Marco Furia è redattore di "Anterem". Per la sua biobibliografia vedi "Chi siamo" nel sito.
Un'elegante vita
Con "live", Yarita Misako presenta uno sfondo grigio, sfumato e non uniforme, percorso da linee biancastre, sul quale risaltano, elegantissimi, esili segmenti curvi, distinti nella gradazione di colore e nella forma, tali da porre in essere una figura elicoidale, quasi un inedito DNA.
Si tratta d'una vera e propria danza sempre piùevidente via via che lo sguardo, dopo essersi posato sull'immagine, se ne fa prendere, lasciandosi incantare da un movimento rotatorio non prevedibile, da una leggiadra instabilità che può ricordare certe installazioni mobili di Calder.
Dico "può ricordare", perché qui non si è in presenza d'alcun vivace cromatismo, né di concrete oscillazioni, bensì di accenni intensi e leggeri, statici e dinamici nel contempo, ossia di figure assieme reali e immaginarie.
Nemmeno qualche (pur presente) minuscola scalfittura interrompe la tendenza di questi sottili frammenti a muoversi, ad ignorare il pallido spazio rettangolare su cui si stagliano e, chissà, a disperdersi dopo una circostanza di felice incontro.
L'enigma dell'esprimersi è proposto, con toni né inquietanti né gioiosi, nella sua ineffabile persistenza, annullando il concetto stesso di significato (ma non di senso) in un gesto estetico di rara grazia.
Il titolo, poi, appare molto appropriato: c'è davvero vita in un'immagine capace di attirarci e, con assidua delicatezza, di rapirci, mostrando segreti palpiti, intime cadenze dell'esistere.
Un haiku - visual poem? Forse.
Yarita Misako, "live", in "d", n° 26, 7-20-82-504, kohokudai, abiko-shi, chiba 270-1132, Japan
Affettuosi confronti
Il breve, lucido scritto “Un confronto”, di Sylvia Plath, inizia con
Strana davvero questa invidia, poiché la compianta autrice si è rivelata eccellente talento sia come poetessa, sia come prosatrice e, dunque, ha praticato tanto una prosa, in grado di muoversi con libertà nel “Tempo”, per la quale “niente è poco importante”, quanto una poesia “concentrata”, intensa, breve, “inizio e fine in un fiato solo” (unica eccezione dichiarata, i poemi epici).
Se, nel corso della versificazione, verrà inserito un elemento tratto dalla quotidiana esperienza, questo, salvo qualche felice, raro, caso, forzerà la mano al poeta, tendendo ad assumere il ruolo di protagonista, come accadde alla stessa Sylvia che, avendo introdotto “un albero, un tasso”, non riuscì a “sottometterlo” e finì per scrivere “una poesia su un albero di tasso”.
A differenza di quanto accade nel romanzo, le cose (“uno spazzolino da denti”) non stanno al loro posto o, almeno, presentano spiccate attitudini “a considerarsi degli eletti, dei tipi speciali”.
Il tono, come emerge già dalle citazioni, non è astioso: attraversa il testo una leggerezza quasi umoristica, retta da un’intelligenza sensibilissima, sobria, penetrante.
E non d’invidia, sia chiaro, qui si tratta, bensì dell’urgenza di un “confronto” nel cui àmbito differenze e somiglianze vengono poste all’attenzione del lettore sotto il profilo del fare: non s’indugia su presunti aspetti teorici o fondamenti delle due forme espressive, ponendo, invece, con decisione, l’accento su diversità (e difficoltà) concrete del porle in essere nel rispetto delle caratteristiche di ciascuna, senza dimenticarne i tratti comuni, anzi a partire da essi.
Emergono sentimenti di riguardo, premura, simpatia.
Il titolo del brano, perciò, appare quanto mai adeguato e l’incipit sembra assumere il ruolo della tenera, amorosa, provocazione rivolta da una grande artista della parola non soltanto ai suoi simili, ma anche a sé medesima nella duplice veste di poetessa e prosatrice: leggiadre frasi, precise e pregnanti, con una vena d’ironia terribilmente seria, così, riescono a rendere oggetto di analisi e paragone taluni non secondari tratti di due importanti registri di scrittura.
Proprio dalla suddetta duplice veste, proprio dal tono responsabile e appena beffardo, cioè proprio dall’ambiguità schietta, franca, dell’elegante scritto in parola, si è indotti a riflettere su temi più ampi, ossia, ad esempio, sull’esistenza a priori dei generi letterari e sull’opportunità d’intenderli in maniera rigorosa, rigida.
Certo, diverse forme si mostrano, ma considerarle non imprigionate entro
invalicabili confini risulta doveroso, se è vero che un consapevole, semplice, gesto di affetto, come quello di Sylvia Plath, può superarli.
Marco Furia
Sylvia Plath, “Un confronto”, in “I capolavori di Sylvia Plath”, Mondadori Editore, Milano, 2008, pag. 658
Il cavaliere e la sua bella
Con “Pulzella di un giorno distante”, Gaby Ramsperger, immaginando una diversa conclusione dell’ opera “La partenza del crociato”, scritta nel 1856 da Giovanni Visconti Venosta, propone una “ballata” i cui toni eroicomici si alternano a tratti lirico – passionali.
Il “cavaliere dai piedi consumati e stinti” ritorna da prolungate imprese belliche e incontra la sua trepidante pulzella, non più giovanissima, certo, ma ancora innamorata, secondo un tessuto narrativo in cui la poetessa avvicenda versi scherzosi, quasi parodistici, a pronunce che tradiscono una sua partecipazione emotiva (“tu sei stata … / la sola pace”).
Non soltanto, quando suggerisce per via di derisione, va anche oltre: mostra con intento burlesco, ma, intanto, mostra.
E’ come se la canzonatura si ribellasse e fornisse vie di fuga da sé medesima, provocando non ambiguità, bensì compresenza: diversi lineamenti stanno assieme, convivono.
Non si opta né a favore dell’ uno né dell’ altro: ambedue godono di pieni diritti.
A ben vedere, ci si trova dinanzi a una riflessione su caratteristiche del tutto umane: talvolta ci capita di essere coinvolti in vicende amorose e, nel contempo, osservandoci come dal di fuori, di sorridere di certi nostri, pur genuini, atteggiamenti, talvolta, cioè, aspetti buffi vengono a trovarsi accanto ad altri di natura passionale su di un piano, per così dire, di rispetto reciproco.
Non a caso, l’ autrice dedica “All’ amore di tutte le età”, con tono serio, il proprio lavoro.
Davvero questi versi liberi aderenti al narrato, eppure capaci di offrire, repentinamente, suggestive immagini pressoché prive di perimetro logico (“come fosse ormai dall’ altra lente del suo tempo”) – dai tratti descrittivi, quasi in prosa, alternati a spunti d’ intensa valenza poetica con rapido variare dei registri – davvero questi versi, dicevo, ci inducono a considerare quanto la
complessità dell’ esistere possa celarsi dietro un’ espressione linguistica, uno stile, quanto, perciò, occorra soffermarsi su ogni passo idiomatico cercando di portarne alla luce, il più possibile, le molteplici fisionomie.
Come fa Gaby Ramsperger, con la sua ballata.
Marco Furia
Gaby Ramsperger, “Pulzella di un giorno distante”, ODISSEA, Milano, 2008
Esperienza d’ amore
Preceduto dalla riproduzione fotografica di quelli che definirei dipinti plastici sospesi tra pop art ed espressionismo, nonchéda un articolato saggio di Alfonso Lentini, giungono all’attenzione del lettore i versi della silloge “Eva e Adamo – Percezione dell’esperienza d’amore”, di Marinella Galletti, artista e autrice del testo, unito, sotto lo stesso titolo, alle suggestive immagini.
Si tratta di ventisette sezioni, tre per ogni pagina, in cui l’“esperienza d’amore” viene come scomposta in molteplici sfaccettature dagli spiccati caratteri.
L’amore, lo sappiamo, implica mille pensieri, episodi, ricordi, si alimenta dei suoi vividi componenti e sa attraversare e congiungere in un solo attimo vicende anche lontane, dissimili, ponendo in essere un’emotiva condizione di disponibilità, un fecondo aspetto del vivere.
Aspetto che, rivolto verso l’ esterno, verso un’altra persona, può porre l’innamorato in uno stato d’incertezza, di dubbio (l’amore, intendo dire, per essere felice deve essere ricambiato).
Néi suoi risvolti fisici paiono in grado di sciogliere il dilemma: la diciottesima sezione, così, inizia con “Sia la natura nell’atto dell’amare” e si conclude con “Farà male. Male. Male?”.
Siamo dunque di fronte ad un non risolvibile enigma?
Ora se, dopo aver seguito la poetessa, rifletteremo sul suo appassionato proporre singoli lineamenti, ci potremo rendere conto di essere rimasti pressoché fermi sulla via di un’illusoria spiegazione, ma di essere giunti ben più avanti seguendo altri percorsi: l’esserci soffermati, brano dopo brano, su tratti di vario tipo è risultato utile in quanto ci ha aiutato a comprendere come sia possibile avvicinarsi al sentimento d’amore costruendone una (nostra) storia, non immodificabile, non stabilita una volta per tutte, bensì tale da illuminarsi, acquistando valore, ogniqualvolta la si narri con parola attenta, sensibile.
Quale parola èpiùsensibile di quella della poesia?
Con sequenze precise, esatte, capace di accostare immagini proprie del pensiero ad altre riferite a cose e azioni specifiche, sorvegliata nel richiamarsi all’esperienza amorosa, ossia abile nel renderne testimonianza per via di un linguaggio evocativo ma sobrio, incline a variazioni tipografiche di gusto futurista, Marinella Galletti affronta un tema non facile, infinite volte trattato dai poeti, riuscendo a trasmettere qualcosa di originale, di peculiarmente suo.
“Improvvisamente io e lui ci amiamo”, questa frase ricorre spesso: certo, l’amore è sempre improvviso, sorprende, stupisce, perfino quando dura da lungo tempo.
Marco Furia
Marinella Galletti, “Eva e Adamo – Percezione dell’esperienza d’amore”, Edizioni Nuovecarte, Ferrara, 2008
Etimologici incanti
Davvero molto articolato ed enigmatico si presenta "Libro Linteo - Titolo I. Il resto" di Enrica Salvaneschi e Silvio Endrighi.
Enigmatico, ma non indecifrabile, poiché il vero arcano è comprensibile nel non avere soluzione: tutti, intendo dire, lo comprendono, anche se nessuno può scioglierlo.
Di questo si tratta.
D'un itinerario, ricco di folgoranti citazioni, percorso in maniera risoluta, eppure non priva di affetto, lungo quell'indefinibile territorio che si trova tra vita e parola, idioma e silenzio, divenire e restare.
Anzi, nemmeno, perchéappare evidente che i suddetti poli soltanto in apparenza risultano dissimili o opposti, sviluppandosi, in realtà, secondo dinamici lineamenti linguistici comuni.
Lineamenti, si badi, non vere e proprie strutturate lingue.
Un'ampia e profonda opera di dissodamento del linguaggio conduce a riconoscere un'unità di fondo che, a partire dalla forma, in particolare dall'etimologia, riconosce nell'impulso del dire un ineffabile quid da cui tutto parte e cui tutto ritorna.
Autori quali Rilke, Leopardi, Kafka, Parmenide, Pindaro, Nietzsche, Dante, contribuiscono, per via di acute citazioni, ad illustrare la ragion d'essere di un atteggiamento giàreso evidente da un verso del componimento poetico "Tantalo": "Si diventa quando si é già nati".
Prima di nascere non si esiste come individui in senso fisico e neanche linguistico: gli altri, ancora, non possono parlare delle nostre peculiari fattezze, ossia non sono in grado di riferirsi ad un vero e proprio oggetto, bensì soltanto ad un'immagine, ad un'aspettativa (e nemmeno noi possiamo esprimerci almeno con il pianto o con un grido neonatale).
La comunicazione tra umani, insomma, avviene a condizione d'essere "già nati".
Una constatazione ovvia che presenta una precisa fisionomia d'annuncio: tutto quello che viene detto sta al di qua della morte e perciò, anche quando sembra richiamarla (ad esempio a causa della disperazione provocata dall'insolubilità dell'enigma, o della difficoltà dell'intrapreso viaggio, o di altro accidente) ne mostra, nello stesso gesto evocativo, l'attuale inesistenza.
"Poiché non crediamo nell'antitesi tra vivere e scrivere" "ma pensiamo semplicemente - o semplicisticamente - che scrivere sia un aspetto del vivere": apprezzata l'elegante umiltà retorica di quel "semplicisticamente", ci troviamo al cospetto di una rilevante affermazione.
Nel soffermarsi su quanto sfugge perchésempre sotto gli occhi, gli autori non distinguono tra vivere e scrivere, non credono che la vita possa costituire oggetto dell'idioma, ma dichiarano, senza mezzi termini, che lo scrivere è un aspetto del vivere, è fuso con esso, non se ne distingue mentre si svolge, diviene, ossia che la lingua è una forma del vivere medesimo.
Ed è proprio il vivere medesimo ciò che resta, che permane.
Ora l'enigma non è stato sciolto, ma le idee in proposito risultano meno confuse: le incantevoli etimologie, articolatissime ed incalzanti, di Enrica Salvaneschi e Silvio Endrighi ci hanno aiutato a capire che non dell'arcano dobbiamo avere timore, ma del non riuscire ad averne consapevolezza, ci hanno mostrato come riflettere con passione sulla lingua possa costituire feconda meditazione sulla vita.
Marco Furia
Enrica Salvaneschi, Silvio Endrighi, "Libro Linteo - Titolo I. Il resto", Book Editore, 2009
Poetiche tracce
Con "Impronte sull'acqua", silloge vincitrice della quattordicesima edizione del Premio Internazionale di Poesia "Renato Giorgi", Francesco Marotta presenta sequenze accuratamente scandite, limpide nel loro assiduo alludere.
Alludere a cosa?
Un indizio si può trovare già nei primi versi:
"se arrivi appena a
pronunciare un nome".
Affermazione chiara, esplicita, di scontento: la lingua dice, ma non abbastanza.
Tanto è vero che
"la pagina èpronta
per l'inchiostro che
vaga tra silenzio
e silenzio"
ossia per un segno affiorante da mute regioni, nell'attesa d'un altro simile.
Mute regioni, dunque, non considerate quale vuoto, indistinto nulla, bensì ineffabili campi d'energia da cui la parola sgorga.
Ma, allora, se la lingua non spiega se stessa e soltanto si mostra, perché ritenersi insoddisfatti?
Non è sufficiente una presa d'atto?
No, davvero.
Il linguaggio non è qualcosa di statico, da analizzare una volta per sempre, ma di vivido e dinamico: possiamo aggiungere espressioni, proporre nuove forme.
Lo possono fare soprattutto i poeti, sensibili al senso più che a poco elastici significati, al farsi del dire più che a ripetitivi protocolli: costoro percorrono itinerari inediti, invitano gli uomini ad avere fiducia nei propri passi così da sconfiggere il timore del dissimile, del non usuale, chiamano a riflettere su usi idiomatici non semplicemente denotativi, ma fusi in maniera inscindibile con l'esistere.
La loro insoddisfazione, ben lungi dall'indurli a seguire sterili sentieri, è origine di gesti costruttivi che si aprono ad inconsueti scenari, che obbediscono ad impulsi in cui etico ed estetico sono congiunti, mostrando come restare schiavi di rigidi concetti non costituisca inesorabile destino.
Con pronunce nitide, non alieno da (vigile) attitudine a spezzare vocaboli in fine di verso, sicuro nel proporre tratti, talvolta vere e proprie traiettorie, che entrano ed escono ritmicamente dal campo visivo del lettore ("ci sono versi scritti / con gli occhi"), accostando elementi di natura esistenziale ad illuminanti riflessioni sul linguaggio, insomma, offrendo una versificazione varia e dinamica, Francesco Marotta mostra come la poesia non costituisca una via di fuga, un sottrarsi al mutevole divenire, ma sia un importante strumento, un aiuto nello scorrere della vita.
Originali e feconde impronte, senza dubbio.
Francesco Marotta, "Impronte sull'acqua", Le Voci della Luna Poesia, 2008, pp.55, euro 10