Oltre il Premio, Daniela Cabrini su poeti del “Montano” attivi in altri versanti: Sergio Fabio Berardini, filosofia, Nichilismo e rivolta, Il Poligrafo 2008; Alberto Casadei, critica, La critica letteraria del Novecento, Il Mulino 2008; Giovanni Infelìse, arte, Amedeo Modigliani, Book Editore 2008.
Daniela Cabrini è nata a Cremona nel 1961. Compie studi scientifici e si laurea in Matematica. Ha pubblicato Tempo Presente (Lieto Colle, 2002) e Attraverso interni (Lieto Colle, 2007). È presente con un suo intervento di Matematica in I nomi propri dell’Ombra (Moretti&Vitali, 2004). Sue poesie compaiono in: Rane, un dito nell’acqua (I Quaderni di Correnti, 2004) e I mondi creativi femminili (Lieto Colle, 2006). Vive a Verona.
Per scherzo, potrei tentare una critica su “La critica letteraria del novecento” così che Alberto Casadei sia invitato a codificare un nuovo genere – studi sui saggi di critica letteraria e così via. Ma già avrei il problema di non saper collocare il suo stesso operare: saggio? studio? storia critica della critica?
Nell’introduzione l’Autore indica i criteri che ha scelto come condizioni iniziali, segnalando i margini fra il dovuto e la sua interpretazione per poi cogliere, con accurate selezione e sintesi, i tratti salienti delle origini sia filosofiche, sia estetiche, sia letterarie della critica per come è nata ed evoluta nel corso dei secoli.
Dopo l’introduzione, il libro si concentra sulla critica del novecento, analizzata per categorie – I) autore e mondo: critica sociologica, psicoanalitica, marxista, storicista... II) il testo e l’opera: formalismo, semiotica, retorica... III) il lettore e le culture: decostruzionismo, ermeneutica..., con chiara attenzione alle continue intersezioni fra queste tendenze e singole esperienze critiche. Si tiene conto, in particolare, delle triadi: autore-testo-lettore, studio-saggio-opera letteraria e studio-saggio- testo letterario. La prima triade dispiega le varie correnti interpretative presentate, la seconda e la terza convergono in una sola, ovvero le parole: opera e testo letterario vengono ad essere equivalenti negli ultimi due capitoli.
Attento a sottolineare le caratteristiche delle correnti teoriche nelle varie nazioni, riserva un adeguato spazio alla critica letteraria italiana e propone dieci schede biografiche e critiche stesse di altrettanti teorici stranieri (figure di grande statura: Frye, Lukacs, Benjamin, Adorno, Bloom, per citarne alcuni) proposte come piccoli esempi di un canone personale.
In chiusura un’analisi appassionata sulle tendenze attuali, in cui l’equilibrio intellettuale dello studioso riesce a tenere a debita distanza l’amara constatazione della crisi attuale della critica letteraria e, con sguardo fermo eppure vivace, prosegue alla ricerca di nuove prospettive. Le domande sono due alla luce dei cambiamenti socio-culturali (soprattutto portati dalle società multietniche) e mediatici - informatici (fra cui l’esigenza della spettacolarizzazione del prodotto, la velocità e la ricchezza delle banche dati che avvicinano opere lontane nel tempo e nello spazio): cosa è un’opera letteraria oggi e se è possibile stabilire un canone per poter dire quali opere siano decisive e perché. Si tenga conto che l’antica affermazione – un classico è tale dopo 50 anni dalla pubblicazione, non ha più senso: prima di tutto perché non sappiamo più quale testo potrebbe ambire a diventare un classico e perché, in secondo luogo, la caducità di lettura dei testi informatizzati ha spostato definitivamente nel non fondamentale la questione tempo e durata.
Casadei sottolinea che tutti questi cambiamenti non mutano la fondamentale questione sulla stabilità (qualità? bello?) di un testo letterario, di un contenuto che mantenga una sua forma conoscitiva propria. “Occorrerà allora ripensare ad alcune categorie fondamentali del fare letterario, per mantenere una distinzione tra un giudizio latamente culturale e quello specificatamente estetico sulle opere classificabili come letteratura”. Daniela Cabrini
Livorno è una città strana di mare e terra avvolta da una la luce irreale: viva e insieme spenta, nostalgica. Se la geografia è geografia d’anima, immagino la Livorno di fine ottocento, accogliere e dare origine di terra ad Amedeo Modigliani. Di questa figura si sa della sua breve vita, della sua povertà e solitudine, della sua relazione con Anna Achmatova, del suo grande, intenso e religioso amore con Jeanne Hébuterne, consumato e mantenuto eterno con la morte di lui e il suicidio immediato di lei. Di Modigliani si sa della sua grande arte, del suo lento lavoro su disegni che diventavano velocemente dipinti, della sua imperfezione come qualità intrinseca alla sua anima, punto di partenza e non di arrivo che rende l’arte e la vita così vicine nel sentimento e nell’autenticità.
Giovanni Infelìse ci regala in questo breve testo, commisurato alla breve vita dell’artista, uno sguardo poetico, appassionato, senza cedimenti a una qualunque forma di omaggio e tantomeno a un pretesto per parlare d’altro. Attraversano l’intero studio le parole poetiche e lo sguardo da poeta dell’Autore, e quell’indagine sottile e inquieta dello spirito romantico senza cedere terreno ai comparativi storici. Ciò che colpisce è il timbro di questo libro le cui armoniche sono: la tragedia come essenza tragica di un’esistenza votata all’arte; la felicità e l’amore come ossessioni consumate tra ragione e immaginazione; la sofferenza e la solitudine necessarie per poter essere artisti fino in fondo; la cifra poetica di Modigliani nei suoi nudi e nei suoi volti, dove un singolo segno può cambiarne la natura e la sua diversità senza un nonostante. Ma la combinazione di queste armoniche rendono un timbro fermo, sereno quasi disincantato. Al lettore non resta che il desiderio di conoscere Giovanni Infelise poeta, o abbandonarsi alle figure e allo sguardo nostalgico e romantico delle “Lettere di Modigliani”, di “Le Rose di Modigliani”, o scegliere uno dei testi citati nel libro e riportati nella bibliografia accurata e preziosa. Daniela Cabrini
Il sacro nome del demone russo
“ Adesso finalmente mi sono messo sul mio nuovo libro: su Dostoevskij. Conterrà molto di più (… ): grosse parti della mia etica metafisica, della filosofia della storia etc...” .
Siamo nel marzo 1915, chi parla è Gyorgy Lukacs a proposito del suo “Dostoevskij” (traduzione e cura, con postfazione, di Michele Cometa, edito da SE). Già il suo famoso “Theorie des Romans” conteneva dei precisi riferimenti all’autore russo, “ D. non ha scritto nessun romanzo (…) egli appartiene al nuovo mondo”. Il nome del demone russo e l’utopia del “regno dei cieli sulla terra” o al contrario la speranza in una nichilistica palingenesi agitavano speranze di rivolta e di superamento del nichilismo, del mondo abbandonato da Dio, con la coscienza precisa che l’ideale greco dell’unione fra filosofia, cioè pensiero, e vita era ormai irriproponibile. I personaggi di D. sono eroi di romanzi criminali perchè sprofondati nell’orrore dell’andare fino in fondo al delitto. Di più: un rinnovamento poteva venire solo dalla Russia dove i dettami dell’anima del singolo possono essere immediatamente trasferiti a tutto il popolo.
Si riparta da qui. Si riparte da un pensiero che non vuole riparare a disagi, né decostruire, né creare immagini necessarie come paradigmi anche se seducenti come la stessa solitudine che vorrebbero esorcizzare (deserto, vuoto, silenzio, segreto, solo). Qui errare vuol dire – sbagliare. Si riparte dal sottosuolo, preso anche nella sua superficialità (quella cara a Valéry) .
Si riparte dalla filosofia come uso sereno della mente, impresa dell’intendimento conoscitivo, dire e portare nel linguaggio un modo umano di stare al mondo.
Si riparte dopo cent’anni con il pensiero vicino di Zambrano, Natoli, Galimberti, Guardini, Givone, De Martino, Kojeve, altri sacri demoni attraverso cui rintracciare lo sviluppo del pensiero dell’Autore.
La meraviglia di questo libro è la sua forma estetica-etica: il libro è quello che si vuole e si va dicendo. Dunque è intimamente russo, connesso alla topologia delle proprie asserzioni, è un’epica del pensiero, un romanzo-racconto di idee, nel quale l’autore svela il proprio percorso di pensiero raccontandone le radici. I romanzi di D. e i suoi personaggi sono specchio oltre che motivo di analisi.
Con rara capacità Berardini cita anche ampie parti dei romanzi di D. che si fondono (strumenti, causa, mezzo) col proprio dire, sapendo mantenere la stessa nostalgia, la stessa musica. I temi sono fra i più urgenti: il male che vive nel mondo, la morte sia come caducità sia come mistero, il senso del vivere chiuso nella finitezza, l’anima e la coscienza, l’etica soprattutto nel suo rapporto col sacro (di cui B. propone il significato di “impedire l’accesso, sbarrare” individuato da Giovanni Semerano), la lotta fra gli opposti e la possibilità di superarli senza cadere in agganci metafisici né tantomeno morali. Temi urgenti in un tempo – questo – di altrettanta violenza, in cui l’uomo è così debole al richiamo del sottosuolo, inteso adesso come l’arte di “fare quello che si può” (il nuovo “da- farsi”). Tempo di rimozioni continue e parole che riparano alla mancanza di senso, tempo in cui tutto sembra possibile tranne seguire fino in fondo la propria unicità e il suo abisso.
E dunque: quale rivolta? A quale deserto? L’inquietudine non è sottile. E’ solo una confusione puntata, desiderio non gravido, sorriso spento. L’inquieto parla di sé, prima o poi dice perchè l’inquietudine trabocca l’anima, portandola ad ebollizione. Qualche voce comincia a pronunciare la parola “accudire”, avere cura di sé e degli altri – la madre che culla e alleva e che sorride alla propria gratuità. Ma è sacrificio, ne può valere la pena? La risposta di Fabio Berardini è una scelta cristiana, dove Cristo non è il Figlio del Dio cattolico, così come l’amore non è la religione a più buon mercato. Serve un’anima.
“ Il secolo della scoperta dell’anima è arrivato. (…). Dobbiamo riscoprire l’anima. E il potere dell’anima. Abbiamo bisogno di una nuova religione dell’anima, senza dogma, senza leggi – solo sentimento. Cristo divenne chiesa. E per questo fallì. Noi dobbiamo istituire un dominio dell’anima.” Da Lukacs si è ripartiti e con lui si chiude, in un’epoca ferocemente diversa, altrettanto violenta, in cui sembra che il nichilismo non sia giunto alla sua fine, in cui quella ragione che ha ucciso l’anima è stata studiata, sezionata, spesso condannata ma sempre più offesa e atrofizzata, un’epoca insomma senza anima, senza ragione, senza epica, senza limite, epoca in cui un libro come questo getta una luce sul pensiero libero. Daniela Cabrini