirà nel 1999 il “Premio di filosofia - Viaggio a Siracusa” (sezione Tesi di laurea) - e di Claudio Cesa, professore emerito di Storia della filosofia moderna. Nel 1997 l’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli le conferisce una borsa annuale di ricerca sotto la direzione scientifica di Xavier Tilliette, professore emerito presso l’Institut Catholique e il Centro Sèvres di Parigi e la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Perfezionatasi in Bioetica presso l’Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Roma tra il 2003 e il 2004, consegue nel 2004 il titolo di Dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, collaborando contestualmente con la “Bayerische Akademie der Wissenschaften” di Monaco di Baviera e la “Schelling-Forschungsstelle” di Berlino e Brema.
Filosofia e poesia dialogano costantemente nella ricerca estetica di Tiziana Gabrielli, che si nutre delle più fertili contaminazioni con le arti visive, la musica e il teatro.
Attualmente i suoi studi sono orientati, per un verso, alle nuove emergenze dell’etica applicata e, per altro verso, alle più feconde declinazioni dell’estetica come polifonia
di forme, linguaggi e codici semantici ed ermeneutici da cui far germogliare l’impensato.
Le sue liriche sono presenti in numerose antologie e riviste ed alcune di esse sono state tradotte in spagnolo e in greco moderno.
Tra i principali riconoscimenti si segnalano: Menzione speciale per l’Italia al Premio mondiale Nosside Internazionale (2007); Premio Letterario “Sergio De Risio” (sezione poesia inedita) sul tema “Il pensiero poetante” (2008); Premio nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero” (sezione Aforismi); Premio Letterario Internazionale Maestrale - San Marco – Marengo d’oro (sezione poesia in lingua) (2008); Concorso internazionale “Lettera D’Amore” (2010); “Trofeo della Cultura. Histonium alla Carriera 2010” conferitole dalla Giuria del Premio nazionale di Poesia e narrativa “Histonium” 2010; Premio “Parole 2.0 – Poesia in movimento” 2011. Finalista al Premio di Poesia Lorenzo Montano – sezione poesia inedita (2009 e 2010); finalista (sezione Poesia) al Premio Fabrizio de André “Parlare Musica” (2010).
Focalizzato sulla parola rosa, sul messaggio che il simbolo della rosa rappresenta per Rilke (e per molta cultura occidentale) il testo di Gobbi allude in realtà a una rosa multipla dove ogni facoltà sensoriale è messa alla prova. Dove petali-palpebre si chiudono alla vista, petali-pagine si sfogliano con le dita, petali-mantra ci accompagnano frusciando. Petali che profumano o riposano dolci nei vasetti di marmellata.
Ma se penso a una rosa in forma di parola, alla rosa ultima, penso alla rosa canina con i suoi quattro petali , uno per ogni sua lettera: r o s a
La rosa ultima
Un uomo che pensa alla propria morte, spesso, vuole lasciare un messaggio preciso, benché più o meno cifrato. Per farlo, deve tentare una luce definitiva, netta, che dissolva ogni equivoco. Deve pensare a se stesso senza il tempo e senza la parola, al di fuori di ogni relazione: a un’essenza di sé.
La sera del 27 ottobre 1925, a Muzot, Rainer Maria Rilke scrive il proprio testamento, e lo invia all’amica Nanny Wunderly (morirà il 29 dicembre 1926, sul far del mattino). Chiede che gli sia tenuto lontano ogni conforto religioso; sceglie il luogo nel quale essere sepolto (accanto a un’antica chiesa, presso Rarogne). Vuole una vecchia pietra, dalla quale si cancelli ciò che è scritto e siano incisi un nuovo nome, lo stemma di famiglia e tre versi.
Rosa, oh contraddizione chiara, desiderio,
di nessuno essere sonno sotto così tante
palpebre1.
La malattia ha già intaccato un fragile equilibrio, o forse l’equilibrio spezzato ha chiamato a sé la malattia. Scriverà , venti giorni prima della morte, sempre a Nanny: “Le plus grave, le plus long: c’est abdiquer: divenir ‘le malade’. Le chien malade est encore chien, toujours. Nous à partir d’un certain degré de souffrances, sommes-nous encore nous?’’
Rilke sembra desiderare la metamorfosi: essere presto uno tra i morti. Lust: “desiderio”, più che “piacere, gioia”. La rosa è Rilke nella morte, nella sua morte. Sotto la palpebra della tomba, sotto le tante palpebre delle pagine che resteranno, egli sarà “sonno”. Nessuno dormirà là sotto: non ci sarà più nessuno. (E’ un fatto naturale, come l’arrovesciarsi degli occhi nel sonno: le palpebre chiuse li proteggono, e ne indicano insieme la presenza – ma essi non vedono).
La rosa è più che Rilke: è , in se stessa, reiner Widerspruch – un parlare che è reiner: “puro”, ma anche e soprattutto “chiaro”, sia nel senso di “limpido, luminoso, nobile”, sia di “comprensibile”. Il miracolo dei nostri giardini ha una logica propria, assolutamente cristallina: deve pur esistere un punto di vista dal quale abbracciarne il Widerspruch e trovarlo “chiaro” – cioè , comprenderlo fino a essere rosa in se stessi. (Reiner, la qualità del Widerspruch della rosa, è omofono di Rainer, il poeta che sarà sepolto).
Come l’occhio addormentato guarda al contrario, così la rosa parla al contrario. Già nelle Neuen Gedichte anderer Teil si incontra uno sguardo volto all’indietro, l’unico presente nel mondo – di un torso arcaico di Apollo: “là non c’è punto / che non veda te. Devi cambiare la tua vita”2. Il Widerspruch della rosa porta ad acconsentire alla trasformazione della vita: a comprenderne la necessità .
Sembra, questo, uno sguardo ultimo che scopre l’esistenza di un centro nella vita trascorsa: un unico sostare al cospetto di una verità semplice: ciò che il poeta potrà continuare a fare, per grazia, anche quando sarà trasformato nel “sonno di nessuno”.
Qual è la verità della rosa? Essa stupisce, sempre:
Dov’è per questo interno
un fuori? Su quale pena
lini come questi vanno a porsi?
Dentro, quanti cieli si riflettono,
nel lago chiuso
di queste aperte rose -3.
Infinito è lo spessore simbolico legato alla rosa nell’ambito della cultura occidentale. Ce lo ricorda l’epitaffio che Gertrude Stein dettò per la propria tomba, a Parigi: “Una rosa è una rosa è una rosa”- e il Paradiso di Dante non poté che apparire in forma di “candida rosa”. Nella mistica ebraica, “la forza apotropaica di šošannah [plurale di šošan, ‘rosa’] trovò una spiegazione ulteriore nella corrispondenza tra i componenti della corolla e le lettere del Tetragramma, yod, he, waw, he. […] lo ‘specchio opaco’ nel quale si riflette l’emanazione superna”4. In un apologo di Nachman di Breslav, rabbino del XVIII secolo, il Messia restaura l’ordine del cosmo attraverso un atto di pura comprensione: raccogliendo una rosa.
Non ci si stanca mai di guardare una rosa. Nelle poesie francesi di Rilke, scritte tra il 1924 e il 1926, per lo più nei periodi di ricovero per l’aggravarsi della malattia, una sezione s’intitola Les roses, e raccoglie 24 poesie: il sonno le cinge, le rose riposano in sé:
Se ti appoggi, rosa fresca e chiara,
contro il mio occhio chiuso, -
come avessi mille palpebre
posate una sull’altra
contro la mia, calda.
Mille sogni contro la mia finzione
sotto la quale vado errando
dentro il labirinto dei profumi 5.
La malattia mortale era già iniziata: Rilke se ne rendeva perfettamente conto. Un’infezione provocata dalla spina di una rosa, conficcatasi profondamente nella mano sinistra, ne accelerò il decorso.
In forma di parola, la rosa avrebbe vegliato sulla sua tomba: non credo che essa fosse concepita per i futuri visitatori del cimitero di Rarogne – non più di quanto una vetrata o una scultura, in una delle cattedrali gotiche di Francia tanto care al poeta, lo fosse per il popolo, o avesse una funzione catechetica: vi sono, sì , figure pensate a questo scopo, ma insieme se ne trovano altre troppo lontane, indistinguibili dal basso e necessarie, forse, nella loro pura presenza, al di fuori di qualsiasi utilità - perché vi fosse, nello spazio sacro, una raffigurazione di ciò che rappresentavano. Leggerei in questo senso la sintesi estrema dei tre versi, cifrati per sé e per la verità della rosa.
Eppure, qual è la verità della rosa? Perché desiderarla così presente, non in figura ma in forma di parola?
Lorenzo Gobbi, poeta, saggista e traduttore, è nato e vive a Verona. Per la saggistica ha pubblicato: Elogio del frammento. Rilke, Hesse, Benn, Celan, Verona 1995; Lessico della gioia, Qiqajon, Bose 1998. Gerusalemme. Nella memoria di Amos Oz, Unicopli, Milano 2006. Carità della notte. Il lutto e la separazione nella poesia di Paul Celan: una lettura personale, Servitium, Bergamo 2007. Lessico della gioia, 2^ edizione rivista, Servitium, Bergamo 2008. Le api del sogno. Per Emily Dickinson: una domanda sulla gioia, Servitium, Bergamo 2009. Elogio del frammento, nuova edizione rivista, Servitium, Bergamo.
In poesia ha pubblicato: Nel chiaro del perdono, con una lettera di Roberta De Monticelli, Book Editore, Bologna 2002; Nel centro del ricordo, Book Editore, Bologna 2004; Le rose più di tutto, Quaderni di Orfeo, Milano 2006; Luce alla mia destra, Book Editore, Bologna 2006. Testi poetici sono presenti in Poesie di Dio, a cura di Enzo Bianchi, Einaudi, Torino 1999.
Ha tradotto Biagio Marin, Rainer Maria Rilke, William Shakespeare, Ugo di San Vittore. Inoltre traduzioni da Novalis, Hölderlin, Schiller sono incluse nel volume La gioia tra le dita, Fondazione “Giorgio Zanotto” – Banca Popolare di Verona, Verona 2005.
Viene da pensare ai limiti del linguaggio, percorrendo i meandri del libro di Luca Salvatore “deadcityradio” e meglio sarebbe dire affondando nelle sabbie mobili e aggrovigliandosi nelle liane presenti nella stratificata foresta “cultura”, forse vero soggetto della silloge. Tali percorsi linguistici potrebbero causare l’immobilità dell’incauto lettore, non fosse altro perché è una scelta non disperdere nulla, nulla lasciare alle spalle, tutto necessariamente richiamare in uso per tentare la totalità. Ecco, dunque, gli estremi che si toccano, ma non per annullarsi l’uno nell’altro: “E’ il Niente che dalla vena rotta offre in soluzione / il Leviatano, il concreto farsi razionale a rimpasto”. La scelta è quella di creare una tensione irrisolvibile, di lasciare che tutto si fronteggi instancabilmente, di non lasciare riposare l’idea che esista il nulla rispetto alla totalità. Se dal linguaggio non si esce vuol dire che nulla esiste al di fuori del linguaggio e che all’interno del linguaggio nulla vi è a cui sia possibile rinunciare, errori compresi: “L’essenziale è saldo alla presenza non all’evidenza /differenziata della parola, obbligarsi allo sfinimento / all’umor fumistico; è riportare tutto all’incoerenza / della messa in opera, dei fondi resi a medicamento”. Seguiamo Luca Salvatore, il quale indossando un mantello da officiante assume il ruolo di castigatore e di commediante insieme: “Per noi suonatori della tanto singolare canzone, / per puro amore della forma, nel pieno d’agonia / la muta ostinazione si fa bestemmia e derisione” e volentieri accettiamo di assistere alla messa in scena di uno spettacolo rispetto al quale egli stesso ha provveduto a fornirci l’antidoto. Non sarà un’esperienza inutile rituffarci in acque mosse e vorticanti, perlustrare orizzonti inattuali e familiari insieme: ciascuno di noi ne emergerà con qualcosa di utile e di dimenticato, di nuovamente utilizzabile.
Vorresti?
Dead City Radio va avnti fino allo scadere suona
ancora la tua ora per chi s’è dannato lucidamente
jazzando Mexico City Blues, Coney Island della mente,
per chi dà fondo alla vita fino alla trama e sragiona
senza potere vederci chiaro e sempre barcollando,
sicuro che esser nati sia già un castigo sufficiente;
per chi s’è pentito di tutto solo alla fine cercando
la maniera giusta di rifarsi la bocca, torbidamente!
suona ancora per gli obbedienti a tutto e i dissoluti,
per tutti i pazzi esilarati tornati ai vecchi trascorsi
chiudendo il becco a morti traboccati ed Assoluti,
per noi veri metodici d’osteria sempre ai ferri corti.
Dead City Radio suona l’ora, senza accordi e difetti,
per chi èa pezzi e sa ogni strazio vero e tormento,
per quelli tutti d’un pezzo, i nutrimenti che vorresti,
e chi, perso il sesto senso, se la gode solo a stento.
A la morgue!
Rimonta alle origini, riempi tutto di nessi causali
con sistemi all’appello e il tuo istinto proverbiale,
rimescola a piacimento arcani e piani Universali,
dissezioni e ricalchi d’ultimo rango andati a male.
Avrai ancora di che divinare in segreto, e piegare
avventori di genealogie, di contraltari e falsi idoli,
miasmi esistenziali, peccati alla ribalta da espiare
con delle solide diete di nulla nei secoli dei secoli.
Dopo aver retto a forza con punte e rialzi l’ignoto,
che la bilancia avràfinito col pendere da un lato,
ci saranno ordini costituiti calati a basso degrado
da imporre al farsi imminente dei ricorsi a vuoto,
e solo anticipi contanti sulla merce alla consegna:
gabbi ardenti di tortura, manuali di retorica bruta,
da passare quel che sembrano organi in rassegna,
la grande opera di pennello finalmente compiuta!
Kurt and Courtney (the day Seattle died)
Ricordo fughe da fermo, gli amori appena sfiorati,
l’originale di com’eravamo, la solitudine messicana,
gli armstrong – riascoltando vecchi nastri registrati
al bianco e nero dei contrasti, attenuati in filigrana.
Venus in furs e a mille nella testa spettri meridiani,
sbronzi pensosi, ragazze scaltre e micragne penose
rincasati alla berlina e stanchi la mattina sui ripiani
di certami sbiaditi, a splendori ancora senza nome.
Allo Scalo dei trapassati colavano vodke dozzinali,
la radio suonava be-pop sotterranei, anfibi e flanelle,
“the needle & the damage done” di tossici abituali
su tutta la notte e tutti presi a cercarsi sotto la pelle.
Ricordo cocaine rodeo, i ci rifaremo all’altro mondo,
i “potesse tornare ancora il vecchio tempo andato!”
e quando in una sola notte ce ne andammo a fondo
dopo aver speso la Vita come sui banchi dell’usato.
Luca Salvatore è nato a Potenza nel 1978. Ha pubblicat Fumisteria ermeneutica (Joker 2006). Collabora con riviste e quotidiani on-line. Ha tradotto dal francese Tristan Corbière per le Edizioni del Foglio Clandestino. www.deadcityradio.it
Poeti di fronte alla notte, artisti sul bordo del precipizio, solitarie figure alla Caspar David Friedrich nel ghiaccio blu dell’immenso. C’è una natura del grande infinito impossibile da conoscere, da percorrere, da abitare, che dà all’uomo “la consapevolezza della sua umana fragilità”. E c’è una natura del quotidiano, vicino, possibile, da toccare – ginestre, siepi, eccetera - che racchiude in forme più familiari e composte tale fragilità.
Ma libro del mondo è comunque inquieto, più inquieto ancora sotto lo sguardo delle parole. Quando si attua quello che Guarracino chiama “un’effervescenza energetica del sapere”. Sì, possiamo intuire di cosa si tratta, qualcosa che resta dietro di noi anche quando ce ne andiamo.
Interrogare la notte
C’è un’immagine, in limine al De rerum Natura lucreziano (I, 136-145), che colpisce per la sua carica di disarmante e autobiografico titanismo, la prima e l’ultima volta di tutto il poema, ed è la dove il poeta, dopo aver confessato l’ardire del suo proposito di trasferire “in versi latini” obscura reperta, “le oscure scoperte” del genio greco, si rappresenta a noctes vigilare serenas, “a vegliare nelle notti serene”, a interrogare il gran libro della Natura per carpire al suo silenzio il segreto delle cose e clara…praepandere lumina menti, “trasmettere alle menti una luce scintillante” di verità.
E’ su questa immagine che mi preme soffermarmi, per gettare un minimo di luce da una diversa prospettiva sui complessi rapporti tra Lucrezio e Leopardi, tra due poeti cioè accomunati della più tragica oltranza interrogativa sul limite di un disagio storico e di un’essenziale disarmonia: un’immagine che si pone come l’emblema stesso della loro ricerca, per la sua urgenza allegorica e per l’orizzonte etico e gnoseologico che delinea.
Interrogare la notte, come dire interpellare e sentirsi interpellati dal mistero delle cose sul teatro dell’essenziale solitudine, che racchiude il corpo del soggetto poetico: Lucrezio (“tu mihi supremae praescripta ad candida calcis / correnti spatium praemonstra, callida musa, “e tu, nel momento in cui mi slancio verso la bianca linea che segna il termine della mia corsa, / mostrami la via, o musa ingegnosa”, VI, 92-93) e ancor più esplicitamente Leopardi (“Chi teme, canta”, Zib.3527) hanno coscienza che è in questo spazio che la parola poetica, sovraccaricata di una chiara intenzione di rassicurazione e seduzione, si incontra col ritmo di un pensiero dalle domande inesauribili per trasformarsi in un movimento che trova nell’infinito (o meglio, nell’indefinito) la sua figura essenziale, chiamando in evidenza e trasparenza le intime fibre dell’ombra, simulacra modis pallentia miris, “i pallidi simulacri di un pallore alieno” (123) non meno dei “mille vaghi aspetti / e ingannevoli obbietti” (Il tramonto della luna, 4-5), i fantasmi cioè della propria inquietudine, senza riuscire a vincerli ma anche senza restarne annichilito, in virtù di una eroica volontà di conoscenza.
Si tratta di un faticoso processo che per entrambi, pur per diverse vie, verte ad un unico risultato, quello di dare all’uomo la consapevolezza della sua umana fragilità.
In Lucrezio, si innesta e corrobora fin dall’inizio in un’ansia conoscitiva senza ipoteche e protezioni metafisiche, per approdare ad una visione dell’uomo difeso dalla corazza di una ratio capace di offrire finem…cuppidinis atque timoris, “un limite al desiderio e al timore” (VI, 25), una volta indagate e penetrate res occultas penitus, “i segreti più profondi della natura” (I, v.145), e di procurare un sollievo ai mali che affliggono la coscienza nella visione del triumphus Mortis del libro VI.
In Leopardi, matura per gradi, attraverso il progressivo rigetto di ogni mistificazione spiritualistica, fino a trovare sullo scenario lucreziano per antonomasia, le pendici del Vesuvio della Ginestra, il luogo dell’approdo e dell’emblematica conferma e consacrazione (“Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive”, 49-51) in toni di vibrante polemica nei confronti del “secol superbo e sciocco”(v.53).
“Nam cum suspicimus magni caelestia mundi / templa super stellisque micantibus aethera fixum, / et venit in mentem solis lunaeque viarum, / tunc aliis oppressa malis in pecora cura / illa quoque expergefactum caput erigere infit (“Quando, alzato il capo, contempliamo gli spazi celesti / di questo vasto mondo, e le stelle scintillanti fissate nelle altezze dell’etere, / e il nostro pensiero si porta lungo i corsi del sole e della luna, / allora ci sorprende un’angoscia, soffocata sino a quel momento sotto altri / mali, e comincia a farsi sentire…”, V, 1204-1208).
Come resistere o reagire a questa cura, all’angoscia mista a stupore di un qualcosa di incomprensibile, se non disponendosi al miraculum delle cose, all’invenzione di un pharmakon di saggezza affiorante all’improvviso dalle cose più neglette, dal tempo fatto cenere e dall’oro dei roghi immensi e distruttori dei boschi primigenii, di cui non a caso Lucrezio parla subito appresso al brano citato (1241-1280)? E’ “dall’ombra e dal disprezzo” (e contemptibus, 1278), che può sbocciare, fecondato dall’ambrosia di una ratio tutta umana, il fiore della poesia, la parola capace di dar voce alle domande più profonde, esorcizzando ogni paura nel canto (requies hominum divumque voluptas, “riposo degli uomini e piacere degli dei”, VI, 94).
“Sovente in queste rive, / che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte; e su la mesta landa / in purissimo azzurro / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle…”: sono versi centrali della Ginestra (158-163), in cui l’esperienza indefinibile dell’io, consegnata all’emblema di una fragilità resa onnipotente dal sentimento dell’umano e dalla consapevolezza della propria mortalità, acquista conforto e consistenza in virtù della perentorietà dell’interrogazione, dell’acutezza dello sguardo, portando sulla scena della lingua un’effervescenza energetica di sapere, a dispetto del silenzio e dell’avvolgente tenebra circostante, a dispetto della Notte e della terra ridotta a “flutto indurato” dalla cieca indifferenza della Natura.
In questi termini, a prospettarsi ècosìun orizzonte davvero nuovo e straordinario di lucidità e saggezza, in cui il dialogo del pensiero con il “solido nulla” (Zib. 85) di cui è allegorica figura l’indistinto notturno, connota l’intrepida energia di chi la sua battaglia esistenziale e morale sa di doverla combattere giorno per giorno attraverso la scrittura, con dialettica determinazione, fissando fieramente in faccia il proprio destino, “erta la fronte, armato / e renitente al fato” (Amore e Morte, 110-111) e disposto per essa “a sostenere ogni fatica” (quemvis efferre laborem, I, 141), nonostante il destino di sparizione di ogni vivente.
Vincenzo Guarracino, poeta, critico letterario e d’arte e traduttore, è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como.
Ha pubblicato, in poesia, le raccolte Gli gnomi del verso (ER, Como 1979), Dieci inverni (Book Editore, Castel Maggiore, 1989), Grilli e spilli (Fiori di Torchio, Seregno, 1998), Una visione elementare (Alla Chiara Fonte,Viganello, Svizzera, 2005); Nel nome del Padre (Alla Chiara fonte, Viganello, Svizzera, 2008); Baladas (in lingua spagnola, Signum, Bollate, Mi, 2007); Ballate di attese e di nulla (Alla Chiara fonte, Viganello, Svizzera, 2010).
In prosa, ha pubblicato L’Angelo e il Tempo. Appunti sui dipinti della chiesa di Ceraso, Sa (Myself, Como 1987).
Per la saggistica, ha pubblicato Guida alla lettura di Verga (Oscar Mondadori, Milano 1986), Guida alla lettura di Leopardi (Oscar Mondadori, Milano 1987 e 1998) e inoltre presso Bompiani, Milano, le edizioni critiche di opere di Giovanni Verga (I Malavoglia, 1989, Mastro-don Gesualdo, 1990, Novelle, 1991) e di Leopardi (Diario del primo amore e altre prose autobiografiche, 1998), l’ Appressamento della morte, il carteggio Leopardi-Ranieri (Addio, anima mia, Aisthesis, Milano 2003), il romanzo di Antonio Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata (Aragno, Torino-Milano 2006).
Presso le edizioni della Vita Felice, Milano, ha pubblicato recentemente le novelle di Verga Per le vie, 2008, Libro delle preghiere muliebri di Vittorio Imbriani (2009) e Amori di Carlo Dossi (2010).
Per l’Editore Guida (Napoli) ha pubblicato Lario d’arte e di poesie. In gita al lago di Como in compagnia di artisti e scrittori (2010).
Per la Fondazione Zanetto (Montichiari, 2010), ha pubblicato una biografia di Antonio Ranieri, Un nome venerato e caro. La vera storia di Antonio Ranieri oltre il mito del sodalizio con Leopardi.
Ha curato le traduzioni dei Lirici greci (Bompiani, Milano 1991; nuova edizione 2009), dei Poeti latini (Bompiani, Milano 1993), dei Carmi di Catullo (Bompiani, Milano 1986 e Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005), dei Versi aurei di Pitagora (Bagatt, Bergamo 1988; Medusa, Milano 2005), dei versi latini di A.Rimbaud, Tu vates eris (Bagatt, Bergamo 1988), dei Canti Spirituali di Ildegarda di Bingen (Demetra, Bussolengo, VE, 1996) e del Poema sulla Natura di Parmenide (Medusa, Milano 2006).
Ha curato inoltre le antologie Infinito Leopardi (testi di poeti contemporanei, Aisthesis, Milano 1999), Il verso all’infinito. L’idillio leopardiano e i poeti italiani alla fine del Millennio (Marsilio, Venezia 1999), Interminati spazi sovrumani silenzi. Un infinito commento: critici, filosofi e scrittori alla ricerca dell’Infinito di Leopardi (Stamperia dell’Arancio, Grottammare, AP, 2001), l’antologia Caro Giacomo. Poeti e Pittori per Giacomo Leopardi (Edizioni di Cronache Cilentane, Acciaroli, Sa, 1998) e Giacomo Leopardi. Canti e Pensieri, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005. Recentemente, una antologia da lui curata della poesia leopardiana, tradotta in spagnolo da Ana Marìa Pinedo Lòpez, El infinito y otros cantos, è stata pubblicata da LietoColle (Faloppio, Co, 2009).
Ha curato le antologie Poeti a Como DialogoLibri, Olgiate Comasco 2002) e L’AltroLario (Editoriale Como, Como 2004) e inoltre Ditelo con i fiori. Poeti e poesie nei giardini dell’anima (Zanetto Editore, Montichiari, Bs, 2004) e Parliamo dei fiori (ibidem, 2005).
Ha curato per Book Editore (Ferrara 1995) l’antologia delle poesie di Roberto Sanesi L’incendio di Milano e per La Vita Felice (Milano 2009) Dieci poemetti dello stesso autore. Nel 2010 ha curato l’antologia delle poesie dell’artista Agostino Bonalumi, Alter Ego (Ferrarin Incontri d’Arte, Legnago, VE).
Per la critica d’arte, si è occupato dell’opera, tra gli altri, di Luca Crippa (Castelli di carta. Tra disegni, collages e polimaterici di Luca Crippa, 2002), di Giorgio Larocchi (Sulle tracce di un “disegno perduto”. Giorgio Larocchi pittore, 2007) e di Mario Benedetti (In un regno notturno e labirintico, 2008).
È inoltre autore di una monografia sul regista e drammaturgo Bernardo Malacrida (Il teatro tra passione e missione, 2008) e della biografia di Antonio Ranieri (Zanetto Ed. Montichiari, Bs, 2009).
Nel campo dell’editoria scolastica, ha curato l’antologia latina per i bienni delle Scuole Superiori Giorni e sogni latini (Ediermes, Milano 1994, poi Zanichelli 2000), la storia della Letteratura Latina Litterae (Minerva Italica, Milano 1996) e l’edizione commentata dei Carmi di Catullo (Signorelli, Milano 2006).
È stato direttore della collana dei Classici Tascabili dell’Editore Bompiani. È Presidente del Comitato comasco della Società dante Alighieri. Collabora, come critico letterario e d’arte, a quotidiani e periodici.
Un necessario dire
Capita talvolta che un verso, come ho già avuto occasione di notare, riveli l'intima natura di un componimento: per quanto riguarda "Cinque giorni", di Albino Crovetto, credo che
"Hanno angoli e piani, esatte profondità"
possieda tale valenza.
Quest'assidua, raffinata e compatta versificazione si fa apprezzare per un'esattezza profonda, quasi un orologio battente un tempo tutto poetico ne dettasse il ritmo.
L'autore non ci abbandona mai, né si lascia dimenticare: è lì, assieme ad ogni pronuncia, ad ogni parola, ad ogni segno d'interpunzione.
Assieme, non dietro.
Non si tratta di una sorta di voce fuori campo o di una fantasmatica presenza, bensì di un'originale, genuina, attitudine ad esserci.
Per opera di una spontaneità naturale quanto costruita nei felici esiti poetici, emerge un complesso, elegante, fluire di versi i cui toni delicati (ma risoluti) sorprendono:
"Questa piazza non accoglie"
è contemporaneamente immagine topografica ed emotiva nella forma di una presa d'atto misurata e ferma, tale da non consentirci di dubitare dell'esattezza di un'espressione verbale così ricca d'energia.
Crovetto confida nel suo dire, non esita: una non comune propensione alla franchezza conferisce carattere al suo linguaggio.
Un individuo puòsentirsi quasi costretto a scrivere versi?
Sì e in questo caso per nostra fortuna.
da Cinque giorni
Sera del quarto giorno
Una moltitudine di luci,
una città verticale di morti.
Pulsano le luci, respira forte un animale,
s’inarca nel cemento.
Il balzo è assente:
a ritroso è carne rovesciata
il dentro fuori
trattiene slanci, chiude arterie.
Guarda i resti di un incendio
e sorregge tronchi.
Il nero verso l’alto
è in basso,
la corteccia bruciata è la sua pelle.
Quinto
In questi scaffali le cose
si sono alzate
con una forma simile al mattino:
un bianco liquido di sbarre dietro agli occhi.
Il richiamo che ho inviato
niente lo sorregge,
e se viaggia con l’aria
giunge
d’un tratto al fianco
di persone
mischiate dentro una stretta
di strade e di cancelli.
In basso una sequenza di fatti.
Questo fiume mostra le sue pozze:
argini nudi, una vertigine di bianco.
Un frutto spaccato i semi trascinati.
La pioggia scende
battendo colpi ripetuti,
teste distorte.
La nuca si contrae fino alla notte e oltre.
Albino Crovetto (1960) è nato a Genova, dove vive e lavora come fotografo e grafico. Compreso in antologie e riviste quali “L’erbaspada”, “Origini”, “Poesia”, “Arca”, “Frontiera”, “Il posto delle fragole”, ha pubblicato l’antologia La letteratura ligure (Costa & Nolan, 1982) e il volume di poesie Una zona fredda (Niebo/La Vita Felice, 2004), vincitore nel 2005 del Premio Lorenzo Montano per l’edito. Ha tradotto Arie di Philippe Jaccottet (Marcos y Marcos, 2000).
La scrittura di Guido Turco, che è prosa e poesia insieme, manifesta il suo tratto distintivo nell’andamento meditativo e meditabondo che sorregge il girovagare del
pensiero e del vedere. E’ come se l’autore, in cammino dentro e verso luoghi non ancora circoscritti, portasse la parola alla scoperta di un paesaggio di “cose prima che queste usino tanti nomi”. E ciò che la fa avanzare è la percezione dell’esterno che emerge da un’interiorità fortemente, ma lentamente, disarticolata e poi riannodata con i nodi che una lingua (usata per produrre realtà e non per farsene trasportare) è capace di fare e sciogliere.
Per Guido Turco la creazione di un mondo scritto avviene con la ricomposizione di una frantumazione di particelle, di molecole all’interno di una nebulosa percettiva che vede raggrumarsi “l’immaginazione per capnomanzia”. Il fumo, dunque, le sue conformazioni che portano a riconoscere e a ricostruire continuamente la propria capacità di osservare; e in questa visione ciò che si scrive è propriamente ciò che la mente di-segna in scrittura. Prima nella virtualità e nella lucidità del pensiero, poi concretamente con la durezza dell’alfabeto.
Possiamo allora dire che l’autore operi in una direzione di introspezione, attraverso una narrazione senza eventi e, deliberatamente, “eventuale”. Ossia, ciò che accade prosegue il suo viaggio nei meandri di un percorso mentale che si ostina “a chiamare in modo differente una stessa realtà”. Ma il valore di raffigurazione (pur distorta e anamorfica) che questa poesia narrante dimostra è anche un’operazione di ispezione (specialmente nella seconda parte del testo) su colui che pensa e scrive. Un soggetto consapevole di non riuscire compiutamente a dire, ma lo dice ugualmente: con fratture di senso, polisemie significanti, allusioni conoscitive e forse illusioni di sapere o di cercare qualche dimestichezza con un reale inafferrabile.
In questi testi si concentrano due modalità dell’esperienza sensoriale: un punto di vista e un centro di visione. Il primo permette di scegliere una possibilità di vita per compiervi dentro le proprie peregrinazioni poetiche, con la sapienza propria della scrittura che ci si è dati; il secondo, più congetturale, impone la sua capacità di metamorfosi per ricreare e unificare il dentro e il fuori, attraverso lampi di saggezza “tra l’infinito e i suo ausiliari”. Ed è proprio l’interconnettersi e l’alternarsi di queste due modalità percettive che permette all’autore una consapevolezza precisa: la scrittura (prosa o poesia qui sono indistinguibili) congiunge, con la materialità del suo fare, la distanza visionaria e intellettiva (l’infinito) e le sue materiali delucidazioni discrete (gli ausiliari). Vista e visione, sapienza e saggezza, sono dunque i percorsi (labirintici, frastagliati, nebbiosi quanto si vuole) entro cui si svolge un lavoro pensante che prova a cogliere, a raggiungere, a svelare qualcosa muovendo parole.
da Qui non è più adesso
***
A me interessa la linea di tensione, gli inciampi, le stasi, le occasioni di trasformazione, il passaggio da una fase all’altra, noi dobbiamo rinunciare alla presa di posizione, stare presso i volti che possiamo fare, ora non appare niente, ma una smorfia filosofica rompe improvvisamente une regolarità stabilita, incolla e rende elastica questa tiritera, la fa risuonare, me la lega al dito, sul taccuino delle sconclusioni, perché non invecchiamo onestamente come le foglie, incessantemente aggiornati possiamo suturarci con il nostro divenire, di ogni cosa diventata solitaria seguire gli improvvisi srotolamenti.
Corpi conduttori
Viene nel seguito una descrizione del rallentamento dell’atto di andarsene le molte analogie con le frane di questi così inutili versi metafore già contenute nel diminutivo latino Lucilla una voce piena dei suoni della giungla città che fuggono perché non dormono ogni successiva rinascita una sfumatura di risveglio quel che basta per simulare la maga che trasforma i compagni in porci e salva dall’indistinto le più piccole pietre del destino dall’infanticidio l’immagine di una rosa ma non il suo profumo quel sorridente distacco che nasce dal lasciare le cose prima che queste usino tanti nomi e non si riesca ad apprezzarne la spogliazione.
After suffering a blood disorder
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L’uomo che avevo sospettato di essere non dava a sapere cosa avrebbe voluto lasciare vissuto a farneticare davanti a un cartellone pubblicitario a esaurire quanto il genio più sublime sapesse esprimere in fatto di dolore angelico e femminile come di fierezza e compiacenza notti dal finale sfuggente ogni pagina trasformata in una farfalla tremolante del calore emanato dalle erbacce sassi e rovi chicchi sfarinati verdure selvatiche con il potere dell’ombra a riproporre la profondità appiattita del pianoro. Domandò ad altri la soluzione ma raggiunti i limiti parve meglio tacere, lasciare irrisolto l’irrisolvibile.
2
Conduceva indagini eccentriche. Ne otteneva un lampo che acceca e non dice nulla, squarcia e allude alla paranoia del sapere che non si potrà sapere, conoscere nulla di come viene trattata la propria vita, ecco tutto è detto e cancellato cantato urlato scomparso dentro il congegno. Manteneva l’illusione che tutto quello bastasse per registrare autentici capolavori. Deambulava nelle immagini come fossero gesti secchi, fotofinish.
6
Anche i temi della guerra avevano un certo risalto, corrispondente grosso modo a grida di scorreria, canti di trionfo e canti di gioia. Combinava volentieri questa polifonia con armonie aggiuntive e assemblava vari temi tra cui quello sulla notazione del vivere secondo il carpe diem, questioni relative alla fiducia nella scienza e, forse l’eccentricità, forse il disprezzo e l’indifferenza per le cose. La vita ci perseguita per sempre con i sacramenti di supposti anni felici, il ricordo che ci fosse un albero che stormisse e che avesse già cominciato a piovere, armi bianche che bisogna istruire cercando di colpire le api della disperazione nel ventre, le loro abitazioni fatte di gambi di asfodelo e di giunco. Si fece un tatuaggio dei due protagonisti della storia, impegnato affinché la voce che graffiava il cuore non citasse nessun personaggio. La luminosità s’attenuò ancora.
Guido Turco (1959) vive in Francia. Nel corso degli anni, insieme a raccolte di poesia (Le Traduzioni dal Mondo, 1993; L’Indizio della Grazia, 2002; La Musa Estinta, 2004) e al saggio su Poesia e paesaggio (Lietocolle 2006), ha proposto lavori come combinazione di scrittura e immagine, i cui esiti sono confluiti in diverse esposizioni.
Non esattamente un dialogo a distanza e anzi nemmeno un dialogo, pure se le poesie di Alessandro Assisi (sulle pagine pari) e di Chiara De Luca (sulle pagine dispari) si fronteggiano. Potremmo certo pensare che è solo la comune passione ad averli spinti verso un comune progetto. Anche se proprio la lettura dei due rispettivi modi poetici ci dà la possibilità di verificare un’ulteriore affinità nei modi trasversali e lacunosi che queste due originali forme di scrittura possiedono. Una tramatura: come se la poesia fosse una rete che ci consenta di afferrare e di perdere insieme, ma facendoci rendere conto, come attraverso una bilancia, di ciò che tratteniamo e di ciò che invece ci è sfuggito. Se in Assiri, infatti, c’è un costante senso di perdita - siano riferimenti o oggetti, sentimenti o certezze razionali - che sembrerebbe colpire persino lo spazio e il tempo: “ disperarsi a pochi passi da casa / dove il tempo non è pieno / ma solo arrotondato per tornare”, in De Luca c’è uno sgomento rispetto al potenziale uso del senso “a tradire che il messaggio l’avevamo / con gli occhi al buio forte decifrato, / sfatto in sillabe da sciogliere nel vento / per ricondensare a caso un senso”. Certamente un malessere di fronte all’infondatezza o alla fondatezza relativa o una sensibilità troppo acuta dell’inutilità del comprendere, eppure l’ineludibilità dell’atto è apertamente dichiarata: non si smetterà per questo di cercare e di scrivere poiché nella rete qualcosa resta e serve. Infatti, al fondo di questa miracolosa pesca, seppure non si ricomponga per Assiri la figura cercata disegnando (“come ti immagino vivi / bagnata così come ti dipingo”) e se per De Luca si tratti solo di un’operazione di dissimulazione, quasi uno stato perenne di difesa (“sono tinte forti che fingo / aver perduto, cose ) pure resta forte un ancoraggio a uno zoccolo duro di realtà da cui prendere le mosse o a cui tentare disperatamente di far ritorno. Poesia serve a reinventare la vita.
da sui passi per non rimanere
***
Il tempo ha evacuato la terra dei fantasmi
snudato le lunghe lance della luce
che sfiora il tocco lieve dell’aria,
mentre si allungano ad accarezzare
insinuando la punta sul tavolino
per raddoppiarmi d’ombra le mani,
cammino dove più non potevo,
è solo chi il buio l’ha sceso
a vedere dove viene l’amore
come un fuoco dentro distante
in sentieri che non hanno riparo.
Chiara De Luca per non rimanere
***
sono sui passi per non rimanere
come ieri, o era un altro magari
un viaggio che si adatta
al non essere più vero
di questo silenzio sceso
su chi non ti usa
su chi non ti chiama casa
per restare a bocca chiusa
Alessandro Assiri sui passi
***
Nel tempo s’impara a migrare internamente,
per cambiare casa non occorre traslocare:
sbiadiscono le voci come stanche foto
non danno nostalgia paesaggi già sommersi,
s’incartano i ricordi belli per riporli
come ciò che del vissuto è stato risparmiato.
E’ una musica l’assenza che sfuma intensamente,
siamo note nel vuoto a cercare uno spartito
e non resta bianco all’infinito il pentagramma.
Chiara De Luca per non rimanere
***
vedi torniamo a esser deboli
in ogni giorno che al futuro assomiglia
in un posto speciale dove
tragicamente
disperarsi a pochi passi da casa
dove il tempo non è pieno
ma solo arrotondato per tornare
Alessandro Assiri sui passi
***
Forse per aver svestito a lungo le parole
immobile spiato dietro vetri inesistenti
premuto forte porte aperte per scoprire
nessuno a sporcare il bianco dell’attesa
l’urgenza segna adesso l’andatura
di un dire che non ha piùil tempo
di bussare
Chiara De Luca per non rimanere
***
derivare è provenire
galleggiando dal fiume
prosciugato dalle pietre
levigate agli angoli
smussate
derivare è proseguire
tirar dritto verso il mare
Alessandro Assiri sui passi
Chiara De Luca, nata a Ferrara, scrive poesia, narrativa, saggistica e per il teatro. Traduce da inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese. Ha pubblicato con Fara i romanzi La Collezionista (2005) e La mina (stra)vagante (2006). Per la poesia, La corolla del ricordo e animali prima del diluvio, entrambi nel 2010 con Kolibris Edizioni.
Ha creato le Edizioni Kolibris, dedicate alla traduzione e diffusione in Italia della migliore poesia straniera contemporanea: www.edizionikolibris.eu
Alessandro Assiri è nato nel 1962 a Bologna. Si occupa di arte e di promozione culturale nel territorio. I suoi ultimi volumi di poesia sono Quaderni dell’impostura (Lietocolle 2008) e La stanza delle poche righe (Manni 2010).
Collocarsi tra due mondi stando in bilico su una parola: parlare di scienza o, almeno, utilizzare il vocabolario relativo all’attività scientifica per virarne subito il significato costruendo un’immagine come se si stesse osservando un quadro, è l’operazione da equilibrista che Carlo Invernizzi nel suo “Secretizie” attua. Ma è, in qualche modo, anche reclamare al proprio ruolo poetico una capacità di rappresentare che non è immediatamente visibile negli astratti bollettini che rendono la conoscenza scientifica una pura registrazione di eventi. Nella poesia di Invernizzi, gli ioni infigurabili vengono di fatto rappresentati con uno sciame di parole: pertiche luce, stambecchi luce, schidieluce e ricevono una colata di verbi che s’incaricano di raccontarne l’esistenza: allampano, fiammeggiano, s’avventano, arrambano, s’infugano. Ma ancora più frequenti sono i versi in cui il soggetto e il verbo vengono a mancare e quello che si consuma nel buio è pura luminosità: “Frammentità diafane / invano apparibili / nelle specole d’illuminio / dell’infosco indistinguibile”. Il passo è breve e notiamo che sul foglio vengono convocati tutte le parole con cui si indica l’inesprimibile: immanifestabile, imprevedibile, invisibile, inlimite, inconoscibile, impenetrabile, inesplorabile, indistinguibile. Quasi un controcanto al fuoco pirotecnico linguistico messo in atto per rendere l’inesprimibile un oggetto descrivibile. Siamo sull’orlo del paradosso, ma d’altronde anche di un esercizio portato a termine: l’irrappresentabile è di fatto reso vividamente dinanzi ai nostri occhi, diremmo, per la capacità di Invernizzi di rendere visibile la sua pagina, di renderla comunicativa come una superficie pittorica animata da colori e da moto, da luci e da pesi, in un tour de force che tende le parole, le deforma, le stravolge e dona loro una persistente scia.
da Secretizie
***
Chi sa d’entropia
non ignora l’instabile
informe
movimento di molecole
che in polimeri s’aggrumano
derivano in trame inquiete
s’aggregano in macchie bilenche
erratiche
che brulicano
sui picchi della mente.
(1983)
***
In fluttali altitudini
perpendicole fuggitive
di abbaglio in abbaglio
tra luminanze stigie
di là dal vuoto che remiga
dell’escluso confine.
(1988)
***
(I colchici)
Esangui
eppure risplendenti
questi colchici sulle chine
lustri di gelobrina
impettiti nel loro niente
già in dissolvo
nel vortice senza fine.
(1996)
***
Nel ventre del niente
viscere vortici
infoco di stelle
s’incende la vita
arsa
risplende invano al nascimento
ventoluce insazio d’incenero
in catastrofi senza fine
d’annichilo.
(2001)
***
Nell’insecco
stremato da arsura
d’un tratto m’incolsero
nell’oscurità
allampi d’annaspiluce
scintillanti in vortico
sanguerossastri
sull’invertico di sprofondi tetri
in vano abbranco
troncati di baratro in baratro.
(2008)
Carlo Invernizzi vive e lavora a Milano e a Morterone. Fa parte del gruppo “poiesis” fondato da Maria Vailati. Pubblicazioni recenti: Carlo Invernizzi. Natura naturans, Milano 2002; Canto silente, Morterone 2006; Pura eco di niente, ivi, 2008; Ingrumolita, Roma 2008.
Un dinamico dire
Con "Soloacqua" Marinella Galletti presenta un agile componimento dall'intenso dinamismo.
Un mondo d'acqua, di mare, di scogli, di sabbia, non privo di tratti esistenziali, prende forma nelle cadenzate successioni di una poesia che si offre come immagine, come affascinante scaglia di vita la cui peculiare caratteristica pare appunto quella di un assiduo, elegante, movimento.
Marinella corre assieme ai propri versi, quasi le sue parole, pur impresse sulla pagina, tendessero a fuggire ed occorresse un'ulteriore, vigilante, energia per tenerle assieme.
Non si pensi ad un imperfetto controllo del linguaggio: al contrario, intendendo comunicare certe impressioni, l'autrice costruisce attentamente lo strumento idiomatico adatto per via di ritmici passaggi che propongono lineamenti esatti, precisi.
Le immagini scivolano l'una sull'altra, ma sono definite, mai ambigue, esito di scelte poetiche volte ad un dire per nulla incerto.
Ricordo i versi
"Vie profonde e lontane."
e
"Molte acque in mare."
Si tratta di pronunce concise, concluse dal punto fermo, in grado di ben rappresentare un vivido senso di continuità: quei punti non fermano, non costituiscono, a ben vedere, nemmeno pausa, bensì rendono testimonianza della necessità d'aspetti utili a proseguire un certo discorso.
Il discorso inedito ed affascinante di questa poesia.
Soloacqua
Dal mare allo scoglio.
Nel già bruciato corso
inesplicabile del tempo
un giorno prima atteso
entro luoghi compressi
solo i mari posati sulla
riva solo ramo disteso
che ho trascinato sullo
scoglio non voglio che
anche tu ora incontrato
sia del giorno sia finito.
Solo d’acqua il giorno.
Più giorni sono trascorsi
come lampi come corse
lungo rive e poi discese
mi ricordo mi rivedi steso
un velo sulla spiaggia la
tua acqua le mie braccia
in confini destinati oltre
linea d’orizzonte senza
cielo solo acqua solo a
braccia dentro l’acqua.
Sassi come cuori e luci.
La via del primo giorno
un luogo che non sia del
tempo l’immagine né
il fuoco il centro il perno
ma il mare il mare eterno
ovunque sia che corra e
sia imprendibile l’acqua
tra le pietre in luci mosse
sopra il diedro legno arso
in cielo il sole è apparso.
Vie profonde lontane.
Prospettive del giorno
il cielo s’apre al mare
e a conchilifera sabbia
calamita d’orme forme
gridi e ombre di stormi
quale finestra e sfondo
di salite ed immersioni
e di più lontane strade
oltre lo schermo piano
del cielo a cui miriamo.
Molte acque in mare.
Basteranno questi lievi
giorni senza notti sugli
spalti di cemento dei
moli sotto i venti acque
gettate oblique scrosci
varie spume orizzontali
su noi due fatti animali
scaglie sulla nuda pelle
abitiamo come l’acqua
come il vento risaliamo.
Marinella Galletti (1957), autrice di opere di narrativa, poesia e arte visiva, si occupa di “arteterapia”. Sintesi della sua ricerca letteraria e artistica, “la modularità”: parole e dipinti come cellule di un racconto visivo. Nata a Casalecchio di Reno (BO) nel 1957, insegna Disegno e Storia dell’ arte al Liceo Classico “Cevolani” di Cento (FE), dove vive.
Tra i Musei e le Collezioni in cui compaiono sue opere d’ arte, vi sono CSArt Reggio Emilia; WORLD MUSEUM Cesano Maderno (MI); MUSEO MAGI900, Pieve di Cento (BO); GALLERIA D’ARTE MODERNA BONZAGNI, Cento (FE); CASSA DI RISPARMIO, Cento (FE). Tra i più recenti riconoscimenti letterari, nel 2006 è vincitrice del Premio LORENZO MONTANO “Raccolta Inedita” con pubblicazione dell’ opera “Dentro alle fonti”, Anterem Edizioni (VR), opera che risulterà finalista nel 2008 al Premio CITTA’ DI CASTROVILLARI per il “Libro Edito”. Pubblica nel 2008, con Ennepilibri (IM), la silloge finalista al PREMIO GIORGI 2000, “UN comunque PAESAGGIO”.
L’ opera d’ Arte Visiva e Poesia “EVA E ADAMO Percezione dell’ esperienza d’ amore” Nuovecarte (FE) 2008, è segnalata, ancora inedita, nel 2007 da FARA EDITORE, e nel 2008 al Premio LA CITTA’ DEI SASSI (MT). Vincitrice del Premio CITTA’ SANT’ AGATA DI MILITELLO 2006 per il “Racconto Inedito”, è finalista nel 2008 al Premio Città di Forlì FOSCHI EDITORE per il “Romanzo Inedito”.
Nel 2009 riceve menzione di merito al Premio L’ AUTORE che ha curato la pubblicazione e uscita editoriale del romanzo “Gli stormi nel cielo”, MAREMMI EDITORI FIRENZE LIBRI nel 2011. Nel 2010 è finalista al Premio Lorenzo Montano, per la “Poesia Singola”.
http://marinella.galletti.literary.it
http://marinellagalletti.oneminutesite.it
Un poetico fare
Nell'aprire "Pino marittimo" con le parole "A fare", ripetute all'inizio del secondo verso, Camillo Pennati pone in essere un nucleo d'energia idiomatica capace di conferire peculiari caratteri a tutto il componimento.
A fronte dei molteplici significati attribuibili a simile replicata pronuncia, importa, in questa sede, richiamare l'attenzione sull'emergere di un lineamento linguistico ricco d'originalitàespressiva: quel "fare", labile e, nel contempo, tenace, sembra alludere all'accidentalità d'ogni possibile frangente della vita.
Si è in presenza, insomma, di spiccate valenze evocative: viene mostrata un'immagine proiettandola su uno schermo così vasto da renderla immensa.
Non incerta, si badi, bensì estremamente ampia.
L'elemento attorno al quale ruota il fluido scenario è costituito da quel "pino marittimo" che dà titolo alla poesia.
Un albero si staglia, alto, "contro il cielo" accanto a (contingenti) situazioni specifiche dell'umano esistere: non si tratta di simbolismo, ma di un esserci nel medesimo tempo.
Il paesaggio (spiaggia sabbiosa, battigia), ben lungi dallo svolgere il ruolo di quinta scenografica, è presente, in maniera vivida, accanto a complesse condizioni esistenziali nel cui ambito due individui sembrano rispecchiarsi secondo rapporti tanto distinti, quanto privi di rigorosi confini.
In chiusura, al doppio richiamo dell'incipit fanno da contrappunto riflessi acustici ("quel sopraggiunto risuono") non certo volti a porre per sempre termine ad un'affascinante successione di versi che tende a restare aperta, a non finire.
Con l'intimo, assiduo, ritmo di chi riesce nell'ardua impresa di costruire linguaggi davvero originali, Pennati offre al lettore sequenze repentine e armoniche, intense e leggere, raffinate e non artificiose.
Un'ulteriore prova di consapevole dire poetico?
Sì, senza dubbio.
Pino marittimo
A fare nell’immaginare sconfinato un blu spaziale
a fare sulla pelle lo sciacquio del mare
e della sabbia i corpi là adagiati a contornare
in quel residuo bagliore primordiale
basta un pino marittimo
che svetti contro il cielo la sua chioma
e il tronco nell’avvolgente volume dell’aria
al tuo attratto guardare
anche da qui in una lontananza del sostare
da una battigia che risuoni quel lambire
se adesso non ne cogli il rapinoso
palesarsi della sgombra visuale
da allora nel trascorrere da quando in te
l’esistere e la vita l’uno nell’altra
non erano mentr’erano per singolare consistenza
quella distanza apparentemente tanto
e non così di sua parvenza irreale
anche se sempre d’illusorietà consustanziale
nell’eco di quel sopraggiunto risuono.
Camillo Pennati è nato a Milano nel 1931. Ha pubblicato Una preghiera per noi (Guanda, 1957); L’ordine delle parole (Mondadori, 1964); Erosagonie (Einaudi, 1973); Sotteso blu (Einaudi, 1983); Di sideree vicende (Anterem, 1998); Una distanza inseparabile (Einaudi, 1998); Modulato silenzio (Joker, 2007). Vive a Todi.
All’apparenza, questa raccolta di Carolina Giorgi, si presenta come una personalissima scelta di poesie di Emily Dickinson tradotte. E indubbiamente lo è. Ma entrando più a fondo, come si conviene davanti a versi così speciali, ci si accorge che l’autrice scrivendo, e accogliendo in se stessa e smuovendo le pulsioni che stanno nei versi letti, crea qualcosa che potremmo definire un oggetto d’arte interiore.
Di chi sono le parole di questa raccolta? Di Emily Dickinson o di Carolina Giorgi? Sembra una domanda retorica, una fantasia emotiva, ma non lo è se disponiamo il nostro sguardo in modo non usuale, e con un preciso angolo visivo che ci permette un’interpretazione e forse una comprensione. Vediamo infatti che l’autrice portando a sé e costruendo (nel senso del fare che attiene alla poesia) con parole altre una sua opera, non sposta semplicemente la scrittura da una lingua all’altra, ma riesce a dare forma, pensiero e materia a una sua poesia autonoma. La poesia, in generale, inizia sempre da proprie scelte paradigmatiche (una visione, un pensiero, un’ immagine, uno sguardo, una cosa, ecc.) che, nel caso specifico confluiscono tutte in una preferenza per altre parole. Ma per Carolina Giorgi, probabilmente, ciò che è veramente importante è la singolarità dell’esistenza di queste poesie dell’autrice americana: poesie scelte una ad una e riconsiderate nelle parole di un proprio sentimento linguistico. E non si discute qui di un esito mimetico, ma di come, a partire da una lettura poetica, si dia altra poesia.
Possiamo certamente leggere i testi della nostra autrice confrontandoli con ciò che li origina, oppure in modo autonomo come rinascite personali, ma crediamo sia più vitale un punto di vista diverso. E’ come guardare il paesaggio da un vetro: si può focalizzare il paesaggio o il vetro, ma una percezione ricca di sensi si ottiene nello spazio visivo che mischia vetro e paesaggio, con una continua alternanza della visione. Si potrebbe dire allora che è lo spazio presente fra le due autrici, la sua trasparenza, a raccogliere le vibrazioni delle voci e ad accoglierne il richiamo che genera e rigenera i versi.
In questo senso la poesia è sempre traduzione: portare altrove il proprio dire, ricombinare le significazioni, incorporare un suono e riportarlo a nuova voce. E l’andamento della voce in Carolina Giorgi è fondamentale per assorbire i tratti distintivi che, nella sua traslazione, caratterizzano l’opera di Emily Dickinson, e di rimettere nuovamente al centro della sua esistenza la parola che è riuscita a trovare: il fulcro poetico che dice la cosa e la trasforma. E’ questo il tragitto che si compie dentro una riflessione linguistica e sensoriale: lì dove il poeta (ma anche ogni lettore quando è in cerca di senso) trova, o rende necessario trovare, molteplici direzioni e spesso oscuri passaggi.. E in questo modo il pensiero non può non diventare, pur nella costante consapevole precarietà di chi scrive, un momento insostituibile che “ci coglie a trasalire -/noi - di un attimo/immortali ”.
da Leggendo Emily Dickinson
[1674]
Not any sunny tone
From any fervent zone
Find entrance there –
Better a grave of Balm,
Toward human nature’s home –
And Robins near –
Than a stupendous Tomb
Proclaming to the Gloom
How dead we are –
Nessun nodo di sole che
da qualche dolco luogo
possa entrarvi –
vorrei rupi di resina
con rondini e dell’uomo
ancora accorte –
non arnie d’urne splendide
che adornino di oscuro
la mia morte –
[391]
A Visitor in Marl –
Who influences Flowers –
Till they are orderly as Busts –
And Elegant – as Glass –
Who visits in the Night –
And just before the Sun –
Concludes his glistening interview –
Caresses – and is gone –
But whom his fingers touched –
And where his feet have run –
And whatsoever Mouth he kissed –
Is as it had not been –
Verrà d’argilla un ospite –
che al fiore arando affini –
a farne statue – la
corolla – e vitree trine –
che – all’albino effuso – stinga il
verboso scintillio –
e di levità sfiorando
il buio – vada via –
ma chi di un tocco alle sue dita –
e luogo – al passo –
e bocca al bacio arrise –
da ora visse –
[536]
The Heart asks Pleasure – first –
And then – Excuse from Pain –
And then – those little Anodynes
That deaden suffering –
And then – to go to sleep –
And then – if it should be
The will of its Inquisitor
The privilege to die –
Dapprima gioia –
poi – dal rogo si assolva –
poi – a tregua dal buio
uno scudo di malva –
adesso – infine
chiede il cuore – l’agio al sonno –
e – se concesso –
il privilegio di morire –
[761]
From Blank to Blank –
A Threadless Way
I pushed Mechanic feet –
To stop – or perish – or advance –
Alike indifferent –
If end I gained
It ends beyond
Indefinite disclosed –
I shut my eyes – and groped as well
‘Twas lighter – to be Blind –
Al vuoto – elude il dove –
inducendosi il mio passo –
se avanti – disavvede –
se innomade –
se muore –
avessi fine e infine,
infinitezza!
celo gli occhi
e incedo
meno cieca –
[217]
Father – I bring thee – not Myself –
That were the little load –
I bring thee the departed Heart
I had not strength to hold –
The Heart I cherished in my own
Till mine – too heavy grew –
Yet – strangest – heavier – since it went –
Is it too large for you?
Padre – di me stessa
il dono è poca cosa –
ti offro il cuore avulso
di cui mi vinse il peso –
reco il cuore che fu prole
del mio finché lo ressi
che – perduto – mi è più greve –
è d’improba grandezza? –
Carolina Giorgi è nata a Mantova il 18 novembre 1973. Dopo gli studi classici, si è laureata al Dams con una testi sperimentale in Semiotica dello spettacolo (La comprensione dello spettatore). A Bologna ha effettuato alcune collaborazioni in ambito teatrale e musicale. Giornalista pubblicista, ha collaborato con il settimanale La Cronaca di Mantova e con il mensile nazionale A tavola. Una raccolta di sue poesie è stata pubblicata nel volume Hemeros (Verona, 2004), è quindi entrata a far parte del consiglio editoriale della collana Opera Prima. Suoi testi poetici sono apparsi sulle riviste Poesia, Hebenon e sul webzine Transfinito, e citati su Il segnale.
Ha pubblicato il romanzo Le spine di Venere (Firenze, 2005), medaglia d’argento al Premio Letterario Internazionale “Maestrale - San Marco” (Sestri Levante). Nel 2007 è stata nella giuria del concorso di scrittura erotica indetto da Loveline, talk show di Mtv Italia. Autrice di prefazioni a testi poetici e antologie artistiche, è oggi impegnata a tempo pieno nella scrittura.
La lingua delle foglie
Con "La resa delle foglie", Sebastiano Aglieco presenta una composizione in cui elementi tratti dall'ambiente naturale si connettono alla sua stessa vita: il verso
"Se potessi fermare il vento con le mie parole"
pare emblematico.
Il poeta ipotizza addirittura di riuscire a trattenere il vento con le sue parole, ossia di poter adoperare con profitto lo strumento linguistico oltre la dimensione umana, in maniera semplice, diretta, non per via di scienza e tecnica.
Questo è il punto.
Perché gli alberi, gli uccelli, le nuvole sono insensibili al nostro idioma? Perché non parlano?
E' banale rispondere che la lingua, tipica dell'uomo, estende le sue facoltà, in maniera ridotta, ad alcuni animali domestici o addomesticati: è banale, senza dubbio, ma proprio su questo il Nostro s'interroga.
Certi mutismi a lui dicono qualcosa.
Dicono, se non altro, delle vicende di un'umanità che accanto al mondo pone modelli, schemi, paradigmi, in maniera incessante, talvolta perfino eccessiva, dicono, insomma, di un ambiente dal quale non siamo separati da rigidi confini:
"Le nuvole calme vedono il mio quaderno".
Le "foglie", così, sono "sorelle" imploranti un perdono dovuto perché l'empatia o, meglio, la compassione coinvolge ogni aspetto dell'esistente accomunando in una visione generale noi stessi e tutto quanto ci circonda.
Con pronunce chiare, articolate in cadenze la cui musicalità pare a tratti celarsi in una sorta d'espressionismo sonoro implicito ma efficace ("rimanere tra una pausa e / il canto della voce oscura!"), non alieno da propensioni descrittive né da improvvisi impulsi visionari trattenuti entro trame poetiche coerenti, Sebastiano Aglieco mostra come un intenso desiderio, pur consapevole dei propri enigmatici aspetti, possa continuare a sussistere in maniera proficua.
L'enigma può essere d'aiuto, davvero.
La resa delle foglie
Ogni tua parola ripetuta
è aperta nella bocca e battezzata
alla luce dei vivi. E’ per sangue
che mi spargo, per lasciarmi
attraversare dalla tua mancanza.
Dammi, ora, ciò che mi spetta
lascerò la casa del padre
con la lama puntata dritta
alla mia destra e verrà la notte
dai fondali, un mantello di rose
che hanno la bocca misteriosa delle favole.
Saremo amati nella chiarezza
avremo una voce per pane
nella campana della sera.
Cala improvvisamente il vento.
Il figlio suona una canzone
che tocca le foglie
il serpente si affaccia dalla sua contaminazione
adesso puoi ridere di me.
Se potessi fermare il vento con le mie parole
guardarti con l’amore e
le braccia che non conoscono
toccare il suono pulito che
dorme nella tua testa
rimanere tra una pausa e
il canto della voce oscura!
Cerco una musica in me
una storia consegnata per anni
a questa pelle sottile
cerco la semplice resa e la bocca
nel punto in cui, improvvisamente
nella misura del pane, siamo felici.
Le nuvole calme vedono il mio quaderno
forse lo sguardo del mondo si consuma
nel fiato delle nostre piccole bocche.
E siete qui, sorelle foglie
case dai tetti affacciati come braccia
implorate il perdono che i fratelli vi devono
aprite questo sguardo ai campi arati, in pendìo
tra le pieghe delle nostre sere!
e tuccàti, sulu tuccàti sti me paroli
e rusicàtili, spalancàtili o nenti.*
*e toccate, semplicemente toccate queste mie parole
e corrodotele, spalancatele al nulla.
Sebastiano Aglieco è nato a Sortino (SR) il 29/01/1961. Ha pubblicato diversi libri di poesia. Gli ultimi sono: Giornata, La vita felice 2003; Dolore della casa, Il ponte del sale 2006; Nella storia, Aìsara 2009; e il libro di saggi Radici delle isole, La vita felice 2009. Insegna nella scuola elementare.
Il suo blog : Compitu re vivi (miolive.wordpress.com)
C’è una sorta di pudore, necessario e ineludibile, quando si tratta di descrivere il dolore che i familiari provano per la malattia dei propri bambini. D’altronde, va subito detto che l’autore, Daniele Mencarelli, nel suo “Bambino Gesù”, dà voce a un operatore dell’ospedale, non è un parente direttamente coinvolto e pertanto solo da questa distanza, si può tentare di dirne qualcosa. Come, infatti, descrivere un tale dolore se non da una posizione esterna, quando non ci sia una distanza temporale a fare da diga e filtro. E, dunque, con un linguaggio piano, quasi scolastico, in presa diretta – linguaggio che Mencarelli utilizza anche per le due altri parti della sua silloge che trattano temi legati alla memoria e alla descrizione di paesi – avviene la registrazione del dolore altrui: “La tua voce l’ho sentita questa sera / tremenda come il tuono che preannuncia, / ed è arrivata mostruosa la tempesta / un uragano di lacrime e delirio”. Nel luogo in cui si concentrano fisicamente i corpi investiti da tale funesto evento, quasi un paese l’ospedale, Mencarelli cerca di disegnare una piantina di orientamento, di rendere familiare ciò che ripugna, di condurre a mansuetudine l’orrido ambiente. Esiste una condivisione del dolore fra chi soffre e chi vede la sofferenza altrui, qualcosa che travalica qualsiasi altra differenza, che può servire da puntello per sopravvivere, come esiste una naturale difesa di chi non è coinvolto direttamente, ma ne condivide lo spazio e vuole allontanare da sé le visioni di bambini morenti e di madri che paiono fantasmi. Parla, in relazione a sé, di abitudine alla frequentazione, al pianto delle madri, ma forse in un modo in cui trapeli che stia mentendo: non è mai possibile essere estranei a un tale dolore. In una sorta di elenco di tutti i possibili comportamenti, di tutti i possibili modi di affrontare la pena e il disgusto, Mencarelli non è un osservatore scientifico: passano attraverso le sue parole i sentimenti di chi si sente parte in causa e le sue parole raggiungono anche il lettore, irretendolo nella medesima rete di dolorosa partecipazione.
dalla sezione Bambino Gesù ospedale pediatrico
***
Ed è da quando ti ho incontrato,
“Bambino Gesù”, ospedale pediatrico,
che il pregarti quasi mi vergogna,
io come altra fortunosa umanità
a invocarti per la piùvana delle miserie,
ignari di quanti nel pieno del supplizio
cerchino tua voce col poco fiato rimasto
o i tuoi lineamenti nel buio della stanza.
Se valgono questi versi una preghiera
dai giorni, anni, a questi uomini futuri,
ora bambini che forse non vedranno
la fine di questa sera di settembre.
***
(padiglione S. Onofrio)
Lode al più grande artista vivente
al suo genio alla sua opera immortale,
lode a quel ragazzino o ragazzina
che ha trasformato in arte pura
gli strumenti della quotidiana sua tortura,
un cielo fatto di azzurre mascherine
le nuvole di garza e ovatta idrofila,
le verdi chiome degli alberi
con il cotone della camera operatoria,
creati con tubicini trasparentie colorati
gli uomini le case gli steccati.
Lode a te che davvero patisci la tua arte
non nei pensieri ma nel male della carne,
il tuo capolavoro è appeso fuori la cappella.
dalla sezione In marcia
***
A Giovanna Sicari
Roma è arterie gonfie, gente
in marcia, congestione di vita dietro vita,
e pensare che qui abbiamo amato l’infanzia
mischiati nel tempo come forestieri.
Forse, tra i banchi di piazza Vittorio
o d’estate a Ostia nel mare degli umili
io e te ci siamo visti e sfiorati
sorrisi e ringraziati, te ragazza in fiore
io bambino appena, ci siamo visti
e per un attimo amati, non importa per cosa.
***
A Raymond Carver
Certo di dettare il passo
chiedi strada nessuno ti resiste,
l’occhio inquadra meccanico lo specchietto
dietro di te una macchia lontana,
torni con lo sguardo alla strada
giusto il tempo d’accordare le tue ruote
alla curva larga senza freni,
alle tue spalle quella macchia ha preso forma
rossa appuntita ad un palmo dall’asfalto
voce purosangue d’acciaio e carbonio
perfetta opera d’uomo a Dio gradita,
senza bisogno di chiedere permesso
sposta la tua marcia al centro della strada.
dalla sezione Guardia alta
***
Cose bellissime questi occhi vedono
assolati paesi sotto il gelo dell’inverno
riposano nella mattina di domenica,
invita l’Appia deserta a Roma lontana,
ed eccola nitida la città grande
fino alla cupola piùalta si presenta,
brilla un confine di mare dall’altra parte.
La mia casa è fin dove arriva lo sguardo,
questo palmo di terra, tutta mia vita.
Daniele Mencarelli (Roma, 1974) ha lavorato come operaio all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e da diversi anni si occupa di fiction alla Rai. Ha pubblicato le raccolte di poesia I giorni condivisi La Nuova Agape, 2001) e Guardia alta (La vita felice, 2005).
La scrittura che si costituisce in poesia vive una duplice natura: può essere sfuggente e in costante disequilibrio e, nello stesso tempo, è concretezza che diventa, in modo indissolubile, ciò che dice nel modo in cui lo dice. In questo senso, il testo diventa una cosa. La poesia, allora, non è più solo se stessa in parola, ma si trasforma in un oggetto in cui non è possibile distinguere (se non si vuole svilire la sua significatività) la materia che la dice - la lingua -, dalla sostanza detta - l’opera -.
In queste pagine, Mario Fresa, ci dimostra che la sua scrittura si presenta da subito come “un fiore, un nome, un sacrificio”, dunque in un costante tentativo di costruirsi la sua validità (l’autore, in modo più etico, dice “la dignità”) che abbaia il senso di un libro. E quando questo accade, la voce che ne dà consistenza non ha più alibi, non può più sfuggire a un destino, prima impreciso (quando è in atto il solo pensiero), poi indicato (quando la voce comincia a darsi parola scritta) e ora segnato (quando l’opera si incarna in sé), dove tutti i sensi si originano e tutte le trasformazioni possibili di un reale contemplato o sognato diventano, oscuramente o limpidamente, ciò che sono in se stessi. La parola, che per Fresa vorrebbe essere, ma ancora non è la realtà, è “un sonno non respirato ancora”, ma quando il suo fiato, prima flebile poi deciso poi ansimante, prende corpo, scatta ciò che chiamiamo poesia, che è realtà del mondo e di se stessa.
E’ la mente sonora a imprimere andamento e direzioni a un linguaggio dalle significazioni estese: a tal punto da abbracciare, nelle proprie estensioni, anche la frammentazione “come una miniera”, uno smembramento di sé che la scrittura produce sfigurando e ridisegnando il dicibile. Nella lingua del nostro autore il lessico distingue fortemente i sensi dalla falsa precisazione ordinaria: in questi testi ogni sinestesia è possibile (si tocca la luce, si annusa l’attrito, si vede la musica) affinché il corpo della poesia sia il suo proprio corpo e non quello del linguaggio che lo crea. Ma la parola, così immersa e così tesa, presa in un vortice di sensi lievi e duri che ne ricostruisce i significati (anche all’interno di una singolarità sintagmatica spesso ossimorica), lascia affiorare la sua necessità implicita: una sensualità che tocca la punta di un paradigma quasi mistico. Non in senso religioso, ma per la sostanza d’ombra e di accecamento che produce vibrando.
Fresa, però,èconsapevole che la sua parola non ostenta, né richiede, né desidera assolutamente la presa di uno sguardo esteriore, perché “la parola non vuole nessuna visibilità”. La voce e la scrittura poetica devono resistere al disvelamento e concentrarsi, fare deserto intorno per suggerire e riaccendere il senso, perdere e ritrovare e così separare “l’autentico durevole dall’apparente”.
da Aura
5.
Noi parliamo concludendo le menzogne luminose: su
questa strada gonfia di rose, di fiammiferi, di gridi.
Ma fuori s’immaginano i cibi (e i tuoi vestiti; e la mia
pelle). Attorno a questo piccolo mantello sia fatta
luce e infanzia.
Le penombre che s’incrociano col bianco delle forme
stabiliscono per sempre: rinuncia e seduzione.
La sua vera tristezza mi richiamava allora con un
pudore, con una fame priva di dominio.
Perciò difendimi: èproprio questo il puro desiderio
che decide la ritrosia, l’arrivo dei serpenti.
Non si vede chiarore: perciò gli tocca l’orlo del
vestito. Ora ripete: proviamo due o nessuno.
Quello è il segreto vero – ah, labbra, figura,
sfinimento – e quello è il suono dell’acqua, l’attesa
che ti prepara le dolci sbarre, la quiete, la sorpresa.
Ora lui si domanda e chiude la parola; lui sa bene,
ma non sa mai ridire.
Io ti accarezzo, allora: difendimi, difenditi.
8.
Poi tu – e le tue frasi gravi: quel fiore è un fiore; perciò
mi sono persa – non fai che dichiarare un beneficio
questa nuova, incalcolata sparizione.
La fortuna ora passeggia sulle industriali forme
delle rovine: è dunque un beneficio sopra il viso che
obbedisce a una furiosa festa, quando ritardi a
tanto, quando ritardo?
Senza dubbio lo è stata. Il dio si mostra errante:
diventa pensiero di pensiero. Là dritti, poco precisi.
Tagli, sospiri, sovvertimenti.
Non si può dimenticare un libro: se lo scriviamo,
infatti, non ci appartiene piùdegli stessi oggetti –
penne, scaffali, tavoli, schermi – e niente si definisce
libero e costante.
Non si può desiderare quest’azione: privilegio del
servire.
La traduzione va riscritta, docilmente, senza rima,
senza alcuna compiacenza; quindi germogli, slancio,
ferita; quindi ricerca, impulso.
C’è una sembianza che prepara un’alleanza
sconosciuta e una solenne
capacità d’intesa.
10.
Tu sei arrivata, intanto, alla parte più difficile e
curiosa: da uno a dieci, scegli.
Laggiù, tutti avvinghiati (ma sempre estranei l’uno
all’altro). Quello, perciò, risponde: se per caso lo
facessimo anche noi? Qui, da quest’angolo nascosto,
allora, ti osservavo con segreta ammirazione.
D’improvviso ricordavo, a intermittenza, l’ombra
bizzarra e informe, la piega bruna, le morbide
ginocchia, lo sforzo della lunga camminata.
Ma noi tranquilli sempre; toccandoci per bene, e
rimandando continuamente il termine del gioco.
11.
e intanto l’aria si trasforma in un audace furto,
e vuole tutta entrare.
Mario Fresa è nato nel 1973. In poesia ha pubblicato Liaison (2002), L’uomo che sogna (2004), La dolce sorte (2005), Il bene (2007), Alluminio (2008).
Ha collaborato e collabora alle riviste “Paragone”, “Nuovi Argomenti”, “Almanacco dello Specchio”, “Caffè Michelangiolo”, “Gradiva”.
Ha scritto con Tiziano Salari un libro dialogico sulla poesia, Il grido del vetraio (2005) e ha curato, sempre in sodalizio con Salari, due volumi di indagine
critica: Le tentazioni di Marsia (2007) e La poesia e la carne (2009).
La poesia di Erika Crosara si presenta alla lettura con un dato lampante e inequivocabile: una perentoria forza di dislocazione che la sua scrittura attua, non solo semanticamente o nella costruzione del sintagma, ma attraverso un vero e proprio spostamento dei paradigmi concettuali e percettivi. E questo crea una forma di disequilibrio significativo, tutt’altro che negativo, che fonda e rifonda costantemente l’oscillazione del senso.
E’ vero che in poesia non si dà mai comunicazione ordinaria e ordinata, ma qui, grazia “alla caduta di ogni sillaba”, e senza frantumare l’impianto lessicale, ciò che si ricrea in modo vigoroso è il senso della realtà. O meglio, la convinzione e, di fatto, la possibilità, che i suoi svariati punti di vista possano essere rifondati (anche in modo oscuro o elusivo) attraverso il fare della lingua. IUS, il diritto, sta allora dentro la necessità e la volontà di assumersi la responsabilità della scrittura: dei segni e dei suoni che puntano alla concretezza, che provano a “rompere un pane e le pietre” con un aggancio, evidenziato in vari momenti, alle cose del mondo talmente forte da ren- derlo quasi impraticabile al normale sguardo, ma non a quello di una poesia capace di ri-conoscere e ri-collocare l’esperienza, fuori da ogni ingenuità o realismo.
In questi testi la consapevolezza di ciò che si può dire e di come dirlo è esemplare: “pensava in ogni occasione al marchio dell’inizio, al/marchio della fine”. E in questo percorso meditativo quello che, secondo noi, è veramente rilevante è “il marchio: cioè la possibilità di imprimere un andamento, un transito alla propria voce che possa scavare e creare un solco vitale. La parola di Erika Crosara è materia che spinge e punge con un ritmo a scatti, a rotture, a frangimenti dentro il mare indistinto della vita, dove prendono rilievo “la forma del piatto”, “un suono di piccoli animali”, “un monticello di pietà” a dar corpo a un ascolto che riverbera la parola con un atto di rilevanza estrema: liberare il poema risolvendo, anche in solitudine, il suo essere contemporaneamente oggetto e soggetto del proprio farsi o frammentarsi. In tutte queste pagine si respira il diritto che la scrittura ha di costruire poesia. Non solo come mero atto materiale (seppure anche questo importante) ma, grazie al “tropo delle meraviglie”, riesce a rifinire e trasfigurare un discorso, per l’autrice, cruciale: ciò che avviene va detto dall’ interno, ancorandolo alla pelle e contorcendone la linearità apparente per significarlo nuovamente e veramente.
Il suono di questa poesia, allora, non ammette filtri che ne abbassino il grado verso una normalizzazione, e l’autrice è sempre attenta a far sì che il gesto vocale e fisico continui a distinguersi, rimodulando gli echi per “dire cose” mai guastate da un significato molle o non incuneato in un’esistenza vera: non solo verosimile, non soltanto veritiera. Perché la parola in poesia può arrivare anche per caso, ma non è mai casuale dove va a situarsi. Dove il poeta cerca il sentiero, il comporsi del testo in forma di sostanza linguistica ne determina il suo divenire - infinito o sfinito, non importa - e fa sì che quella parola, quella voce, quel suono possano essere solo quelli, in quel dato luogo e in quel preciso istante. E, paradossalmente, questa precisione, che può essere anche “un’identica furia”, è ciò che nei versi di Erika Crosara disorienta, per certi richiami interni, certi riavvolgimenti linguistici che ricollocano i sensi in un’interiorità che taglia le immagini e segna le visioni, dove qualcuno può arrivare anche ad ammalarsi per un canto di uccello. E non è poco riuscire a dirlo così, senza patetismi o forzature, ma con fermezza e leggerezza.
dalla sezione Dis
(blu)
perché cadono: per i giusti termini dello sfinimento.
però cadevano del tutto a metà, e il resto del resto
in piedi su vetri svuoti, rifranti, con filigrane davanti.
si dice che prema i moti alle masse, che duri sulle
cartine votive sui cerchi di un piccolo vento, spinto,
l’uomo che credi non caduco, le mille bocche.
dalla sezione Ius
***
“che paura disse che ho quando dalle sedie o dagli
altari vedo il rimorchio, gli uomini piccoli in spanne
con fori di ardimento. fa un monticello di pietà ciascuno,
un triangolo visivo inadempiente”.
***
per la scena delle scene avrebbero vestito un
congegno mutabile, una macchina di legno e gesso
capace di passare da parte a parte il ciclico,
lo statico. divisioni discrete di soggetti confluivano
e un amanuense.
dalla sezione Pais
***
aveva contato per due durante le prime ore, contato
per tre, aveva contato ma presto rinveniva il pentimento
se non era buono il umero tenuto, saperlo sortire.
invece il grado di bianchezza, di pelle nevicata e lasciata
andare, diceva che l’ordina alla degnità era fiorito, che
oramai prendeva tutta la casa ovvero le care stanze, della
più vecchia tra i vecchi, l’intero piano di sotto.
***
forse diventava grande l’ingombro, o forse
lo era. i ganci assaltati e le maglie non coprivano
abbastanza. una questione di fili non ha modo di
essere detta? c’era per ogni amorevole casa la cura.
(siamo rimasti senza regali: la selva e i nastri
bianchi senza vederci dentro un fondo. il pudore
in perpetuo ridotto a giglio, a saluto con salto).
per daniela s.
Erika Crosara è nata a Vicenza nel 1977. Laureata in Conservazione dei beni culturali, vive in provincia di Udine. Suoi testi poetici sono ospitati in antologie, riviste e blog letterari. Ius è il suo primo libro di poesie, pubblicato da Anterem Edizioni come vincitore del Premio Lorenzo Montano per “Raccolta inedita”.
La poesia ha origine in una scrittura dal movimento bipolare continuo: dall’ interno all’esterno e viceversa. In modo tale da generare un senso inafferrabile, ma nello stesso tempo, data la multi direzionalità dei significati, a tratti o a frammenti, comprensibile. E’ ciò che propriamente accade leggendo questi testi che hanno come referente le transazioni finanziarie.
Mori ha scelto l’argomento forse più ostico da indagare in poesia: perché si tratta di un bene ipermateriale, il denaro, ma anche il più astratto nei suoi camminamenti socioeconomici. Ma l’autore non usa la performance poetica per descrivere o esprimere il suo pensiero in un’ indagine sull’argomento, egli, consapevole della struttura e del valore ramificati della scrittura, prova a recepire gli umori dell’oggetto per ritrasmetterne i rumori. La poesia di Mori, infatti, non esaurisce il suo percorso sulla pagina, ma scandisce il suo ritmo con l’esecuzione del corpo fonico intrinseco alla versificazione. E ciò permette una figurazione a zig zag che apre la significazione “finanziaria” ad una direzione che riporta, anche in modo non lineare e con fraseggi ellittici, alla poesia stessa.
Vediamo nel concreto un verso: “Password con atonalità dodecafonica di riconoscimento”. Si parla di una cassaforte homebanking, ma l’evidenza può ingannare. Se interpretiamo attraverso paradigmi poetici (e Mori è talmente attento e padrone dell’arte linguistica da esserne certamente consapevole), vediamo che la frase può essere letta come una definizione metaforica di ciò che è, o può diventare, una scrittura non ordinaria: parola dalle modulazioni interne non univoche, ma riconoscibile nella sua specificità di arte. Può sembrare una forzatura interpretativa, ma leggendo la raccolta si comprende quanto forte sia la capacità di disarticolazione dell’oggetto sociale in questione: tanto da incorporarlo nella scrittura, non come significato esterno univoco, ma frantumato e reso quasi inconoscibile rispetto alla lingua specifica che lo dice. Nel testo sono tanti i luoghi dove questa trasfigurazione si manifesta: apparentemente appoggiata al soggetto che dà il titolo e tira le fila, ma ancorata liberamente alle capacità artistiche di cui Mori è maestro. Come la visualità che traspare in alcuni testi, accanto a un’altra caratteristica portante di queste poesie: il tocco di leggerezza e di lucidità che le tiene, come se fluttuassero in aria, ma con lo sguardo verso il basso, dove l’umanità c’è e il “conto delle spese mensili sussidiarie/illude e disillude”.
Ma bisogna anche pensarli a voce questi testi, perché nella concretezza del suono il senso viaggia e prende spessore, fa attrito in una visione fulminea di povertà che è il corollario maligno dell’attività finanziaria. Oppure in un’immagine quasi soave, quasi un dipinto zen dove un euro è appoggiato “sopra il limone” e l’immagine sotto è quasi di un giardino “cosparso di monete”, come una via di fuga su cui scommettere per resistere e per dissolvere la quotazione di ciò che mercifica e dà un prezzo alla parola sudata.
da Financial
***
I volti abbassati sulle agende
Chi prenderà la parola
traccerà la fine dell’oscillazione
Le mani si allargano
appoggiano sulla tavola
Le liquidazioni avvicendano
Gli occhi cercano punti distanti
Li ravvicinano
All’adunanza creditori
iniziano a dismissionare
***
Affioca l’executive dell’investimento
Luce polarizzata ora
soltanto dal debito acceso
e l’azione smorza
deflatta disinnesca
bassa percentua
***
Dow Jones siede
Appoggia la mano sul tavolo
La rovescia lentamente aprendo il palmo
Poi richiude tutte le dita
Struscia il dorso fino al bordo
Sull’indice ritto improvvisamente verso pavimento
passa luce subitanea
Resta indicante
mentre immagine dissolve
***
I diagrammi del mercato azionario intrecciano
sulla curvatura dolcissima degli schermi alto parietali
Emettono quote simultanee ad orografie luminose
Spezzano percetti di tracce fluorescenti
***
Nella luce aurea sulla pelle
il bilanciamento differenziale delle spese mensili sussidiarie
illude e disillude
sul crinale contabile della pendenza
ed assesta
ad estensione delle braccia
in attesa del passaggio equilibrante
Alberto Mori, poeta, performer e artista, in più di vent’anni di attività ha costruito e alimentato una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione, dalla prosa alla performance, all’installazione, al video e alla fotografia. Nello stesso tempo, ha collaborato con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni. Nel 2001 Iperpoesie per Save As Edicion e nel 2006 Utópos per Emboscall. Peccata Minuta sono stati tradotti in Spagna. Più volte finalista al Premio di Poesia Lorenzo Montano.
Website: www.albertomoripoeta.com
Che una descrizione così sonora e raffinata possa avere ragione anche di un argomento triviale, o semplicemente banale, del tutto insignificante come la visione di un camionista in panne visto per qualche secondo mentre si percorre un’autostrada, riporta immediatamente l’attenzione sulla pura forma, come in un esperimento che voglia isolare solo alcuni elementi all’interno del fenomeno poetico, dove la visione sia strumento dichiarato d’indagine che attesti di un atto poetico che fonda la propria certezza quasi in una ripresa di cartesiana memoria. Se a questo si aggiunge un dichiarato riferimento al segno, il quale è innestato nel linguaggio utilizzato da Marica Larocchi come pietra preziosa che nel linguaggio non si dissolve, ma funge da elemento aggregatore, elemento boa, allora siamo di fronte a una dichiarazione di poetica talmente limpida che il suo significato a questo punto non può che risiedere nel flusso poetico che si dispiega ininterrottamente e imperiosamente richiamando la nostra attenzione al senso sonoro dell’ascolto: “bensì, nel vario / itinerario imposto / dal nume locale, segni / stinti d’ascesi / o parapetti d’anabasi / indiscussa”. E che tutto diventi segno sotto lo sguardo di Larocchi indica la metamorfosi che ha luogo sul foglio: “Ed ora / non ti avvedi del / timbro ammalorato / su questa cute / di voli tatuati”. Suono e senso non si confondono, né si uniscono, ma coesistono nella loro doppia esistenza, rubando continuamente l’attenzione del lettore, imponendo un’autonomia che non può essere dissolta, nemmeno nella considerazione di un ordine superiore. Pare che nessun residuo resti, che realtà, per quanto piatta, insignificante, forata, discontinua sia, venga senza sosta e immancabilmente sottoposta a un processo attraverso cui debba assumere necessariamente un senso. Di questa immaginifica visione, incantatrice pagina, colma di sonorità e di senso come può esserlo una fonte da cui sgorghi continuamente una rapente immagine per gli occhi, Marica Larocchi è straordinaria fautrice.
Solstizio in cortile
1
A lungo ho sperato
che fosse un volo
lasco e poderoso
sopra l’immenso
brulichio di larve.
Invece è questo
tuffo molle
di starna, d’anatra
muta o di svasso
in parata dentro
i crepacci della memoria;
e che riemerge adagio
con l’infanzia nel becco.
2
Pensieri a sciami
sono alla cova
tra i licci di
un’antica fame;
già pronti a divorare
accenti e toni.
Oggi mi accoglie
soltanto la cinica
risacca d’alghe
riepilogative,
se l’oracolo
mentitore
impone ai presagi
di sprangarmi il cielo.
Restano poche
spine nel crampo
della luce.
3
Ecco la poiana
dei vaticini
appesa al ramo
in cortile,
avida persino
di un’indagine troppo
fatale.
Ma sul collo scalzo
dei tetti la sua
invettiva inciampa
nel nido degli incontri
sonnambuli che lo
spiedo della mente
infilza senza colpo
ferire.
da La linea della vita
2
Né ascisse né ordinate
per l’insolita adunata
dei segni, ma solo
un rimpianto che albeggia
adagio dall’orlo
un po’ scheggiato
della guida
quando, scissa
dai suoi tutori, anche
l’angoscia cade
nel suo astuccio
di trepide astine.
6
C’è nell’inchino
esperto della vela
la presunzione di approdi
e bonacce;
ma è sempre una
folata estrema a
declinare nel taglio
scogli ed ormeggi.
Perciò ne conservo
la rotta collaudata:
fulva e sottile
linea della vita.
Marica Larocchi, lombarda ma di madre slovena, è poetessa, narratrice, traduttrice e saggista. Tra le sue raccolte poetiche: Lingua dolente (Milano 1980), Fato (Milano 1987), L’oro e il cobalto (Bologna 2001), Le api di Aristeo (Bologna 2006); tra le opere in prosa, Il suono del senso (Verona 2000), Carabà (Lecce 2000), Rimbaud, Un racconto (Lecce 2005), Il tavolo di lettura (Lecce 2007), Luogo e formula (Lecce 2009); ha tradotto Rimbaud, Flaminien, Radiguet, Jouve e curato un’Antologia dei poeti parnassiani (Oscar Mondadori, 1996). Vive a Monza.
Le prose di Ercolani affermano, in piena consapevolezza che èla forma di ogni opera, dispiegata attraverso il suo specifico linguaggio (segno, immagine, suono…), ad essere significativa – non certo, non del tutto, le eventuali, descritte, “emozioni” che pure fanno da trama, come si conviene, alle pagine.
E’ innegabile però che questi testi (i testi di Turno di guardia) si pongono in equilibrio tra letteratura e analisi situandosi su un crinale dal doppio orizzonte dove lo sguardo prende le misure al racconto e, pacatamente, continuamente, ne rinnova approcci e distanze.
Turno di guardia
estate 2009 – estate 2010
Questa esistenza demonica,
questo vivere in estrema vicinanza con l’assoluto,
in beatitudine e orrore,
sfugge all’alternativa salute-malattia.
Karl Jaspers
Corsia notturna
Durante il giorno mi riferiscono deliri malinconici o magiche visioni del mondo. Mi raccontano crimini inesistenti, ingiustizie spietate, desideri favolosi. Parlano e parlano. Commentano, delirano. Ma, a notte alta, quando dormono nella corsia, vorrei spiarli con una piccola pila, attento a non fare il minimo rumore, vorrei capire se la sofferenza di poche ore prima ha lasciato una cicatrice reale nella loro pelle. Immagino occhi scuri, palpebre pesanti, labbra semiaperte. Oppure volti deformati da accessi di collera e pianti clamorosi che riposano come se nulla fosse accaduto, smemorati, immersi in un silenzio collettivo. Ma quella pace non mi appaga: è generica, vuota. I folli, svegli o dormienti, non sono mai simboli. Non voglio camminare accanto ai loro letti. Torno nella mia stanza di guardia, mi addormento. Comincio a scrivere di loro.
Mi chiedo se sono spettatore delle loro voci o tutore delle loro furie. Se sono un veggente passivo o un poliziotto attivo. Chi è veggente spalanca porte, intravede misteri, aggiunge disordini. Chi è poliziotto tappa bocche, lega corpi agitati, intima ordine. Ma non si è mai una cosa soltanto. Si è sempre altro da sé. C’è un’isola borderline tra l’essere troppo liberi o troppo prigionieri, una zona della mente dove avere visioni non significa necessariamente perdere la ragione, un luogo dove, nell’attimo in cui tutto crolla, si sostituiscono a quella distruzione dei paesaggi immaginati ma reali.
Oscillare senza cadere
Quando ascolto un ‘matto’ delirare, ogni sistema logico diventa instabile, come se io e lui fossimo su una passerella oscillante. Ma, nell’attimo stesso in cui io e lui ci mettiamo a parlare tutto ritorna stabile e c’è una via di scampo. Io vacillo e lui sprofonda. Ma, vedendomi vacillare con lui, sprofonda di meno. È felice che io barcolli, che sia simile a lui. Sa che io, essendo psichiatra, non sprofonderò. Sa che lui, in quanto matto, può farlo. Ma sente che, se ha una possibilità di salvarsi, deve imitare la mia strategia. Oscillare senza cadere.
Da psichiatra verifico nelle furie della follia la mancanza di una forma. Da scrittore sento nella forma dell’opera la fine delle furie. Due verità opposte: il destino deforme del ‘matto’. Ha voluto sciogliersi dalla forma che lo imprigionava e ha fallito. Mi carico di quel fallimento per osservare nodi che appartengono a me e a lui. Conquisto una distanza che è già reciproca via di salvezza e di avvicinamento al mondo parallelo che, da quei nodi, inventa nuovi universi.
Se il mio compito come lettore e interprete della malattia, è decifrarla e trasformarla in qualcosa di altro dal sintomo, il mio compito come scrittore è lavorare su una scrittura che renda impossibile e altro il linguaggio. Chi, come lo psicotico, non ha niente da perdere perché crede di possedere tutto, ha come suo doppio l’artista che non ha niente da perdere perché non ha e non vuole avere nulla.
Racconti di fate
Durante il mio turno di guardia sento sillabe ripetute, urla stereotipate, cantilene. Niente di drammatico o di poetico. Chi soffre non ha nessuna voglia di rappresentare la sua sofferenza e se ne libera o con una nenia o con un grido. Bisogna rispettarlo. Conosco un ex ingegnere nucleare che, nelle fasi deliranti, si crede un Agente dei Servizi Segreti. È un uomo intelligente, consapevole della sua malattia. In un recente colloquio mi dice di aver scritto dei racconti e mi invita ad entrare nel suo sito web. Lo faccio, incuriosito, sperando di trovarvi qualche suggestiva allucinazione. Invece leggo raccontini che parlano di bambini, fiori, animali, regali natalizi. Cosucce graziose. Per un attimo sorrido, provando pena per quel prodotto mediocre, ma poi me ne vergogno. Un uomo come lui, ossessivamente consapevole della sua sofferenza psichica, non ha nessuna voglia di rappresentarla – e quindi di riviverla – nei suoi racconti. Che invece, nel tentativo di respingerla ai margini dell’io, simula lo stato di grazia di un paradiso infantile. Senza valore per chi frequenta le bellezze della letteratura, ma essenziale per chi percepisce la scrittura come evento psichico. Così, per disinnescare le loro follie violente, Robert Walser scriveva racconti ossequiosi e gentili e Friedrich Hölderlin firmava con il nome di Scardanelli tranquille quartine paesistiche. Solo chi non sta troppo male può ancora parlare del suo inferno. Chi è sprofondato nei sintomi fino al collo ha bisogno di sollievi semplici – musichette, isole dei famosi, racconti di fate. Ricordiamo che Proust non sdegnava le canzoni mediocri, suscettibili di scatenare imprevedibili madeleines.
Mulini a vento
Un giorno cercai di persuadere un uomo di trentasei anni, in preda a un delirio megalomanico in cui credeva di essere Gesù, Budda o Gandhi, a raccontarmi ciò che provava, a scriverne su un taccuino. Lui mi guardò con sospetto, poi disse: Io non scrivo, io sono. Aveva già tracciato, per i giorni a venire, il suo programma: dimostrare di avere ragione contro chi gliela negava, e pagare il prezzo di questa lotta. Il segno più evidente della psicosi è che ogni parola pronunciata non appartiene alla sfera del linguaggio, e tantomeno all’universo della metafora, ma è verità rivelata. Chi si sente messaggero di questa verità guarderà con sospetto sia i funzionari di potere – poliziotti e psichiatri – che lo invitano a tradirsi, sia i compagni di follia che enunciano verità diverse dalla sua. L’uomo di cui parlo ha sofferto per mesi di un’infezione alla gamba sinistra che solo per caso non si è trasformata in cancrena. Per mesi, pur zoppicando, ha negato la realtà di quella ferita. Non lo considerava un problema. Lo avrebbe risolto quando avesse voluto. Poi il dolore è cresciuto; lo ha spinto, suo malgrado, a farsi curare.
Il ‘matto’ intraprende sempre una lotta ostinata contro le convenzioni della sofferenza, del pensiero, della percezione: una lotta grandiosa, destinata al fallimento. L’esagerazione, maniacale e donchisciottesca, è comune, in campi diversi ma contigui, anche all’arte. Se non si esagera lottando con i mulini a vento contro una uniforme pianura noiosa, se non si vive fino in fondo quell’“energia dislocante della poesia” di cui parla René Char, accettare le regole della vita e del linguaggio è solo un debole atto di sottomissione a codici già scritti, una sconfitta umiliante. La speranza nasce quando – parzialmente sani – cerchiamo di sfruttare, tra affanno e pazienza, l’energia vorticosa dei mulini.
Guarigione, scrittura
Francis Ponge scriveva: “Gli uccelli di Braque sono molto più pesanti dell’aria, come sono realmente gli uccelli, ma volano meglio di tutti gli altri perché, come i veri uccelli, partono dal suolo, ridiscendono a nutrirsene e ripartono in volo”. La metafora di Ponge è perfetta per l’arte della scrittura ma anche per la fatica di guarire. Ridiscendere, nutrirsi e ripartire in volo, mi ricorda il compito dei traduttori e degli interpreti, che si confrontano con i dolori e con le opere degli altri. Io, non avendo una vita che potessi dire mia, sono diventato ventriloquo e interprete di vite e follie altrui nelle quali rispecchiarmi e delirare.
Lo chiedo spesso ai miei matti: abbiate cura del vostro delirio. Ma hanno paura. Non sanno orientarsi. Dicono che devono vivere con cautela o saranno travolti dalle loro allucinazioni, confusi, ricoverati, fuori dal mondo, senza diritti. Solo pochi di loro, come il postino Ferdinand Cheval, a Hauterive, hanno rappresentato con ferrea pazienza e ostinata chiarezza il loro delirio costruendo, giorno dopo giorno, pietra dopo pietra, uno stregante e onirico sacrario come il Palais Idéal. Se il folle descritto da Elias Canetti presenta un’atrofia della metamorfosi, l’artista, al contrario, soffre un’ipertrofia della metamorfosi. Coltiva la sua ossessione.
Buio in sala
Se dovessi scegliere un’arte fra le altre, sceglierei il cinema. Il cinema offre lo scenario di una riorganizzazione del mondo attraverso forme in movimento. Lo spettatore, immerso nel buio della sala, si fa invadere dalle immagini che scorrono sullo schermo. Stare nel buio e poter vedere solo quelle immagini nella tela bianca non è il simbolo dell’informe oscurità intrauterina e amniotica, ma la condizione privilegiata di spettatore delle visioni che il regista-demiurgo inocula in lui, grazie al suo stato di temporanea passività. Lo spettatore, nell’oscurità della sala, è in una condizione diversa dal lettore di libri o dallo spettatore di quadri, perché non può distogliersi dall’incantamento che emana dalle immagini dello schermo se non chiudendo gli occhi o tappandosi le orecchie.
Come il folle, a causa delle sue paure e della sua intransigenza, si autonomina demiurgo e organizza in prima persona la realtàdegli eventi e la direzione degli affetti, cosìil regista, stimolato dalle proprie visioni, può costruire un mondo parallelo che si impone allo spettatore non appena nella sala si fa buio. Quando una storia si trasforma in fatto ottico, l’attenzione è assoluta come quando sprofondiamo in un sogno. “Ogni uomo – scrive Bion – deve poter sognare un’esperienza proprio mentre gli capita, sia nel sonno che da sveglio”.
Questa non è la mia casa
Turno di guardia. Consulenza in Medicina. Reparto.
L seduta sulla sedia bianca.
Non ècasa mia, voglio stare a casa, con mio marito.
Suo marito è morto, signora.
Questa èuna sedia bianca, un letto bianco. Non conosco questa sedia. Non conosco questo letto. Voglio tornare a casa.
L grida per ore. Sono le due di notte. Fuori la luce del corridoio è bluastra. Si addormenta e si sveglia, mi racconta un sogno.
Un ramo pieno di limoni, sull’erba del prato. Una luce mite, quasi estiva. Il sole è nero, basso. Vicinissimo alla terra.
Ride.
Forse è immerso nell’acqua. Io cosa ne so? Una sedia bianca, un letto bianco! Non è la mia casa, non è la mia casa.
Si calma, accetta la terapia, smette di gridare. Scendo le scale del reparto. Le tre di notte. Suona il cellulare. Mi richiamano dal Pronto Soccorso. Un uomo di sessant’anni. Dicono farfugli, deliri. Vado. A me sembra tranquillo, felice di parlare. Dice che ascolta solo musica di Frescobaldi, sempre al clavicembalo.
Ma l’organo non va, non suona bene nella mia casa, è piccola, un buco, la vedesse. Vivaldi è superficiale, Bach sontuoso, ma la leggiadria della scuola francese! Couperin!
Vuole un farmaco per l’ansia?
Per favore, sì.
Prescrivo quindici gocce di En, mi allontano. Ha un sussulto di paura, mi implora di tornare. Non vada via, dobbiamo parlare di musica. Non mi lasci qui! Torno, gli ripeto. Ora è lui a sorridere, mi stringe la mano, sorride ancora.
Dove ho messo i rifugi
Che il genere umano esploda pure, ma lei mi è simpatico! Le dirò dove ho messo i rifugi.
L parla a lungo, sessant’anni, si muove con ansia sulla sedia.
Io dipingo perchémi sento in pericolo, sussurra, le foreste che disegno sulla carta, le foreste che bruciano sul foglio, mi salveranno dall’incendio di domani, nessuno mi regala un accendino, sbattono le nocche alle porte, le sbattono forte, forte, vogliono uccidermi.
Si calmi, come si chiama?
Non risponde. Parla del timbro violento delle voci, delle materie che gli rimbombano come acciaio nella testa. Lo lascio, prescrivo una flebo di Valium. Salgo verso il reparto, faccio cinque passi, mi richiamano, torno in Pronto. Vedo un ragazzo della Costa d’Avorio, immobile, sulla sedia bianca.
Sto fermo per salvare i morti del mio paese, nome per nome: resterò fermo tre minuti per ogni uomo scomparso e svolgerò per intero il mio compito, dovessi morirci.
Ma servirà?
Servirà.
Allora venga su da me: potràrestare immobile quanto vuole.
Sì.
Ordino il ricovero. Prima mi fissa con odio, poi acconsente. Salgo stanco nella stanza di guardia. Mi tolgo le scarpe, mi addormento di colpo.
Marco Ercolani (Genova, 1954). Tra i suoi pensieri dominanti: la scrittura apocrifa, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia. Pubblica, per la narrativa: Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte e A schermo nero. Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura e L’opera non perfetta. In coppia con Lucetta Frisa scrive L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane e Sento le voci. Nel 2010 pubblica il suo primo libro di versi Il diritto di essere opachi.
Non chiusa la costruzione frasistica, le proposizioni restano in sospeso, aggettanti, sporte nel vuoto creato dal mancamento non solo della volizione, ma della stessa possibilità di costruire definizioni, mentre realtà di conseguenza resta altrettanto drammaticamente sfilacciata. E’ naturale che una simile forma utilizzi costrutti ipotetici, gerundi, ripescaggi lessicologici, tempi verbali genericamente non accordati al soggetto, i quali solo stratificandosi costituiscono la pur solida base d’appoggio con cui affacciarsi nel baratro. E così ecco individuato immediatamente anche il soggetto della silloge “Amarore”, Kolibris Edizioni, 2009, che Alessandro Ghignoli ci consegna: il linguaggio. Indagare il linguaggio attraverso il linguaggio non ci appare certo paradossale. Già Wittgenstein ci aveva avvisato: dal linguaggio non si esce. E, dunque, il lavoro di Ghignoli si pone su questo illustre binario. La ricerca di altre modalità di dire, che si aprano alla complessità, che accolgano il paradosso, che non fuggano dinanzi all’impossibilità di chiudere il cerchio con un pensiero lineare, pur senza eludere il tentativo razionale di fissare possibilità e limiti dello strumento linguistico, costituisce l’essenza del testo poetico di Ghignoli. Vi è, comunque, un sapore amaro, che fa virare anche il senso primario nel titolo, a dirci che l’operazione non è indolore e forse non ha nemmeno un esito ascrivibile pienamente all’area del risultato positivo: “delle immaginazioni dove la lingua s’affatica / dove la fine è già avvenuta”. Certo, il dubbio s’installa insieme al rimpianto e all’inefficacia delle proprie azioni. Inevitabile stallo per chi rifiuta così strenuamente balaustre e appigli fino a dubitare persino del linguaggio quale strumento veritiero e rispondente per costruire la propria moralità. Il balbettio del dire, c’è poco da fare, è comunque l’unica cosa che almeno possiamo registrare e consegnare a noi stessi e agli altri.
dalla sezione Tristizia
***
si potrebbe pensare e detto questo
è già in ritardo la parola il suo valore
oramai di ragionare di questioni
di mirabili cose di mancati incontri
di tutto il procedere normale dal principio
al principio ancora per dire ciòche il coraggio
dubita di una partita tua di un gire nostro
per le strade de la mente nell’incontro
delle immaginazioni dove la lingua s’affatica
dove la fine è già avvenuta
***
nella verità si nasconde la cancellatura della frase
nel davvero della parola quasi pronunciata
il richiamo per conoscere l’intenzione il cercare
per vedere i piùpiccoli movimenti delle labbra
sul fiato è spento il perdono il suono
la vocale scivola piano
senza emettere nota o dono musicale
***
di viaggio si tratta alla resa dei conti
alla fine superare i dove le luci
tra taverne e fantasmi all’incrociare
occhi parole usanze tralasciamo
le critiche sentenze le minime pagine
nell’altrove trovando un vantaggio ora
nell’ora che pianamente ricovero al ricordo
al rimpianto al poco mio aver dato
dalla sezione Amaritudine
evento 5
tutto di tutto sento e in tutto mi pento
dalla rabbia dal pensare che non èricordo
ché memoria non èstoria forse sabbia
dentro il dentro un foro da dove da come
ogni tanto ogni quanto èconcesso errare
nell’evento sul bordo o solo da solo nel centro
perché di presenza presente ne la rinuncia
rasento il passante pendente paesaggio
in chissàquale coro quale ovunque
mi credo altrove anche fuori
anche fosse ancora
dalla sezione Predicamento di me
prima descrizione
delle infinite volte a me dicendomi
di parlare l’italiano senza accento
e lasciare il dialetto da me usato
soggiogato da un io al mio volere
creduto di saperne di lettere di plurali
di subientivo e gerundio e coniunzioni
e tutti i resti d’avverbi che di mia vita
mi feci in costruzione o mi disfeci
Alessandro Ghignoli è nato a Pesaro nel 1967. Ha pubblicato le raccolte di poesia La prossima impronta (Gazebo, 1999) e Fabulosi parlari (ivi, 2006). Ha curato e tradotto numerose edizioni di poeti spagnoli, ispanoamericani e portoghesi all’italiano. Codirige i “Quaderni di poesia europea” (Orizzonti meridionali, Cosenza) ed è redattore della rivista “L’area di Broca”.
Non è in una trentina di righe che si può parlare di un libro che raccoglie 40 anni di poesie, qual è l’antologia di Cristina Annino “Magnificat. Poesie 1969-2009” e, dunque, va da sé che soltanto si può riportare qualche nota che abbia più fortemente colpito durante la lettura: anzitutto la registrazione di un’intelligenza tanto lucida quanto sarcastica, ironica quel tanto che serva a puntualizzare che la responsabilità è di come stanno le cose, delle persone che si sono incontrate e si sono amate. Da qui la catastrofe, poiché ciò che è perfetto diviene corrotto, retrocede contro un melmoso fondale di fango, mentre il soggetto della poesia è costretto almeno al reclamo della soddisfazione dei bisogni più elementari, anzi ancora più aggressivamente pretesi. Non si rintracci la mancanza di normalità o di equilibrio nell’autrice, ma nelle relazioni che si sono venute a instaurare con l’altro: lo si evince dal fatto che la scrittura è di quelle che testimoniano di una sensibilissima capacità di cogliere sentimenti e motivazioni sia in sé che nell’altro e di denunciare lo scarto dall’equilibrio: “Ogni giorno, /farlo per farlo, si / spara nel circo del petto / a nobile distanza. Poi perderà. Sia come / sia, salutiamola con riserbo. Gli / stan fumando il mondo dal / naso” a riprova della sua consapevolezza e della sua partecipazione a un gioco di cui non può stabilire le regole. E, allo stesso modo, quel passaggio dal femminile al maschile per parlare di sé sembra più una capacità di assolvere a più ruoli, di saper giocare in più sembianti, in poche parole di essere il giocatore che ha sempre più assi nella manica di quelli che il caso le fa giocare, e a cui, comunque, deve sottostare. Questa capacità metamorfica, questa potenza nella lettura del reale, è anche l’aspetto forse più prezioso che la stessa Annino ravvisa non solo in sé, ma anche negli altri ( e quale festa quando ciò avviene). D’altronde, ci pare che sia saldissima la presa formale delle sue poesie: l’abilità di partire da un’immagine istintiva, appena un la, un accordo di partenza, per sviscerarla fino nelle sue interiora più riposte e sorprendenti. Reale, in fondo, può ben poco di fronte a una simile artefice!
da Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, 1977)
Ritratto per Casorati
Come Gustav Mahler che ascolti
e ne invidi la morte, i compimenti,
io dopo ti vedo
nostalgico, lento
non più uomo né donna,
importa
quel solo giallo acuto delle labbra,
che ancora lasci in Mahler la ragione
parlando fumando senza volgarità.
La vena arrossata
tra i capelli gira
indietro come un laccio.
La gran pena di tutto il mondo
per te
è questi atti, suoni, persino
muori,
allungando il tuo braccio
arancione sulla sedia.
da L’udito cronico (Einaudi, 1984)
L’udito cronico
Le poesie d’amore le do
in appalto ai droghieri. Io
inseguo pensieri su cui
casco, è vero, in rime toniche.
Anche a me succede; ma in genere,
è un fatto, sto in piedi.
Ed ho
un bell’udito cronico
per la vita, o meglio
per la testa impazzita
dell’uomo che ragiona, e gli sale
accanto in due, divisa
fino all’occhio glaciale.
da Madrid (Corpo 10,1987)
Tutte le conseguenze sono state fatte
Ormai l’accetto da molto tempo. Lei
è scesa davanti a me, mattone dopo mattone come una
casa, dall’autobus bella e quale un evento
eccezionalmente pesante. Chi fa
per me pensandomi, vale a dire decidendomi, come
dire il destino o gli altri sulla mia testa, hanno
la lunghezza misurabile e il clima breve di quel pezzo di strada. Mai
ho il senso della fine quanto percorrendola. Potrei
stare senza: nel sonno imparo cose del mio
corpo non facendo niente, e mezzo mondo èsotto
il sole stupido. Ma le
faremo alla fine lo stesso le
scale, l’acquaio, la fame, le stanze. Con calma. E che
bontà almeno non parlare mai di Ritsos.
da Magnificat (inediti)
***
Parlando
evaporava, s’aggiustò la
frase su
qualche organo; cresceva
così l’albero. E’ il triste
spirito che
l’ossessiona, col mento
liscio sopra i binari. Quel
che non
vede: mangiare sé
senza far ridere, per
esempio, era
quello. Tirar via la
creatura da sé, viva
ancora, e con furia
strafusa mandarla lei
stessa al macello.
Magnificat
Tinto fino alle gambe d’un
combusto odore di gas, l’occhio
sinistro rigido di pensiero
mescolato a formiche.
E’ tanto
sfatto di sé, pieno, vuoto
stanco con
spartiti nello spazio
minimo. Vorrebbe
farla finita, ma prende in
mano- biglietto d’ingresso
o tessera del pane- il
talento che ha e lo
mostra nell’intento
carnivoro di mangiare. Mangia.
Ché
di più credendo, con
barbara fedeltà al
l’Altezza,
qualità dei reni o
massa musicale, a quanti
ottoni ancora lo
percuotono dentro come
tegami di casa sua. Con tale
elastica facoltà da
pompiere senza
pompa, anche non volendo
lo fa (ma chi tira le
redini qui?) vola lui su con
l’asta, poi entra- nota per
nota- nel
magnificat stato della
mente. Lo vede. Si
scuote insieme ogni
stanza, suola in su, che
nuota senza rete anche
l’acqua. Tale
fascia sonora, ossessione! la
ferma inutilmente per un
po’ con le mani. Poi indietro,
lui casca.
Cristina Annino è nata ad Arezzo vive e lavora a Roma. Si laurea in Lettere moderne a Firenze, dove frequenta i caffè letterari Pavskoski e il caffè San Marco sede allora dei giovani del Gruppo 70. Entra in contatto con Franco Fortini, Giovanni Roboni, Elio Pagliarani e altri. Esordisce nel 1969 pubblicando da allora 10 raccolte poetiche e un romanzo, oltre a numerose plaquette, tradotte anche all’estero. È presente in numerose antologie, sia italiane che straniere. Collabora con diverse riviste in Italia e all’estero soprattutto tedesche, spagnole, messicane. Da alcuni anni si dedica anche alla pittura ed ha al suo attivo mostre personali e collettive. Fa parte dell’agenzia d’arte spagnola Artelista.
Chi scrive (e in particolare chi scrive poesia) sa che ciò che fa si genera e si rigenera continuamente, nello sforzo per aprirsi una via verso il senso. La strada non è mai aperta e il percorso è sempre accidentato, ostruito da condizioni materiali e formali che devono essere affrontate, mai aggirate, se si vuole veramente stare dentro il pensiero e la vita della poesia. E’ in quel preciso luogo che stanno le costrizioni che danno il titolo a questa raccolta. Turra Zan è un autore consapevole che le asperità e le difficoltà non possono essere diluite o evitate; anzi, bisogna rendere libera, e qualche volta necessaria, l’accoglienza di ciò che si scrive sotto gli obblighi che la lingua, che è “l’altalena dei costretti”, impone. Cioè una concretezza di pa- rola che prende sostanza da una difficoltà che il poeta ha ben presente: coniugare nella significazione il respiro ampio della voce con il soffio stringente della vita.
Non si tratta naturalmente di descrivere, in modo ingenuo felicità o patemi soggettivi, ma di portare a compimento (anche solo per quell’attimo di concretezza sonora che la pagina riporta), la capacità di uno sforzo esistenzialmente linguistico: quindi fisico, dove corpo e pensiero sono visibilmente testuali, presenti e interdipendenti. Il tutto dentro una scrittura che rifiuta la linearità semantica per coagularsi in un andamento di vuoti e di pieni quasi surreale, ma capace di far vedere e far sentire ciò di cui l’autore soffre o gioisce. Si tratti della propria solitaria presenza nel mondo o di una crisi affettiva, Turra Zan non dimentica mai che le tensioni emotive vanno risolte nella scrittura, con un desiderio sommerso e strozzato che “vorrebbe si udisse/il verso delle vongole a spurgare.” Parole esemplari in cui la quotidianità di una pietanza in preparazione si trasforma in una richiesta che renda percepibile il dolore di un essere, qualunque esso sia. E chi legge queste poesie si rende conto che forse, in momenti indefinibili, ciò è possibile.
Bisogna però disporsi anche con le proprie costrizioni di lettore a comprendere il modo il cui l’autore smuove la sintassi, stringe i suoni, organizza grumi di senso che stanno in parole apparentemente contraddittorie e indecifrabili. In ogni caso le costrizioni di Turra Zan, esplicitate in numero di tre in una poesia specifica, pur dentro un quotidiano che sembra tenere oscura la lingua che lo dice, portano a un moto di sovversione contro l’assuefazione al dolore. Perché dove c’è stata distruzione qualcosa rinascerà e bisogna dire “basta, stringete ogni lamento”. Ma bisogna dirlo con la coscienza di una lingua che è sì sfilacciata, a volte incongrua per orecchie e occhi scarsi, ma che in realtà è l’unica capace di prendere su di sé gli eventi che accadono e costringono il poeta (e tutti noi) a scegliere se andare o stare.
da Le costrizioni
***
La camminata è un taglio
alla pianta del piede che sanguina e lascia
il maledire sull’asfalto. Stanno accanto
ma pensano al prossimo allontanarsi come
a cadenza di un’assenza che sfaldi.
Potranno scrivere i loro versi su stampelle,
costruire gabbie di cui vestirsi.
E prescrivere orazioni dove
sia presente ad ogni stanza un’ostia
claudicante; dove l’aggrapparsi ai difetti
sia già dato
ai progetti mai portati a compimento.
Oh velo di fine inverno, riposa
sul sudore dei santi infedeli,
fino al peccato dell’ingoio
di carne da macello.
***
E per la sua nervosa adiacenza
si china a sfiorarne i piedi, accanto
all’orto dei perdoni.
soffia la sillaba madre
che fascia costole
come stretta di corde
e ramaglie da cui non sa liberarsi;
la libertà dicono sia quello strascico
delle reti infette; quel ruminare
di cartilagini nella ganascia.
***
Da sopra la barella tieni le tempie
al buio, nel bianconero del tempo
rileggi alla luce i termini di una
fuga dagli affetti e i ricordi, i ricordi
per orificium exit
dovuto dicevi a vasocostrizione,
alla riduzione del lume nelle vene;
e senti la contrazione che si elastica,
la pressione che ti irrora il latte
andato a male per l’incuria.
premi ad ogni ferro il collo al basso,
al lento piegarsi a ritmare
il battito del pube, fino
allo sporgere dell’osso.
Giovanni Turra Zan è nato a Vicenza nel 1964. E’ laureato in Psicologia dell’Educazione e diplomato al Conservatorio Musicale di Vicenza. Ha pubblicato Senza presso Agorà Factory nel 2005 e il volume Lavoro del luogo” con Fara nel 2007. Ha vinto il Premio “Poeti per posta” indetto dalla trasmissione radiofonica di Radio Due “Caterpillar” e da Poste Italiane nel 2005. “Le costrizioni” è uscito come e-book, reperibile in rete.
Unibili latenze
Con "Disunite latenze", Enzo Campi presenta un articolato componimento che, con raffinatezza, coglie appieno l'enigma dell'umano esprimersi.
Riuscire
"a urlare il senso dell'attesa"
sembra, più che un traguardo da raggiungere, un desiderio insoddisfatto.
Il ripetitivo linguaggio quotidiano e l'immediato urlo entrambi falliscono?
Il tono complessivo induce a propendere per una risposta volta a porre in evidenza se non proprio l'ineluttabilità, almeno la ricorrente possibilità di tale fallimento: la sconfitta appare perciò all'ordine del giorno.
Oltre all'idioma quotidiano e all'urlo, tuttavia, esiste un'ulteriore forma di comunicazione, quella poetica: a quest'ultima pare appellarsi il Nostro per via dello stesso svolgersi di un ritmo che richiama con assiduità un quid facendolo vivere quale esigenza insopprimibile.
Facendolo vivere, dunque essere, tramite una lingua intensa, molteplice nei suoi aspetti, capace di porre nel giusto risalto non insignificanti echi e riflessi di certe "disunite latenze", in grado, insomma, di risultare all'altezza di ardui compiti espressivi.
"Quali fasci di fibre slabbrate
dobbiamo ancora immolare
al peso del verbo?"
resta un interrogativo privo di risposta logica che Enzo Campi riesce, se non a sciogliere, ad avvicinare, con accostamenti sensibili, partecipi, volti ad aderire a una condizione, più che a tentare di spiegarla.
Una feconda tendenza a rapportarsi all'enigma, davvero.
Per disunite latenze
Quali ibridi di sema
laviche implosioni e disincanti
si aggirano circonvolando
i margini di questo bianco
da cui tracima il seme
della programmata apocalisse?
Si direbbe perpetuo
il moto della sapida spuma
che deterge e ricopre le nude caviglie
nell’andirivieni delle alghe
che narrano di un mondo sommerso
in cui rendersi all’evento del silenzio.
Si direbbe immoto il passo
che si offre al circolo
e cerca l’algida pietra
espunta dall’arco primigenio
che un tempo designava l’accesso
per carpirne la radianza e il riflesso.
Per quanti ascessi
dobbiamo ancora differirci?
Quali fasci di fibre slabbrate
dobbiamo ancora immolare
al peso del verbo?
Quante sfumature di luce
da attraversare
prima dell’abbacinamento?
Si difetta la parola
e giunge tronco il suono
l’occhio cieco
si consegna all’erranza
e guida la mano
a incidere il segno
dell’amigdala
nell’incauto solco
che divide la duna
dall’oasi in cui vanirsi
all’avvento dell’inconosciuto.
Non è viltà
quella che mi spinge
a praticare le anse al limite
non èfollia
frequentare ambedue le rive
dell’aporia
né ribadire carta su carta
e rilanciare tre volte la posta
in fiumi d’inchiostro
può alleggerire la soma
delle bordature
in cui inscriversi e quietarsi.
Se l’eco dell’utopia si affievolisse
se le formiche cessassero
di sfilare in processione
sul nudo costato
tatuato dall’incedere del tempo
se la violenza d’una lingua
che non può appartenere
all’incoscienza dell’immediato
urlasse la sua innata mancanza
se la foga del nostro inesausto girovagare
ci costringesse al riposo
sotto quell’arco di duro granito
riusciremo forse
a urlare il senso dell’attesa
soffiandone l’essenza
come un grano di sabbia
dal palmo di una mano
che svanisce nel momento stesso
del suo più intenso splendore.
Enzo Campi. Nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. È presente in alcune antologie poetiche. È redattore dei blog letterari La Dimora del Tempo Sospeso e Poetarum Silva. È autore del saggio filosofico Chaos Pesare-Pensare scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per i tipi di Liberodiscrivere Edizioni (Genova) il saggio filosofico-sociale Donne – (don)o e (ne)mesi nel 2007 e il saggio di critica letteraria Gesti d’aria e incombenze di luce nel 2008. Nel 2009 ha pubblicato per BCE-Samiszdat (Parma) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra. Sempre per lo stesso editore ha curato una postfazione in Collezione di piccoli rancori di Lara Arvasi e l’antologia di prosa e poesia Poetarum Silva. Nel 2010 ha curato una postfazione in Di sole voci di Silvia Rosa (LietoColle – Como) e pubblicato il poemetto ipotesi corpo (Smasher – Messina). Dal 2011 dirige la Collana di letteratura contemporanea Rasoi e cura il Premio Letterario Ulteriora Mirari per conto delle Edizioni Smasher.