Carte nel Vento
on-line della Biennale Anterem di Poesia
e del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
“Carte nel Vento 11” accoglie e documenta alcune recenti esperienze del Premio Lorenzo Montano e della Biennale Anterem di poesia.
Questo numero propone momenti teorici legati alla letteratura in rete, saggi, commenti, recensioni, immagini, esempi di ricerca poetica contemporanea.
La scelta dei poeti presenti deriva da testi pervenuti al “Montano”, effettuata con la volontà di offrire varie prospettive, differenti esiti espressivi: in alcune delle opere qui presentate è prevalente il pensiero che le sottende, in altre è prioritaria la forma, colta soprattutto nel passaggio in cui diventa essa stessa sostanza.
Il lavoro del Premio prosegue, come sempre, oltre la designazione dei vincitori. Quello che vive intorno al “Montano” è una continua riflessione sulle potenzialità e sui destini della poesia.
Da quest’anno, cercheremo ancora più lontano: infatti, la grande novità legata alla 24^ edizione, di cui è possibile scaricare il bando, è l’apertura anche alla prosa e alla saggistica.
Scarica il bando [pdf 225KB]
Scarica il bando [rtf 560KB]
Estromessa dalla carta stampata quotidiana e periodica, la poesia èentrata significativamente nel mondo di internet, con un fiorire di iniziative che fanno capo a siti, blog, riviste on -line, aggregatori. Tutto questo, se da un lato testimonia la sua vitalità, al passo con le nuove tecnologie e con i tempi, dall’altro pone esigenze di comprensione e studio del fenomeno.
Per capirne potenzialità e limiti, per offrire nello stesso tempo una chiave di lettura e una mappa, un’istantanea della situazione, dal numero 6 “Carte nel Vento” opera una sorta di ricognizione in rete, attraverso i principali operatori della poesia nel web.
Nei numeri precedenti:
Vincenzo Della Mea, Un colpo d’occhio sulla rete della poesia
Christian Sinicco, Qual è il centro? Internet, tra passato e futuro
Luigi Nacci, La grande proletaria dei poetinternauti s’è mossa, o no?
Marco Giovenale, “I vicini (quasi non) ci guardano”
Massimo Orgiazzi, “Poesia e web: esperienza diretta, riflessione e punti chiave per un’evoluzione futura”
Nabanassar, Della Rete o del Dilettante
Antonella Pizzo (Viadellebelledonne), Fino a qualche anno fa
1. Nel lavoro di diffusione della poesia che stai facendo in Rete, mi sembra ci sia una specificità – o un’anomalia, dipende dai punti di vista. E cioè l’essere al di sopra del gusto, delle preferenze e delle somiglianze con la propria scrittura. Puoi confermare questa mia impressione?
Credo che la tua impressione sia giusta e che (specificità o anomalia, poco importa) dia la misura esatta di quello che è il mio intendimento di fondo: testimoniare (nei limiti delle mie possibilità, anche di gestione temporale dello spazio virtuale) la diversità di percorsi di scrittura oggi esistenti, siano essi allo stato nascente oppure il frutto di un lavoro già ampiamente consolidato e riconosciuto. Sono da sempre convinto, almeno da quando ho iniziato a scrivere testi in modo consapevole, che la poesia sia un corpo plurale la cui esistenza è definibile unicamente entro un orizzonte di sensi possibili, mai dati, sempre in fieri, praticamente inafferrabili, di intrinseca, sostanziale natura metamorfica; e che la formalizzazione, nei limiti e nelle strutture dell’opera compiuta, della materia poematica che si cerca di padroneggiare in quel corpo a corpo carnale, feroce, che è l’incontro con la pagina bianca, rappresenti non l’approdo, come avviene in tante scritture anche di buon livello, ma statiche, quanto l’inizio di un ulteriore segmento di percorso: un cammino che, per quel che mi riguarda, vedo refrattario a ogni quiete, ad ogni contemplazione più o meno autocompiaciuta del prodotto finito. La maniera – in definitiva: la morte della poesia – è l’istanza narcisizzante che stempera e ipostatizza (con la conseguente resa al calligrafismo – malattia senile anche di tanti giovani poeti) non solo il proprio profilo in uno sguardo pietrificato che abbaglia e illude unicamente se stessi, ma anche la stessa acqua nella quale ci si specchia: spogliata della sua tensione all’oltranza, svuotata della sua natura erratica, e ridotta a una confortevole dimora senza finestre, a simulacro vuoto dei paesaggi che non traverseremo.
Andare in cerca di ciò che ci somiglia, per farlo nostro e riconoscervi, con compiacimento, l’eco dei nostri passi o la misura delle nostre orme, sarebbe un esercizio ancora più inutile e vuoto del precedente, significherebbe nient’altro che aver sottratto all’acqua la forma dell’andare, cioè la sua ragione primaria di esistenza. Guidare la propria corrente (o lasciarsene guidare) ad osservare, magari, lo stesso paesaggio da altre rive, o fermarsi ad ascoltare, da sponde mai toccate, il suono increato della nostra stessa fonte: ecco, è questo che mi interessa, è in questo ascolto risonante che mi piace vagare, misurandomi con quanto in me cambia, nel silenzio che una parola altra mi porge liberamente, come un dono, come un’eredità, come un lascito che si fa legame.
A una ricerca dell’alterità così orientata, mi piace affiancare la (ri)proposizione di testi a loro modo esemplari, per dire (ma credo non siano in tanti ad ascoltare) che noi non inventiamo niente, che solo il confronto con una tradizione (passata o più recente) che ci vive, e che ci chiede, dimorandoci, unicamente di essere attraversata, può permetterci di fare qualcosa di diverso dal semplice imbrattare fogli e andare a capo, mentre scriviamo, prima della fine del rigo.
2. Questo atteggiamento di vasta portata e visione, in che modo può venire incontro al dibattito di questi anni sul senso del fare poesia oggi?
Credo che un vero dibattito sul senso del fare poesia oggi non sia mai veramente partito, dopo la cesura segnata dal rifluire e dissolversi di alcune esperienze, teoriche e di scrittura, alla fine degli anni Ottanta. Ma, sia chiaro: dicendo ciò, nulla voglio togliere a quelle poche esperienze significative (le conto sulle dita di una sola mano, e, allentando un po’ la presa e allargando il ventaglio, al massimo di due), individuali, in buona parte, o legate alle poche riviste di valore che resistono, che nel silenzio e nell’ombra portano avanti ancora adesso precise istanze di ricerca e di studio. E forse è proprio da lì che bisognerebbe ripartire, per rifondare, insieme al dibattito, gli statuti e gli strumenti di una critica a misura della costellazione di organismi plurali di cui dicevo. Su questa mappa possibile, io cerco di lasciare un piccolo segno, un indizio minimo: che non esprime giudizi, criteri di valore, né azzarda canonizzazioni, rotte, incroci, appartenenze: soltanto, attesta esistenze. Resta inteso che, per me, nessuna ricognizione sarà mai in grado di dare conto di qualcosa di veramente utile e duraturo, fino a quando non sarà ridefinito, a trecentosessanta gradi, l’orizzonte della poesia italiana degli ultimi trenta/quaranta anni; fino a quando non sarà data piena visibilità a tutte quelle scritture e quelle esperienze che hanno segnato un solco profondissimo nella prassi di due generazioni, a dispetto del riconoscimento ufficiale, delle antologizzazioni, delle consacrazioni accademiche. E’ un lavoro enorme, forse impossibile in questo momento storico caratterizzato dal profluvio di frammentati esibizionismi, in rete e su carta, ma è un lavoro da fare. Assolutamente.
3. Esiste, a tuo avviso, una relazione tra un’intensificazione del fare poesia e la facilità di fruizione dei mezzi di comunicazione (internet, soprattutto)?
Sì, esiste sicuramente, ed anche abbastanza forte, ma non credo che la relazione sia indice di un accresciuto valore delle produzioni, non solo poetiche. Internet, in modo particolare, sta sicuramente avendo un ruolo fondamentale nella diffusione della poesia, nella scoperta di importanti esperienze, di percorsi che altrimenti sarebbero rimasti pressoché sconosciuti e inaccessibili; sta dando visibilità a tanti autori di valore, permettendo, nel contempo, le prime ricognizioni critiche ad ampio raggio all’interno di un panorama che diventa di giorno in giorno sempre più esteso e articolato e, per ciò stesso, più confuso; ma c’è anche il rovescio della medaglia, ed è un risvolto che, lasciato alle logiche di una indiscriminata proliferazione dell’offerta, senza nessun argine critico, finisce per inficiare, fino a sterilizzarli, i tanti aspetti positivi di cui si può dar conto, non ultimo quello della possibilità di reperire facilmente testi altrimenti inavvicinabili. Il rischio è quello di un dilettantismo diffuso che tende a farsi sistema, la mancanza di rigore, la convinzione, che vedo ingenerarsi in tanti, purtroppo, che basta aver pubblicato qualcosa in rete o una plaquette di dieci testi per essere poeta, l’abbandono ogni ipotesi di studio, di ogni necessità e urgenza di conoscenza, di confronto, di apertura alla pluralità dei percorsi, l’ignoranza di ciò che si muove, da anni, nel panorama internazionale, il plagio più o meno diffuso, vista la quantità di materiali di cui chiunque può entrare in possesso. E questo è deprimente; così come risulta oltremodo sconfortante, in alcuni contesti o occasioni di dialogo, vedere con quanta facilità passino, quasi come un vanto e un segno distintivo, la presunzione della propria unicità, che non esiste, da una parte, e il disconoscimento del valore di alcuni autori e di alcune opere.
Sebastiano Aglieco cura il blog “Compitu re vivi” http://miolive.wordpress.com/
Francesco Marotta cura il blog “La dimora del tempo sospeso” http://rebstein.wordpress.com/
Todesfuge è un'opera realizzata per MURO CONTRO MURO, evento monstre a cura dell'Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma.
Spazi museali e gallerie private hanno celebrato la caduta del muro di Berlino. In molte maniere, anche parlando dei "Muri" della Storia e del presente.
Lo Studio S, storica galleria di Roma, ne ha fatto una mostra sulla Shoah. Gli artisti invitati hanno scelto una foto d'archivio. Il gallerista ha stampato la foto su una tela, al centro della stessa. La tela e' stata messa su un supporto con chiodi agli angoli. Ogni opera aveva dunque un'identica dimensione.
Ho scelto d'inserire i poveri resti fotografati in una livida stanza, come visti dall'alto, scoperti in una fossa, aprendo una botola. La tela e' fissata con grandi viti al supporto ligneo che e' stato dipinto mimando una cornice di legno.
Non e' un caso che io abbia preferito le viti a dei chiodi. Ho evitato ogni elemento che dicesse di una violenza in atto. Allo stesso modo ho volutamente raffreddato la tavolozza cromatica (parchi colori, realizzati con pigmenti naturali e inchiostri) a dire di una consunzione ancora precedente alla morte.
Realizzata l'immagine, io stessa ho avuto bisogno di coprirla. Ho usato un vecchio lino militare degli anni '30, che porta ancora i timbri dell'epoca, e vi ho stampato in serigrafia e col carattere courier delle macchine da scrivere, i celebri versi di Todesfuge di Paul Celan, nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua.
L'osservatore arriva all'immagine solo sollevando il lino e la scritta. Paul Celan è il testimone. La testimonianza diventa la mediazione fondamentale perchè la memoria stessa rimanga intatta. E molti testimoni sono ormai scomparsi.
Sollevare il lino è retrocedere nel tempo e riattualizzarlo.
Ho volutamente rimosso l'iconografia consueta della Shoah, Fili spinati, sangue, pigiami a righe...la parola "indicibile"...
TODESFUGE, Cm 100 X 80, anno 2009
tecnica mista:
Pigmenti naturali su tela
Serigrafia su lino (tela militare)
Di origine veneziana, Giancarla Frare si e' formata alle Accademie di Napoli (diploma 1972), Urbino e Venezia. Ha vinto, nel 1981, la Borsa di Studio del Museo d'Arte Moderna di Ca' Pesaro a Venezia. Ha esposto in oltre 200 mostre individuali e di gruppo in Italia, Europa, America, Medio Oriente.Tra le mostre personali più significative: 1975 Museo Arengario di Monza,1983 Museo di Ca' Pesaro Venezia,1987 Fondazione Bevilacqua La Masa Venezia,1990 Musei Civici di Como, S.Francesco (mostra antologica a cura di Enrico Crispolti),1997 Galleria Civica di Palazzo Crepadona Belluno (mostra antologica a cura di Flaminio Gualdoni), 2002 Galleria Giulia Roma, 2005 Palazzo dei Capitani Ascoli Piceno, 2005 Istituto Austriaco di Cultura Roma, 2005 Sala d'Aspetto Reale Monza, 2006 Galerie im Traklhaus Salzburg, Istituto Italiano di Cultura Vienna, Leopold Franzens Universität Innsbruck, 2007 Kro Art Gallery Vienna, 2008 Palazzo Crepadona, Cubo di Mario Botta, Belluno, 2009 Palazzo dell'Abbondanza Massa Marittima...
Tra le mostre collettive più significative: dal 1979 al 1987 Fondazione Bevilacqua La Masa Venezia,1983 Museo M.I.S. S.Paolo del Brasile, 1983 Museo di Ca' Pesaro Venezia, 1984 Moderna Galerjia Lubiana, 1987 Fondazione della Biennale di S.Paolo del Brasile, 1989 Galleria Civica di Idrija,1989 West Room Gallery New York,1994 Biennale Internazionale di S.Paolo del Brasile,1995 Istituto Italiano di Cultura del Cairo, 1995 e 1997 Biennali Internazionali di Lubiana, 1996 Museo Barracco Roma,1997 Galleria d'Arte Moderna Roma, 1997 Modern Art Museum Portland USA, 1997 Museo Nazionale di Haifa, 1997 Istituto Nazionale per la Grafica Roma, 1999 Palazzo delle Esposizioni Roma, 2000 Triennale d'Arte Celano, 2000 e 2003 Triennali Internazionali del Cairo, 2000 Museo di Arte Contemporanea Luigi Pecci Prato, 2001/2002 Musei di Arte Contemporanea di Tunisi, Rabat, il Cairo, 2002 Museo da Agua Lisbona, 2003 Istituto Nazionale per la Grafica Roma, 2004 The Niavaran Foundation Teheran, 2007 Museo di Arte Contemporanea Erice, 2007 Kro Art Gallery Vienna, Miart Milano, KunstArt Bozen, International Art Fair Zurich, Arte Moderna e Contemporanea Roma, 2008 Biennale Internazionale Musei Civici di Bassano del Grappa (1° Premio), 2009 Fondazione Umberto Mastroianni Arpino, 2009 Istituto Italiano di Cultura New Delhi..
La sua attivita' letteraria inizia con "Rasoterra" opera segnalata , nel 1994, al II° Premio Letterario Nazionale "Nuove Scrittrici" , con la motivazione:
" Sintesi dell'espressione e forza icastica sono il segreto della poesia di Giancarla Frare, che si manifesta con una sintassi scarna, quasi assente, per evidenziare la ricerca linguistica..." " Rasoterra" è segnalata, nel 1995, al Premio Internazionale "Eugenio Montale".
" Rasoterra" è pubblicata dalle Edizioni Tracce nel 1996.
Vince nel 2006 la XIII Edizione del Premio Letterario Nazionale " Scrivere Donna" con il libro " Come Confine Certo". Il testo e' pubblicato nel 2007 dalle Edizioni Tracce e segnalato nella XXII Edizione del Premio Lorenzo Montano.
Le opere di Giancarla Frare sono presenti nelle collezioni permanenti di Musei e Fondazioni in Europa e America. Tra le più significative: Graphische Sammlung Albertina Vienna, Museo del Castello Sforzesco Milano, Museo per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci Prato, Istituto Nazionale per La Grafica Roma, Museo d'Arte Moderna di Ca' Pesaro Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa Venezia, Portland Art Museum USA, Museo di Arte Contemporanea Erice, Musei Civici Bassano del Grappa...
Riportiamo due relazioni legate alla letteratura in rete, argomento che ha caratterizzato una delle giornate della recente Biennale Anterem.
«CHE COSA CI DICE, CHE COSA DICE “NOI”, E CHE COSA SI DICE DI NOI…»
(una nota di Lorenzo Barani sulle tracce di Jean-Luc Nancy e Jacques Derrida)
Mi è consentito, e ringrazio Flavio Ermini, un fulmineo tempo di pensiero ad alta voce.
Taccio, dunque, ora del rapporto tra Web e Voce, titolo esigente che avrei desiderato suggerire e che tengo nel cassetto. L’Web, sotto l’apparente illimitato vociare, è l’implacabile oltrepassamento della Voce. La voce, come il suono, è corpo e si porta dietro le tenebre e il pesante e perciò, in virtù della sua ricchezza e delle sue segretezze, è più lenta della luce; da sempre, infatti, la voce anela alla luce e alla verità che sta nella luce. L’Web, sotto l’apparente illimitato vociare, è l’implacabile vittoria del veloce sulla stessa luce, dunque sulla verità che la luce parametra.
Taccio pure del titolo L’Web e la nuda vita che tengo accanto all’altro per la loro reciproca compagnia, temi che proverò a trattare nel Seminario di Filosofia per il Comune di Modena nel gennaio-marzo 2010.
Ho preferito tentare di comprendere una frase di Jean-Luc Nancy, «che cosa ci dice, che cosa dice “noi”, e che cosa si dice di noi…»; solo un incipit, beninteso, che tenta un approccio dall’interno dell’interrogazione a cui la filosofia è nuovamente costretta a questionare se stessa, disarcionata, così come si ritrova, dal Web. Certo, anche un semplice incipit si ritroverebbe nel garbuglio di impossibili scelte non volendosi ridurre a una mera elencazione delle molteplici quaestiones.
Vado dunque in leggerezza e pennello a guisa di semplice acquarello mentale, qualche rapida velatura, che, spero, lasci trasparire i solchi e gli arativi mentali che l’Web sta scavando nei logoi, nella voce, nella nuda vita, nella lingua e nella poiesis in generale. Della lingua voglio toccare il destino cui va incontro nel Web il pronome personale «noi».
Da tempo Jean-Luc-Nancy s’interroga sul destino del nostro mondo che si va globalizzando, sulle prospettive della nostra società e sulla relazione dell’essere singolare-plurale. L’attenzione filosofica all’uso sempre più problematico dei pronomi personali è da considerare un sintomo del tutto inquietante. Nella mondialità automediatizzata, è il caso di domandarsi se il soggetto io di «io sono divenuto questione a me stesso» (quaestio mihi factus sum, Agostino), abbia o no ancora qualcosa in comune con l’io che entra nel Web; se la relazione io-tu del linguaggio tradizionale ha ancora qualche riferimento con l’io-tu che viaggia in Rete. In-Rete tutti sono io per tutti e, all’unisono, tutti sono tu per tutti.
Questo unisono non va sottovalutato, perché è proprio la cosa da pensare. Nella virtualità elettronica dell’unisono, la contemporaneità del contemporaneo è in sé un’atemporalità del tutto indifferente al tempo, ed è in sé una aspazialità del tutto indifferente alla locazione. Nell’unisono della mondialità automediatizzata del Web, l’onnicompresenza di tutto e del suo opposto è tale da non rimarcare più nessun rilievo, da non salvare in sé, qua talis, nessuna differenza, neppure la differenza io-tu. In questo punto virtuale tutti gli io e tutti i tu sono compresenti con i loro logoi e i loro contra-logoi.
L’’unisono pensato nella potenza illimite della tecnologia precede e sovrasta senza confine la problematica stessa dell’unificazione delle lingue, processo che, peraltro, di per sé, ha già corso avanzato in direzione di una perdita stordente delle differenze. Nella babele dell’unificazione delle lingue, il problema della tra-duzione/tra-dizione delle lingue è dei più urgenti e complessi della Filosofia, e non lo si potrà più pensare a prescindere dal problema della lingua-Web, che non costituisce né una semplice metafora né una pura metonimia del linguaggio.
Prendiamo i pronomi personali come parte sintomatica per il tutto e chiediamoci: che ne è del destino dei pronomi personali, innanzitutto, dunque dell’identità e delle differenze, del sé e dell’altro, a partire dall’interno stesso del Web, ammesso che supporre una interiorità-Web non sia proprio quell’ingenuo e sviante antropomorfismo che va del tutto messo in lente. Eppure Agostino – ormai evocato ce lo ritroviamo innanzi – dopo aver scandagliato invano la propria interiorità alla ricerca di una verità incontrovertibile e stabile, non trova che impermanenza e transitorietà, e nonostante abbia passato in rassegna tutte le maggiori scuole di pensiero dell’antichità, dunque tutto lo scibile disponibile (già, che noi oggi diremmo in Rete). Solo a partire dall’altro, a questo punto con la A maiuscola, può rinominare propriamente, cioè secondo i giusti limiti, l’io, il tu, il noi. Questa avventura che va dall’io al noi passando per il tu (agostinianamente con la T maiuscola), ci porta nel cuore della questione dei pronomi personali. Ebbene, questa logica va radicalmente abbandonata se si vuole prendere sul serio il problema, il cui nocciolo è che la Rete ci precede, ci parla, ci dice, ci narra, ci interroga ben più radicalmente e ci interpella aprioristicamente ben più di quanto noi per lo più non si sia disposti ad ammettere. Il noi, se di noi si tratta, è il problema che ci si pone e da cui partire. Il fatto è che rispetto al Web siamo nella condizione inestetica del ciclista in salita, il quale via via che s’avvede che tutte le strade sono in salita e, paradossalmente, nessuna porta alla cima, checché si creda, suda, alita e puzza,.
In questa pre-cedenza e rinominazione dell’io-tu nel «noi» del Web, la tékne con cui si pone il «noi» e che si sottrae non va considerata tanto come un trascendentale veritativo, ma orbene come un’attuosità performativa, radicalmente metamorfosante. Non solo, ma la performatività non si limita al piano sociale, a una possibilità esteriore di commercio, di comunicazione, di informazione; diviene, piuttosto, anamorfosi pubblica e politica del mondo a venire, che attraversando l’interiorità di ciascuno, modifica l’intimità più sacra che ciascuno ritiene di essere, e questo ben prima dell’auto-certificazione pronominale e auto-possessiva. Ecco, tentiamo uno sguardo perspicuo su questo punto e riappelliamoci a Iean-Luc Nancy.
Essere singolare plurale nella lingua del Web
In Essere singolare plurale, J.-L. Nancy, scrive:
«Senza dubbio, noi ancora balbettiamo: la filosofia giunge sempre troppo tardi, e di conseguenza troppo presto. Ma il balbettamento stesso restituisce la forma del problema: noi, «noi», come dirci noi? Oppure, che cosa ci dice, che cosa dice “noi”, e che cosa si dice di noi, nella proliferazione tecnica dello spettacolo sociale, del sociale spettacolare, della mondialità automediatizzata e della mediatizzazione mondializzata? Noi non siamo più capaci di appropriarci di questa proliferazione, perché non sappiamo pensare la natura spettacolare…»1.
Nancy vede un salto rispetto alle società precedenti, proprio nella mediatizzazione mondializzata che costituisce la nostra società. La spettacolarizzazione prima di essere una devianza patologica di politici scalmanati e arroganti anziché no, è posta in essere ben più radicalmente dal semplice differenziale di potenziale tecnologico. Da lì derivano il fatto che è a portata tecnologica che tutti dicano contemporaneamente tutto, che il noi preceda illimitatamente l’io, che i contatti si moltiplichino all’inverosimile velocizzandosi magicamente, che il tempo di “collegamento” mediatizzato sia destinato a farsi sempre più assorbente e interlocutorio, e così via.
In questo «e così via» c’è la performatività del mondo a venire, rispetto al quale gli atteggiamenti di risentimento inveggente, le accuse di non senso degli eventi mediali, il rifiuto apocalittico2 che impedisce che la perspicuità della reale posta in gioco possono comportare la perdita del punto di gravità del presente. È necessario, piuttosto, per comprendere il mondo nel suo farsi, non alimentare un atteggiamento di sprezzo occludente la vista circa il fatto che, se nel frastuono universale certo ha luogo la megafonia, il sovratono, tuttavia il carattere specifico che dobbiamo pensare della nostra società è la spettacolarizzazione delle relazioni, dei sentimenti, delle comunicazioni, delle informazioni.
Qual è, dunque, la caratteristica della sovversione degli eventi nel mondo della spettacolarizzazione? Qual è il punto di immanenza da cui osservare i fenomeni nel loro divenire, tale da fare vedere i veri pericoli e tra essi, primo, la perdita di senso? Qual è il punto di gravità del presente che permette di individuare le forme opportune per combatterli?
Per Nancy c’è una strana visibilità intrinseca all’uso che la gente fa dei media multimediali, e proprio questa esposizione dell’atto di comunicare, di informare, di collegarsi e stare collegati, è proprio questa istanza di visibilità che costituisce la nuova sociazione, il nuovo collante del sociale e il particolare stravolgimento del politico. Tutto il reale esistente deve apparire in questo spettacolo; il reale deve farsi atto ostensivo di sé; l’agire deve agire nell’esposizione di ogni singolo atto. La tékne più raffinata si concretizza nel rendere concreta questa istanza di visibilità, questa sottolineatura di presenza. La tékne consente la presentificazione della presenza – direbbe Heidegger.
Il fiore all’occhiello della potenza dell’universale presentificazione e attualizzazione nell’esposizione-mondo è la Rete. L’orizzonte dell’accadere è sempre più circoscritto dalla forma-Rete. Il fatto che la forma-Rete si faccia un baffo dell’aura del senso, non significa che non sia comunque in se stessa che si rendano per lo più possibili gli accadimenti. Al senso subentra l’ob-stenso, alla significatività la spettacolarità. Il possibile sarà possibile solo secondo la forma ostensiva dell’accadere. Solo nel piano di immanenza della spettacolarità cadono i fatti, o non accadono affatto. Le filosofie che professano a vari titoli nostalgie del senso si devono interrogare e devono innanzitutto chiedersi se non svolgano il compito di distrazione dal punto di immanenza radicale della tecno-scienza e di inibizione della comprensione dell’orizzonte dell’accadere. Eppure, la filosofia deve pensare ciò che è realmente in gioco, la chance possibile-impossibile che è nelle cose.
L’essenza della spettacolarità sta nel gioco di moltiplicazione dell’alcunché imposto dalla logica dell’inter-ferenza della tékne. La tékne funge comunque da moltiplicatore, da valore aggiunto, da capitalizzazione in atto, da inarrestabile, insopprimibile attuosità. Ha visto bene Nietzsche quando colloca l’essenza di questa macchina performativa al di là del bene e del male, cioè nell’essenziale indifferenza ai valori, alle tradizioni, al consenso stesso. La tékne è la morte della politeia intesa come partecipazione alla costruzione di un senso comune, nel senso che la avoca a sé e solo al suo interno la rende possibile. Ridescrive a priori la scena che permette all’essere di mostrarsi e agli enti di divenire. Ma allora non si tratta più della politeia che crediamo di avere conosciuto, e invero è già da lunga pezza che ci bendiamo gli occhi innanzi alla sua tecnologica metamorfosi, perché già da tempo la tecno-scienza procede allo smontaggio del senso come scena del mondo e al suo rimontaggio nei termini della pura spettacolarità.
Ecco allora un primo punto su che cosa sarebbe la nudità di senso quando ci si interrogghi sul
«che cosa ci dice, che cosa dice “noi”, e che cosa si dice di noi, nella proliferazione tecnica dello spettacolo sociale, del sociale spettacolare, della mondialità automediatizzata e della mediatizzazione mondializzata?»3
Questo nuovo senso è il senso spoglio di rinvii teologico-metafisici, ed è, dice Nancy.:
«“il senso”(…) trasformato nel nudo nome del nostro essere-gli-uni-con-gli-altri: noi non “abbiamo”più senso perché siamo noi stessi il senso, interamente, senza riserve, infinitamente, senza altro senso al di fuori di “noi”»4.
Questo «noi» s-nudato di tutto l’apparato mimetico, proiettivo e di ogni transfert nel Padre, snudato di ogni genealogia e appartenenza, di ogni memoria e idealità, è il «noi» più impensato, è il peso più grande del mondo che nella nostra fragilità di infanti dobbiamo portare. Un vero salto rispetto alla metafisica.
In questa nudità assoluta di senso del “noi” nel mondo automediatizzato, l’apparenza elettronica ha già schiacciato in sé passato e futuro, ha già cancellato in sé lo spazio, l’animalità, il corpo, e ha già ritradotto la possibilità di essere nella possibilità della sua tecnologica spettacolarizzazione. Mai la filosofia ha ricevuto una sfida di questa portata, mai le categorie su cui nei millenni precedenti s’è strutturata subiscono uno spiazzamento così radicale e inaudito. Ci rimane solo una prassi impossibile, non una consistenza ontologica, psico-sociologica. Dobbiamo continuamente ri-leggerci, ri-pensarci nel bagliore del nostro apparire e riapparire estenuatamente velocizzato. Noi siamo balugini di noi stessi. Dice Nancy:
«Noi non dobbiamo identificarci in quanto «noi», come un «noi». Dobbiamo semmai dis-identificarci da ogni specie di «noi» che sia il soggetto della propria rappresentazione, e dobbiamo farlo in quanto noi compariamo: il pensiero di noi anteriore ad ogni pensiero – e la sua stessa condizione a ben vedere –, non è un pensiero rappresentativo (non è un’idea, una nozione, un concetto) ma una praxis e un ethos: la messa in scena della comparizione, quella messa in scena che la comparizione è. Noi già ci siamo, ci siamo già sempre, ad ogni istante. Non è una novità – ma occorre, a noi occorre, reinventarla ogni volta, entrare ogni volta di nuovo in scena»5.
Ora, elettronicamente, ogni punto dello spazio e del tempo è un “possibile” crocevia infinito di messaggi, informazioni, immagini, logoi e contra-logoi; di questa potenza inaudita è capace la tékne, oggettivamente. Che io abbia scritto “possibile” e non attuale non dipende dalla logica della tecno-scienza, ma, ad esempio, dalla contingente convenienza economica. Pensare filosoficamente, tuttavia, è portarsi al livello di maggior potenza della sfida. Per dirla in breve, citando Nancy:
«Noi non siamo più capaci di appropriarci di questa proliferazione, perché non sappiamo pensare la natura “spettacolare” (che releghiamo, tutt’al più, sotto le insegne inconsistenti dello “schermo” o della “cultura” […]. Noi non siamo all’altezza di «noi»…non abbiamo nemmeno cominciato a pensarci, a pensare «noi stessi» in quanto «noi»»6.
L’impensabilità dell’evento
In questo luogo estremo, la sfida della tecno-scienza alla filosofia è che «gli eventi nel loro accadere nella scena dello spettacolo contemporaneo non sono pensabili»7. Siamo incapaci di pensare la spettacolarità perché scioglie come neve al sole le categorie deontologiche tradizionali in cui saremmo tentati di inscriverla. Che il reale sia pura fenomenalità senza residuo, senza rinvio, senza noumeno, senza mistero, questo è il mistero, il segreto dell’oggi impensabile.
L’Web è il «qui e ora» dello spazio tempo simultaneo. Nel Web il «noi» non è mai la semplice autocoscienza di noi scrittori, di noi intellettuali, di noi occidentali, di noi gruppo di appassionati d’arte, ecc.; non è neppure un’indeterminatezza o una generalità diffusa. È una pluralità che si dice nella spartizione e nell’accavallamento contemporaneamente. Si è noi in una simultaneità multipla. Questa simultaneità multipla precede il mio stesso io che entra ed è in rete, come un’autoreferenzialità in generale, come un’appartenenza alla spettacolarità di ogni possibile referenzialità. Io entro come io particolare nella referenzialità generale e «ogni volta» come un unico, ma «ogni volta» mi precede la simultaneità dei «ciascuno» in cui vado a collocarmi e che mi consente di riconoscermi e di essere riconosciuto. Perché io possa essere debbo entrare in questa dimensione di spettacolarità tecnologicamente fondata. Dice Jean-Luc Nancy:
«L’«ogni volta» implica in un sol tempo la discrezione dell’«uno a uno» e la simultaneità dei «ciascuno». Poiché un «ciascuno» che non sia nella simultaneità non sarebbe nello-stesso-tempo-accanto ad altri «ciascuno», si troverebbe in un isolamento che non sarebbe neppure un isolamento, ma la pura e semplice impossibilità di designare se stesso, e dunque di essere «sé»»8.
Con l’Web non si tratta più di identità, ma di identificazioni. Dice Nancy: «mai identità, sempre identificazioni»9
L’Web ci costringe su una linea di estrema impensabilità della scena dello spettacolo. Innanzitutto, l’impensabilità è nell’ordine di una nozione univoca? Possiamo ancora dire, oggi, cosa significa impensabilità? L’impensabilità è nell’ordine del significato, o l’impensabilità che l’Web instaura se ne fa un baffo e si va ad attestare fuori di ogni significato? Come pensare semanticamente il bit e l’elettrone? Tutta la speculazione filosofica è nata per guantare l’impensabile e ogni volta da capo ripartire a ordinare il mondo in funzione dell’impensabile ritradotto così in impensato. L’impensato come punto massimo di esercizio di ordine e di potere. Ma, allora, che cosa di eccezionale si va prospettando se la filosofia avverte una difficoltà invalicabile di fronte alla messa-in-Rete del logos, alla riduzione dell’essere a pura immagine fenomenalizzata, spettacolarizzata?
Di che razza di sottrazione è portatore l’Web? La filosofia ha da sempre coltivato un’inimicizia rispetto all’attualità del proprio tempo e ha pensato l’impensabile per respingerla, per metterla alle strette, così concependo la verità come scarto, come s-velamento-ri-velamento, come a-lethzeia. Oggi sembra che si siano capovolte le parti e che la chance dell’impensabile non appartenga più alla filosofia, alla religione, ma alla tecno-scienza. Questa, nata per l’evidenza e la manifestatività dimostrative nell’esattezza calcolatoria, è proprio lei che oggi respinge la filosofia dall’impensabile che sempre l’ha attratta e di cui da sempre è stata vestale.
L’evidenza come impensabilità
L’Web, fiore all’occhiello della tecno-scienza, si pone come attualità in atto in ogni direzione e questo al di là di ogni pretesa consistenza sostanziale, di fondamento o di principio. Sbalza da cavallo, dal sancta sanctorum della metafisica i suoi dispositivi più possenti e fa dell’attualità in atto tutto il gioco possibile. Come farsi carico dell’evento in un’attualità ricondotta alla pura spettacolarità? Si potrebbe pensare che si va aprendo una nuova chance al di là di ogni senso?
Siamo a ripensare i parametri metafisici nella filosofia moderna. Per Cartesio l’idea chiara e distinta è il sintagma per eccellenza della verità dell’io che si dà solo nella scena stessa della sua evidenza. La ragione moderna è l’evidenza evidente per l’io come per chiunque. Osserva Nancy:
«La scena è lo spazio della comparizione, in mancanza del quale resterebbe solo l’essere puro e semplice, ossia tutto e nulla, tutto come nulla.
L’essere si dà singolare plurale e si dispone in tal modo come la propria stessa scena. […] In tal senso, non c’è società senza spettacolo o, meglio, non c’è società senza spettacolo della società. […] Non c’è società senza spettacolo, poiché la società è lo spettacolo di se stessa.»10.
Si appare a sé e agli altri distintamente e simultaneamente, essendo la comparizione l’essere-insieme sociale stesso. In questo senso «si appare a sé solo nella misura in cui si è già un altro per sé»11
Bene! Il fatto è che l’attualità ricondotta alla sua visibilità virtuale è insieme l’evidente per eccellenza e l’impensabile stesso. Abbiamo pensato in antico la verità incontrovertibile del Modello ideale a partire dal quale, nella logica mimetica, nella logica della corrispondenza, abbiamo pensato il mondo. Poi, nella modernità, l’abbiamo pensata nella logica secondo evidenza della soggettività e della rappresentazione. Ma, oggi, l’evidenza puramente evidente nell’infinitesimo, e basta, è impensabile. Superiore alla velocità della luce e del pensiero. Il miliardesimo di secondo la tékne saprà calcolarlo, ma noi non riusciamo a pensarlo, a significarlo, a memorarlo, a narrarlo. Un’evidenza invisibile, una visibilità invisibile – ma è la pura visibilità senza fondo, senza veli, infondata e infondabile; uno spettacolo in-svelabile. Il messaggio digitale, l’immagine elettronica, una notizia informatizzata partono già senza fondo, non patiscono la mancanza di fondo, non viene loro a mancare nulla. Partono da un non-inizio e compiono una vicenda virtuale. Tutto è già sempre mancato e tutto è già sempre passibile di comparizione, dunque tutto è ridotto alla mera apparizione nel non tempo e nel non luogo propri della mediatizzazione iperelettronica. Si sgancia la relazione tra tempo e verità, relazione che precede e fonda la filosofia stessa. È di Talete, il primo dei sette sapienti, la sentenza che ci riporta Diogene Laerzio: «Il tempo di tutti è il più sapiente perché scopre ogni cosa».
Il senza fondo della pura spettacolarità
La dematerializzazione della dimensione “al di là della luce” fa saltare l’apparato categoriale di riferimento (materia-forma, sostanza-accidenti, potenza-atto e tutte le liturgie linguistiche, sintattiche, di consecutio temporum e tutte le inflessioni espressive conseguenti) evocando l’impensabile demone della pura apparenza della totalità, demone che s’aggira irremovibile per il mondo impermanente delle pure apparenze. L’arte delle avanguardie aveva anticipato qualcosa di simile, nel suo smembrare ogni durata della tradizione, ogni tenuta durevole delle forme. Tutto diveniva possibile e ogni azzardo ne richiedeva un altro fino al funambolismo della mera gestualità dell’artista, fino alla confezione ed esposizione della defecazione d’artista, ovvero alla coincidenza della performance con la performatività pura. Non faccia velo all’intelligenza la scabrosità ambigua dell’immagine Merda d’Artista del Manzoni, che invece inscatola nel massimo di artificiosità e di artefattualità la più nuda e la più povera naturalità che sia concessa alla nostra natura di animalità, com’è degli umori, del muco, dello sperma, del latte, e che so io.
L’Web si spinge ben oltre, fino alla declarazione dell’evidenza che nell’atto virtuale infinitesimo non c’è più nulla da pensare. Non reggono la delocazione spaziale a tentare uno smontaggio-rimontaggio di senso, un cambio d’uso dell’oggetto, uno spiazzamento simbolico; tutte operazioni disperate del senso e nel senso tentate dall’arte delle avanguardie. Il paradosso dell’arte d’avanguardia sta nella bellezza della disperazione assoluta del senso a cui fa da apripista e che vanamente potrebbe illudersi di seguire. Capolinea abissale, vertigine della vertigine: tutta la storia dell’opera d’arte precedente aveva ritenuto di lasciar più spazio allo spirito dematerializzando il gesto dell’artista, puntando sempre di più sull’atto del creare, dell’inventare, del porre, dell’installare, ma è ora, nel Web, che l’infinita potenza dell’attuosità si ritrova esibita in sé senza spazio e senza tempo, nella virtualità stessa del suo differenziale di potenza.
Certo l’opera d’arte, più della filosofia e della teologia ha rincorso, preceduto, guantato la folle velocizzazione della tecno-scienza. Perciò, a suo modo, l’Web, come forma del linguaggio e della vita, è forma d’arte, la forma che l’arte delle avanguardie ha concepito e che ora viene conseguita, infine, non solo al di là delle forme, ma oltre, addirittura fino alla distruzione tecnologica dello spazio e del tempo – involucri necessari, si è sempre ritenuto, dell’arte. L’arte dà forma di visibilità spettacolare alla cosa nella magia tecnica della mancanza-presenza dello spazio e del tempo. Così, si pone come la visibilità da vedere e come l’informazione da ascoltare al di là del vero, come l’annuncio che si dà, semplicemente, al di là del vero.
Il fenomeno-in-generale divenendo automaticamente spettacolarità, prende forma d’arte, di fenomenalità, un’apparenza nella sua forma propria, cioè di pura apparenza. L’opera d’arte nel ventesimo secolo compie la vertiginosa metamorfosi di scomparire nella sua proprietà specifica di carattere estetico e acquista il compito infinito non di costruire modelli, ma di donare “apparenza di forma” all’istante che, velocizzato all’inverosimile, scomparirebbe nel suo stesso apparire, anzi, sarebbe già scomparso nel suo stesso apparire. Appare solo in quanto già scomparso. Infatti, la spettacolarità dà consistenza di presente all’esistente come all’inesistente indifferentemente, proprio per la natura fuggente più della luce del bit e dell’elettrone. Così l’evento acquista valore estetico e la forma d’arte si spalma su tutta la vita, nel nostro caso rende spettacolare tutto ciò che transita per l’Web, cioè tutto.
È in atto una tangenza tutta speciale tra la spettacolarità del mondo attuale e lo spettacolo che ha a che fare con l’opera d’arte. Spettacolarità nella assolutezza della lingua del Web ed evento dell’arte convergono in un oggi asintotico. Ciò che risulta impensabile alla filosofia è la convergenza asintotica di pura spettacolarità ed evento dell’arte, di pura spettacolarità e storia, di pura spettacolarità ed economia, di pura spettacolarità ed amore. A proposito di spettacolarità ed eros, abbiamo sott’occhio esempi illustri che andrebbero letti, dunque, non tanto nella forma del disgusto etico-politico, quanto nel loro porsi come esempi limite di volontà di consistenza della pura apparenza. La pura spettacolarità ci ha sempre preceduti e ci può sempre seguire, indifferentemente; infatti, non perché spudoratamente apparente e basta, non perciò ci obbliga meno ad assistere ai suoi giochi di effetto a catena, giochi non certo senza causa, ma indifferenti a ogni causa, dunque davvero sconcertanti.
L’evidenza impressionantemente smarcata del puro darsi da vedere dell’evento
L’evidenza impressionante del puro darsi da vedere dell’evento che si impone è già un’evidenza smarcata rispetto alle domande etico-deontologiche della filosofia. È assai difficile pensare un evento il cui accadere venga perduto ogni volta che lo si solleciti a rispondere del suo messaggio, del suo referente, del suo senso, del suo essere. Il singolo evento non è tale da finire per non essere decisivo e interlocutorio, nel Web, a causa del flusso illimitato di informazioni, di messaggi, di linguaggi, di relazioni. Nell’orizzonte del Web nessun significato è decisivo per il suo evento. Il singolo evento, se di evento si debba parlare, non è mai decisivo per il suo senso, accadendo in un mondo fuori dell’ordine di senso e anche fuori dell’ordine del non senso. La filosofia, anche nella più vertiginosa fenomenologia, è in difficoltà a parametrare una fenomenalità che si offre in riduzione zero di senso, e dunque totalmente in rotta con l’attitudine onto-metafisica.
L’opera d’arte è stata più duttile e sottile nel seguire come ombra la velocizzazione dei mutamenti imposti dall’evoluzione della tecno-scienza. La storia del Novecento mostra la potenza della tékne di spostare i limiti dell’esperienza del mondo. L’Web, in questo senso, è un fiore all’occhiello di questa rivoluzione in atto. L’Web è un dominio in cui si generano le differenze di potenziale inaudite, tali da accelerare il corso della vita fino a farlo uscire dai suoi cardini, dai cardini del tempo e dello spazio. Non solo quindi le categorie dell’intelletto sono messe sotto una pressione improponibile, e con esse tutta la logica trascendentale del Soggetto kantiano, ma la stessa estetica trascendentale, le forme pure spazio-tempo, il basamento stesso della fenomenicità del Soggetto. La potenza attuale della tecno-scienza mette sotto pressione tutta l’esperienza per strapparla da ogni limite. Così la tecnica funge da piano inclinato dell’illimite su cui la vita ha preso a scivolare, a lasciare tutto alle sue spalle, persino se stessa.
Dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale, la tecno-scienza è il luogo di tutte le accelerazioni e di propagazione di mutamenti inesausti; nella propagazione della velocizzazione infinita solo una certa formalità, che chiamo spettacolarità, riesce talora a rattenerla per un attimo. Ecco perché tutto tende a farsi spettacolare, religione compresa. La filosofia non è in grado di stare al passo e di formalizzare l’esperienza nel merito dell’universo mediale. Non c’è frammento virtuale o frame della vita che oggi possa sottrarsi di principio alla sua possibile esposizione mediatica, e nel contempo, non c’è frammento mediatico che non aspiri alla spettacolarizzazione, cioè alla sua elaborazione tecnologica.
La mobile frontiera tra la spettacolarità degli eventi e l’opera d’arte
La formalità estetica è funzionale alla vertigine della accelerazione tecnologica, anzi, la ri-configura come esperienza possibile. Per il resto pare che non ci sia resistenza al rovello rivoluzionario tecno-scientifico. Che la temporalità del tempo della tékne rivendichi a sé tutta la possibile rivoluzionarietà della produzione-mondo è ormai evidente e segna il declino delle ideologie rivoluzionarie, che nel corso del XX secolo si sono trovate nella condizione della rincorsa perdente, invece che della anticipazione seduttiva. Oggi, l’unica forma capace di cavalcare la produzione tecno-scientifica dell’evento è la forma-spettacolarità. Per ciò che concerne il punto d’incontro umano delle nuove generazioni, l’Web è come il nuovo esperanto cosmopolita in virtù dell’universalità della sua estetizzazione spettacolare. Lì sta la nuova formula della politica. Tutti, giovani e non più giovani, preceduti nel loro essere da questo necessario dover apparire, desiderano approdare, a questo universo della multimedialità, nell’aspettativa della permanente traduzione multimediale del loro essere sociale. Sono persuaso che il problema della traduzione sia il vero problema del linguaggio negli anni a venire. La macchina della traduzione del mondo nella multimedialità è la spettacolarizzazione, la possibilità della totale fenomenalizzazione, e questo è il cuore battente dell’Web. D’altronde, Web sta a significare la svolta epocale in cui tramontano tutti i grandi dispositivi di traduzione del moderno. Il fatto è che l’Web, che pure appare come la più smagliante circolazione di idee, interessi, proposte, contatti, informazioni, nella sua accelerazione tecno-scientifica senza centro e senza perimetro, brucia in volata ogni dispositivo traduttivo, ogni processo di formazione di cultura e di Bildung. Questi processi esigono e assorbono spezzoni di temporalità che subito risulta inattuale e anacronistica rispetto al continuum della dimensione ininterrotta della circolazione e del collegamento. La realtà virtuale del Divenire-Web è la sua pura fenomenalità, estranea al resto, perché senza resto di sorta. Tutti i frammenti spazio-temporali della possibile esperienza sono traducibili nell’immagine spettacolare; tutto il reale deve venire riscritto in immagine mediatizzata.12
Ma l’apparato categoriale mentale e disciplinare per comprendere la chance di questo processo resta ancora in ombra; da qui il disagio a trattare dell’ Web, lo spirito di risentimento nei confronti della pura fenomenalità che è in atto nella multimedialità. La filosofia, in merito, sta segnando il passo, mentre l’Web incalza indomito. La filosofia, che sempre ha avuto la passione per lo scarto e la differenza rispetto al reale esistente e sempre ha inseguito l’impensato, si trova, oggi, a solidarizzare con gli arroccamenti del reale e dell’umano che non vuole lasciarsi tradurre in immagine spettacolare. Stenta in tutti i modi ad aderire alla nuova misura dell’alethzeia come pura nudità del virtuale. Il fatto è che la derealizzazione dell’esistente, la riduzione dell’esperienza a flusso immaginale impone una nudità assoluta.
È cambiato, con Web il criterio di verità: si tratta di un’alethzeia senza lethe. Un’immagine senza contro-realtà, una vertenza senza contro-versia, una partita senza contro-partita, un dictus senza contra-dictus, o meglio, un’infinita dizione all’unisono dell’infinita contra-dictione, una relazione senza cripte e segreti dell’io e del tu nel noi, un rapporto immerso in un noi indeterminato e indeterminabile. Passaggio dal futuro al passato senza presente testimoniale e testimoniabile, senza l’«Egli » della parabola di Kafka, così come la riprende e la argomenta Hannah Arendt in Tra passato e futuro.13
La spettacolarizzazione è l’unico istante di permanenza nell’attuale della visibilità trasfigurata dell’evento elettronico, digitale, ipermediatizzato, sempre troppo veloce per non essere già passato. Hai un bel da contare in millesimi di secondo, in milionesimi di secondo; ogni cifra che proferisci è già illimitatamente inesistente. Il tuo contare è già s-contato e non sta contando nulla. Sì!, non solo conti il nulla, ma il tuo contare non conta nulla e tu con lui. Allora non ti rimane che credere nella verità elettronica del contare, e così, paradosso, il massimo di tecno-scienza e la credenza, sempre ritenuta pre-scientifica, si incontrano in una linea di confine indecidibile. L’indecidibilità, dacché Web va irretendo il mondo, è una linea di confine che taglia all’interno sia la credenza sia la tecno-scienza, ed è comunque una nuova misura per iniziare a pensare l’Web. Non rimane, certo, intatta la credenza (leggi religione, ideologia, fede politica, tifoseria sportiva, ecc.) agganciata al transito dell’apparente nella momentanea permanenza, nel trattenimento del transito nel bordo sempre già inattuale dell’attualità. Proprio perché l’evento, la notizia, l’invenzione stessa non sfiorano che i margini dell’attualità, ecco che non bastano più neppure alcuni canali televisivi e alcune testate di giornali per essere attuali. È un bel peccato possedere canali televisivi, testate di giornali, case editrici e, non poter controllare, di principio, l’Web.
La fascinazione est-eatica (estetico-etico-mediatica) e il male assoluto
Oggi, la politica e l’etica subiscono senza quartiere il fascino del differenziale di potenza della macchina tecno-scientifica e ne rincorrono sconsideratamente la mera spettacolarità. In questo modo invece che amministrarne, nell’ambito del possibile, le chances e le contraddizioni, desumono tutta la loro logica dalle forme del sistema di ricatto della spettacolarità. Ma questo piano inclinato si affaccia già sull’orlo della vertigine. Che cosa si intravede già? Si intravede il male senza senso, il male senza ragione. È il male assoluto che, appunto, compare quando la ragione non è più in grado di elaborare un senso, ma intanto l’agire continua a procede indifferentemente performativo.
Scrive Meazza: «Dobbiamo convincerci che la nostra epoca è capace di un male gratuito con una confidenza impossibile in altre epoche (nelle epoche in cui dominano le figure del senso il male è sempre fatale, ma non gratuito. Esso è l’eterogenesi di un bene particolare. Le religioni infatti ne costituiscono, quando perdono il rapporto con la fede, il paradigma esemplare)»14. Già per gli scolastici, il male doveva vestirsi del bene per motivare l’azione, e quindi il bene rimaneva come causa formale anche del male. Oggi questo non vale più, e in radice non vale più. Oggi la tecnica avanza senza fini, senza bene finale di sorta. In un mondo in cui l’agire e il produrre possono essere senza fini, il male può mostrarsi in tutta la sua gratuità. La fascinazione per la spettralità estetica degli eventi può comportare la nuova gratuità del male. Il nodo sta nella reciproca conversione di spettacolarità del presente ed evento estetico. In che senso qui si cela il male assoluto? Nel senso che la pura spettralità, la riduzione ontologica alla pura apparenza, ritraduce il fenomeno in fenomenalità, cioè in fenomeno senza traccia, senza lascito, senza testimonianza, senza responsabilità. Tutto e l’opposto di tutto è possibile, e qui sta la radice del male assoluto, sciolto da giudizio e da giustizia. C’è un’incredibile inaccessibilità da parte del pensiero pensato a entrare nel meccanismo della conversione reciproca di eventualità e spettacolarità.
Per Jean-Luc Nancy, l’essere-gli-uni-per-gli-altri è l’unica misura mentale e il solo argine sociale al dilagare tecnologico del male radicale. Ma è già dentro un «noi» intessuto dai nodi della Rete, tecnologicamente preceduto e oltrepassato dal differenziale di potenza della tecnica. E in effetti, la prospettiva che si è aperta con l’Web è per degli io-tu che sapranno destreggiarsi in Rete nella misura del loro essersi alleggeriti di ogni bagaglio metafisico, ma capaci di inventare un «noi» non indifferente al male assoluto. Fare i conti con la Rete e vivere il mondo del Web comporta una estenuante apnea ma esige insieme una grande creatività, uno stato di disillusione-seduttiva, per ricorrere a un ossimoro, se non ci si vuole abbarbicare in modo letale a un’altra istanza onto-teologica già fagocitata in partenza dalla realtà di fatto tecno-economica.
La mancanza che non manca e la figura della différance di Derrida
Dunque la inaccessibilità della filosofia alla produzione-mondo secondo la tecno-scienza starebbe nel confine osmotico di eventualità e spettacolarità. Bene, la spericolata riflessione di Derrida sulla différance e sulla sua doppia distinzione sia dall’identità sia dalla differenza ha proprio di mira questa inaccessibilità. L’intera pratica della decostruzione è un entrare nel merito.
Innanzitutto, la decostruzione segna il venir meno di ogni altezza e di ogni profondità. Derrida prende sul serio il fatto che gli eventi sembrano accadere senza sfondo, come che l’orizzonte dell’accadimento coincidesse con l’accadere stesso dell’evento e, quindi, con l’evento stesso dell’accadere. Ebbene, quale vuoto segreto regge questa conversione dell’accadere dell’evento nell’evento dell’accadere? La différance vuole leggere questo vuoto segreto, vuole decodificarlo, sa che è lì che bisogna lavorare a ricreare, per non essere sempre in ritardo, sempre fuori sesto, per non «cercare mezzodì alla quattordici». Ebbene, la produzione della spettacolarità e la coincidenza dello sfondo dell’evento con il mostrarsi dell’evento stesso sono la nuova relazione extra-ontologica, la nuova scena del virtuale che importa pensare. Non pensare il virtuale nel suo continuo vertiginoso prodursi e riprodursi sarebbe riaffidare la decostruzione e la différance a una nuova modulazione della differenza ontologica, che altro non sarebbe che l’altra faccia del Medesimo e dell’Identità. Un inutile, nuovo capitolo di una ratio che ha già perso di vista il reale come virtuale.
La filosofia della différance vuole entrare nell’orizzonte impensabile dello spettacolo senza sfondo degli eventi e prova in vari modi a smarcare la filosofia dalla scenografia metafisica da cui pure prende le mosse. Giunge a mettere in evidenza la diversa natura dell’evidenza virtuale rispetto all’evidenza della verità onto-metafisica. La mancanza abissale che intesse la virtualità è di altra natura rispetto allo scoperto-velato del paesaggio filosofico tradizionale. La virtualità si accompagna a una mancanza che non si presenta come mancante e si sottrae così alla critica. La logica stessa della identità e della contra-dizione rimane fuori soglia rispetto alla pura presenzialità del presente nell’attualità della sua attualizzazione.
La filosofia in generale sembra dover segnare il passo di fronte a un insieme che, come l’Web, nell’opulenza dell’attualità della sua ex-posizione, non mette affatto in opera il proprio mancare radicale, tanto che la sua mancanza non fa segno, non alberga pentimenti, non dà estro a confessioni, non lascia traccia del suo stesso mancare, condizioni necessarie perché la filosofia metafisica proceda appunto a liberare un senso inveduto, inattuato, impensato. La spugnosità assoluta del virtuale sbaraglia in anticipo le accuse di superficialità e si fa un baffo del non senso.
L’Web mi appare come un insieme sterminato, illimitato dell’illimite, come un àpeiron anassimandreo inverso, dove tutto è destinato a confluire, ad archiviarsi, a mettersi in folle circuitazione, nell’indifferenza indifferente di un ipotetico mondo esterno, di una physis, di una qualsivoglia naturalità. L’Web, a ben vedere, non fa neanche questione dell’impensato, ma dell’impensabile, o meglio, dell’indifferentemente pensabile. Un insieme la cui messa in scena non è effetto di una causa, non è il fine di uno scopo, manca di ogni sfondo di riferimento, ma soprattutto un insieme assolutamente inverificabile, invalutabile, un insieme mancante della sua stessa condizione di possibilità, un insieme che di tutte queste mancanze non lascia traccia alcuna, una mancanza senza traccia del suo mancare, un mancare inassegnabile in una presenza. Ebbene, del Web non c’è critica che tenga, che non vi sia già caduta dentro, che non si perda nell’infinita circuitazione del tutto. La critica coglie la contraddizione, morde la approssimazione di senso, ma l’Web senza fondo si fa un baffo del senso e del contro-senso.
La posta in gioco estrema, nelle cui prossimità ci conduce la filosofia della différance di Derrida, compiuto il cammino della decostruzione dell’identico e del differente, sta nello spingere se stessa al di là di se stessa, ma un al di là non concepito come un altrove in rapporto a sé, come un proprio altrove, ma un altrove differente dalla stessa differenza, la disseminazione infinita del testo e della scrittura. Qui il pensare deve divenire puro ritmo performativo, evento performativo a sua volta, e deve accettare il passo della forma estetica così come si pone nella sua inessenzialità. Si tratta di tentare l’impossibile decostruzione della voce disperata – vibrazione di spettacolarità che si dona e si disperde come i cerchi concentrici sul pelo d’acqua dello stagno del linguaggio del mondo. Si tratta di carpire la voce insperata del mondo e di esprimerne l’energia, il ritmo, l’andamento, la musicalità.
Qui si apre lo sterminato orizzonte del Web, una differenza che si fa un baffo dell’identità e della differenza, un mancare che non si vela più mentre si svela, che non si rinvia mentre si presentifica, una performatività che ogni volta batte su se stessa come colpo riuscito e compiuto al di là di ogni dire, oltre i logoi possibili e gli illogici possibili. L’Web fagocita il giorno e la notte, le vie delle cavalle condotte dalle dee di Parmenide verso la Verità come Giustizia. L’Web onnivoro fagocita la coerenza e l’incoerenza, ingurgita ogni nocenza e ogni innocenza, deglutisce ogni senso e contro-senso, pura attualità performativa dell’accadere degli eventi tutti indistintamente.
La filosofia di Derrida è leggibile, infine, come la messa in scena opulenta dell’impotenza metafisica nei confronti della spettacolarità degli eventi e del loro orizzonte virtuale, ma è pure un passo avanti verso il recupero della divina unità di filosofia e poesia, la creazione della filosofia come poiesis, opera d’arte e letteratura insieme, come contro-spettacolo e spettacolo a sua volta.
Lorenzo Barani (Castelnuovo Rangone, Modena, 1948) insegna filosofia al Liceo Classico S. Carlo di Modena.
Ha pubblicato: Vita Spinoza (1986) Edizioni Tam Tam, con un saggio di Adriano Spatola; Lilla, viola, talvolta però fucsia (1987), per l’Almanacco Tam Tam; San Peregrino (1989); Nietzsche e le cure dell’io. L’innocenza del tempo e la logica del risentimento (1998); Derrida e il dono del lutto (2009), Anterem Edizioni.
Fa parte della redazione della rivista filosofica éupolis.
Da alcuni anni seguo e segno quotidianamente alcuni quartieri della rete, ne marco gli angoli, come un cane di strada. Ho anche una mia cuccia, bianca, dove deposito gli ossi. Talvolta sono di seppia, talaltra di gallina, ma l'intenzione è sempre la stessa: offrire un catalogo di bontà ad un pubblico presente e futuro.
Girando per la cittàvirtuale, incontro di tutto, essendo questa un luogo liberamente accessibile, costruito da chiunque per ognicosa. Anche la poesia, lasciata libera di brucare bellezza e verità dalla blogsfera, rischia di crescere stereotipata. Non dobbiamo gridare allo scandalo, come leggo qui e là, navigando; trovo invece in tutto ciò un ennesimo emblema della povertà dei tempi in cui viviamo. Se la poesia che si sente in giro è quella recitata sulla sedia dal bambino ben educato la domenica di Pasqua, quella banalmente intelligente di "Zelig", quella imparata al liceo da un professore pigro, se tutto ciò che vogliamo dalla poesia è che sia un contenitore del nostro magnifico ego, allora è normale che anche la rete pulluli di pesciolini di plastica. Obiettare che in quest'ultima manca una docimologia condivisa sulla qualità dei testi, non ci porta da nessuna parte. Tale evidenza, infatti, è un dato epocale, conseguente alla crisi delle ideologie e al moltiplicarsi dei centri di potere sul territorio; questa condizione semmai, appunto per le due ragioni storiche appena espresse, andrebbe riconosciuta nella sua novità, in quanto finalmente capace di accogliere nella discussione – prima accademica, elitaria o di corporazione – interlocutori altrimenti esclusi o emarginati. Non ultimi i bloggers, il cui background plurale allarga senz'altro, anche se inevitabilmente in chiave pop, la materia del contendere. Fra l'altro, la mancanza di un vertice, di un'oligarchia di comando, sostanzia la natura stessa del web: esso infatti altro non è che un labirintico pullulare di arcipelaghi, spesso indifferenti l'uno l'altro o, alla peggio, in reciproca tensione. La rete è infatti una selva, piuttosto che una società organizzata democraticamente, uno spazio babelico agguerrito, dove la libertà estrema diventa spesso arroganza.
Talvolta capita, tuttavia, che l'arcipelago sia fondato su altro: rispetto reciproco, curiosità di conoscere, amore per la professione, dedizione. Posti così ce ne sono a bizzeffe in rete, in tutti i settori. Chi, malgrado questo, si ostina a buttare il bambino con l'acqua sporca, è un sabotatore o un malizioso. E comunque il bambino, dentro e fuori, continua il suo serio lavoro lo stesso, giocando con il suo lego. Nel mio caso, costruisco via Blanc de ta nuque, dando spazio alle poetiche più diverse, sostenendo non soltanto il merito e i piccoli editori, ma anche i lettori che vogliono capire che cosa accade nella poesia, specialmente italiana. Lo faccio tessendo relazioni, non erigendo steccati; portando il mondo reale nel web, non edificando un mondo virtuale, chiuso al confronto con chicchessia.
Al di là di quanto si legge in giro, dove giornali e accademia si rubano il pane di bocca per sputacchiarlo con maggior livore sulla testa del web, e dunque scavando e mirando di làda questa assiepata masnada, in rete si trova un onesto e talvolta lodevole lavoro. Penso in particolare ai siti poetici cui Poecast ogni giorno attesta l'operato, ai poeti e ai lettori che frequentano Blanc, alle riviste in rete, ai siti dedicati ad un poeta d'antologia. Certo, dopo anni di onorato servizio, credo sia ormai finita la fase di mappatura generalizzata, di ostentata esibizione di creatività; tuttavia, l'autorevolezza per cominciare una selezione ulteriore, che metta in luce alcune linee forti della poesia contemporanea, la si guadagna sul campo, scrivendo critiche autorevoli, anzitutto, e postando poeti su cui ci si gioca la reputazione. Tale scrematura non può essere infatti decisa a priori, né da un cenacolo di mandarini né dall'agenzia bloggers riuniti. Occorre, invece, contemporaneamente al lavoro in rete, tenere vivo il dialogo fra ogni parte del sistema (studiosi, autori e riviste interessante alla discussione), organizzando incontri pubblici in cui si parli non tanto di come vincere la battaglia del virtuale o su chi debba decidere le regole per tutti, bensì di poetica, di politica culturale, del rapporto fra tradizione e avanguardia, fra poesia e scuola, della tecnologia applicata alla divulgazione della poesia. Si producano insomma idee e si materializzino progetti, anziché i soliti lamenti, che dalla rete, occorre dirlo, faticano a dissolversi.
Stefano Gugliemin (1961) vive a Schio (VI), dove lavora come insegnante di lettere. Laureato in filosofia, ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del Gruppo Fara, Bergamo 1985, premio “poesia giovane”), Logoshima (Firenze Libri 1988), Come a beato confine (Book editore, Castelmaggiore 2003, premio Lorenzo Montano per l’edito), La distanza immedicata (Le Voci della Luna 2006) e i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona 2001), e Senza riparo. Poesia e finitezza (La vita felice 2009). Un suo racconto breve è pubblicato su AA.VV., La lente chiara, la lente scura (Empiria, Roma 2002, premio A.M.Ortese). Fitta e interessante è la sua partecipazione a riviste, tra le quali si ricordano: “Atelier”, “YIP. Yale Italian Poetry”, “Il Segnale”, “L’Ulisse”. Cura il blog di poesia “Blanc de ta nuque” http://golfedombre.blogspot.
Nota dell’autore
Sono poesie ispirate dal tragico terremoto del 23 novembre 1980 in Irpinia, un pezzo della mia vita e di quella delle persone di questi luoghi dove ho vissuto l’infanzia e la crescita, con uno sguardo anche al dopo, avendo come riferimento il luogo.
Per ricordare diventano ossessivi i numeri, ecco allora 23 poesie come la data del sisma, tutte composte da “stanze” di 7 versi, (poesie eptastiche) come l’ora del terremoto 7,34, completata da un prologo di 34 versi. Inoltre l’introduzione di 11 versi (come il numero corrispondente al mese di novembre). Le misure metriche sono differenti con prevalenza di versi liberi.
Non si può definire un poemetto, mancando dei personaggi ben visibili su cui costruire una storia, ma l’intento è mantenere l’io lirico e parlare della gente, la vera protagonista delle vicende.
I testi, come di consueto nella mia ricerca poetica, sono affiancati dall’indicazione di un brano guida, un invito “stilistico” ad ascoltare una musica che emotivamente si lega ai versi. Per questa sezione ho scelto: “Blood” di Annette Peacock, nella versione tratta dall’album M. Crispell, G. Peacock, P. Motian, Nothing ever was, anyway (ECM, 1626/27).
Intro
ti guardo con occhi
diversi parola risorta
ogni notte udendo
la voce degli uomini
senza piùvoce, lontani
sfuggiti dai luoghi.
torni di notte, distante
un respiro e lìgermini
frasi distorte che
modifico in vita.
poi credo e non vedo.
1.
trema la terra, le vene hanno sangue che geme e ti riempie.
è un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa, confonde
la terra che affonda ti rende sua onda, presente a ogni lato
soffoca il fiato, ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole
e combatti, chiede il contatto, ti attacca, ti abbatte. èfuoco
la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema
riempie memoria. ti stana, si affrange, ti strema, èpadrona.
16.
le pietre saranno risalite per ripetere
monumenti e campanili. si baratta
il dolore per le cose perdute, si riparte
per chi non ha avvistato il miraggio
americano, i parenti lontani. i progetti
sono nelle fabbriche che salderanno
la terra. ma le crepe non sono nella terra.
20.
gli addii sono lunghi da superare, tra le foto
nelle ricorrenze si prova sempre a cercare
un viso, il disegno delle case abbandonate.
tra i viali intrecciati che non hanno segni
vive il calpestio sulla terra sgretolata quando
tutto si strinse sulle case e nuove case
si mescolarono in grigioscuri di cemento.
23.
la morte ha soggiornato per anni
ora le nostre case hanno bisogno
di respiri, abbandonate come sono
al silenzio. abbiamo traslocato
i nostri corpi e lasciato solo
le crepe nude delle rughe
a vegliare sulla piazza.
ITALIAN POETRY REWIEV, USA, anno 3, 2008, pp. 97-104
Domenico Cipriano è nato nel 1970 a Guardia Lombardi (Av) e vive in Irpinia. Già vincitore del premio Lerici-Pea 1999 per l’inedito, nel 2000 ha pubblicato la prima raccolta organica dal titolo “Il continente perso” (premio Camaiore “Proposta” 2000). Interessato al connubio Jazz e Poesia ha dato vita al progetto “JP band” da cui il CD “Le note richiamano versi” (2004), con i musicisti Enzo Orefice, Piero Leveratto ed Ettore Fioravanti, e l’attore Enzo Marangelo.
Ama da sempre legare la poesia all’arte, collaborando con artisti di vario genere nella realizzazione di libricini da collezione. Suoi versi e contributi critici sono apparsi su antologie e varie riviste, si ricordano: «Poesia», «La Mosca di Milano», «Specchio della Stampa», «Gradiva», «Italian Poetry Review», «Capoverso», ecc. È redattore della rivista «Sinestesie». (www.domenicocipriano.it)
Il testo come feticcio
Barthes propone un accostamento: il testo è corpo che si dispiega attraverso l’evento che ne determina l’incontro. Accanto al corpo dell’amante è possibile percepire l’emozione che distrae dalla coscienza, rendendo il corpo dell’altro nella sua dimensione erotica: esso è il dischiudente, ciò che lascia apparire negando da subito l’immediatezza della conoscenza. È una incessante sottrazione, che richiede una mediazione (Se e l’Altro, non Se o l’altro). Dalla semplice congiunzione (che riscatta l’oppositività dello scrittore volta al continuo allontanamento) si svolge un’intermediarietà che solo apparentemente ristabilisce l’ordine delle parti (scrittoreÞ testoÞ lettore). Il testo scompensa qualsiasi ordine del discorso, prospettando sempre un’alterità che genera nuovi piani di immanenza (mobili), sui quali si innestano diversi discorsi, diverse narrazioni. È questa polisemicità a rendere il testo nell’attraverso della scrittura. È la scrittura a separare le forme e unire i tratti che si combinano tra di loro per rivelare la profonda asimmetricità dei piani. (Qui risiede il problema dell’inizio e della fine del testo).
Come il corpo, il testo si sottrae alla concessione gratuita: o dà di sé l’essenziale, oppure si mercifica rendendosi oggetto che reifica un tributo. Diviene cioè simulacro di una ripetizione.
L’avvicinamento sottende sempre un’attesa, un’aspettativa che non si risolve mai nell’impeto della cupiditas, del voler ad ogni costo appropriarsi dell’oggetto. L’avvicinamento è fatto di attese, di piccole rinunce, di tentativi che costituiscono il movimento stesso del testo: in esso, infatti, si trova l’amante capace di custodire un segreto liminare, ciò che annuncia un inaspettato incontro.
Cosa custodisce il testo? La storia, narrazione che si dipana dinanzi ai nostri occhi donandoci il piacere segreto dell’irrinunciabilità di quel particolare momento; le figure, i personaggi che si costruiscono l’uno accanto all’altro quasi a voler suggellare il richiamo ad un mondo altro; il nostro sguardo ansioso o genuinamente rilassato dal piacere, la nostra voce pronta a scandire parola per parola, lettera per lettera il procedere di una simulazione. Il testo custodisce questo e altro ancora.
È profondità. Custodisce poiché nasconde. È una sua funzione precipua. Il testo nasconde ampliando le possibilità di lettura (semplice atto che mette in relazione con esso), trasportando con sé (e fuori di sé) il senso delle allegorie, dei fantasmi metonimici che incarnano un passaggio. Il nascondimento presuppone la fatica della scoperta, l’impegno a cimentarsi e legarsi in modo continuativo alle movenze della parola, ai suoi traumi, alle cesure che (pronunciata con veemenza o silenziosamente) crea. Tuttavia, il nascondere, il custodire generano l’eccedenza che circonda la storia testuale: il testo non si sottrae al destino degli oggetti che popolano la contemporaneità. Esso diviene merce. Per questo si utilizza il testo per procurare un piacere, il sottile fondo della parodia.
È contraddittorio, si può comprendere. Proprio in questa contraddizione (che è il paradosso delle merci nel momento in cui si trasformano in feticci, perdendo il proprio valore d’uso/scambio) risiede il suo valore d’eccedenza. Lo scambio “s’impadronisce del testo, lo immette nel circuito delle spese inutili ma legali: eccolo di nuovo collocato in un’economia collettiva (anche se puramente psicologica): è proprio l’inutilità del testo che è utile, a titolo di potlach” (R. Barthes, Il piacere del testo, pp. 91-92). È questo scambio estenuante, ripetitivo a rendere il testo feticcio.
Nessuno meglio di Freud ha descritto il carattere di feticcio di alcuni oggetti cui rivolgiamo il nostro desiderio: essi sono permeati di un’aura particolare che ne trascende il senso, perdendo qualsiasi legame con la realtà. Il feticcio si sostituisce all’oggetto, essendo un’elaborazione del pensiero, svuotandolo di significato per renderlo una sorta di oggetto-oggettivato. Solo in questo modo l’oggetto-feticcio può soddisfare indiscriminatamente la ricerca di piacere. “Il testo – scrive Barthes – è un oggetto feticcio e questo feticcio mi desidera. Il testo mi sceglie, attraverso tutta una serie di disposizioni invisibili, di cavilli selettivi (…); e, perduto in mezzo al testo (non dietro, quasi un dio da macchinario), c’è sempre l’altro, l’autore” (ivi, p. 94). Eppure il testo-feticcio nasconde (tra le tante) anche l’angoscia della profondità. Mescolata ad essa, quasi fosse tutt’uno, sta la perdita dell’oggetto, lacerazione che costringe a trasformarlo nel senza-più-vita, completamente a disposizione del nostro godimento.
Parole di poeti
Vi sono testi poetici (penso a quelli di Giorgio Caproni) che si intersecano al segno su piani diversi, custodendosi in una metamorfosi di simboli che avvertono della lacerazione imminente. È come attraversare un ponte e, affacciandosi ai lati, vedere svolgersi le immagini dell’esistenza. Non un’esistenza qualsiasi, ma quella esistenza poetica che assegna per sé un ruolo nomade. Ciò può dirimere rispetto alla lacerazione, cercando una molteplicità di vie che riportino alla mancanza iniziale intorno a cui l’essere si arrovella sin dalla nascita.
Platone aveva già visto questa lacerazione, che si pone come alteritàtra semen e soma, riportando nel Cratylo il detto di “altri” (qui: l’alterità?): “E dicono alcuni che esso [cioè il corpo] sia il sema [segno, tomba] dell’anima, quasi che essa vi sia sepolta nella vita presente; ed anche per questa ragione, che con esso l’anima significa ciò che significhi e perciò è giustamente chiamato sema” (Platone, Cratylo, 400 b-c).
Caproni riprende questa lacerazione. Proponendo la simulazione di un non-luogo. “M’ero sperso. Annaspavo./ Cercavo uno sfogo./ Chiesi a uno. ‘Non sono,’/ mi rispose, ‘del luogo’” (G. Caproni, L’opera in versi, p. 322).
Il disperso è colui che tra le maglie della scrittura fruga di continuo il senso dell’esistenza, lasciandosi alle spalle l’esistente, non con il guizzo dell’aristocratico che rifugge dalla quotidianità, ma come chi conosce gli orrori e le paure della dispersione che fa vacillare l’anima, che ritiene e poi con un fragoroso smottamento sconvolge gli equilibri d’un sempre precario assestamento. Allora, solo allora, il poeta può domandarsi, come in una postilla: “(Non ho saputo resistere/ al suo non esistere?)” (ivi, p. 332), ponendo tutto tra parentesi, in un’epoché che lasci sospesa ogni continuazione. Egli sta lì ad osservare e, così facendo, ritaglia ancora una spazio di mondo nella propria vita, in attesa dello scompiglio che rimescolerà tutto in un dissidio. “Imbrogliare le carte,/ far perdere la partita./ È il compito del poeta?/ Lo scopo della sua vita?” (ivi, p. 363). È questo “gioco” a farci apparire spesso un testo poetico (così come quello filosofico) insensato, incomprensibile? Allora esso è sicuramente accostabile all’“insensato gioco di scrivere” di cui parla Blanchot.
Vorrei dire ancora della poesia, soffermandomi sull’esperienza del suo testo, così poco conforme ad essere considerata una scrittura della condivisione. Essa viene piuttosto percepita come un limite, l’incapacità a rendersi conto dello spostamento (il sisma di cui si è parlato poc’anzi) che ci obbliga ad essere nomadi. Piuttosto essa è “una parola di soglia” (das Schwellenwort), come afferma Celan.
I testi dei filosofi
Ho accennato all’inizio e alla fine del testo, dovrei dire, forse, della scrittura. In questo modo si diviene consci che, in realtà, ci si adagia sul libro, involuzione dell’elementare processo della vita.
“… i testi che leggo e rileggo – afferma Derrida – sono sempre nuovi per me. (…) È anche una certa amnesia a darmi questo gusto, che si può considerare una forza o una debolezza. Non dirò che so dimenticare, ma so che dimentico, e che non è solo né sempre un male, anche se ne soffro” (J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, p. 43). Nella costruzione delle nostre ipotesi, dei nostri testi, spesso bisogna dimenticare chi ci ha preceduti, per tornare poi a ricordare (ma è solo un vezzo della memoria?) quei filosofi la cui parola ha rappresentato il turbinio di una vita, la solerte (e a volte disprezzata) pazienza necessaria a costruire concetti. Proprio di questo si tratta. L’ermeneutica (divenuta ormai una tecnica di mestiere) ha insegnato a ben chiosare (decostruire e, vorrei dire, a lasciar decantare) scritture che non si degnano più d’una lettura serrata, perché si preferisce ascoltare chi ha già scritto su di esse. Ogni scrittura (a maggior ragione quella filosofica) è un arbitrio, il risultato di un tentativo di dis-alienazione che appare e scompare dando l’illusione d’aver trovato un nesso causale (o casuale?) nella decifrazione dello spettro del mondo.
È per questo che si denigra la filosofia, perché si crede d’aver scoperto il meccanismo della sua inutilità. Così ancora una volta ci si ferma all’apparenza, poiché anche se si crede nell’infallibilità della tecnica non si fa altro che riproporre un testo che si adagia sull’illusoria capacità d’essere molteplice, “vestito buono per ogni stagione”.
Cedendo lo spazio filosofico si ostruisce una passione che è passione per la lingua, per ciò che necessita un atto di rinuncia ad una parte di sé. Attraverso tale rinuncia il filosofo proclama la frammentarietà del reale, l’impossibilità a percepire in modo unitario il mondo e le sue relazioni, unico tramite di contiguità.
È una maledizione possedere la necessità di chiosare i testi filosofici, di posarsi accanto ad essi e riempire interi quaderni con citazioni, brani, interi paragrafi che giustifichino il proprio pensiero. Quasi come tracciare un albero genealogico, una mappa genetica che ci riconosca figli di quel tale o talaltro pensatore. È nota l’ossessività con cui Benjamin riempiva foglietti e piccole schede con la sua minuta scrittura costruendo quel libro impossibile che è il Passagenwerke. È altrettanto nota la sua idea di voler creare un libro di sole citazioni, il libro di tutti i libri, un enorme mosaico senza alcun autore e al tempo stesso con una collettività d’autori mimetizzati nella palude della non-appartenenza.
Da Nietzsche in poi il testo filosofico ha proclamato la propria rottura con la precedente tradizione, permeandosi della necessitàdi porre innanzi a sé non la programmatica discussione di ciòche èil fondamento (della metafisica, dell’estetica, della scienza ecc.), bensì liberandosi da qualsiasi riferimento ad esso, pur cadendo nell’ambigua trappola (fascinosa e seduttiva) di un pensiero che naufraga silenziosamente nelle proprie incertezze. Così l’aforisma (genere di per sé letterario e, in passato, privo di qualsiasi qualità speculativa) diviene il riferimento costante della speculazione nietzscheiana, il percorso che conduce a un non-dove che è, appunto, perdita. La penna del filosofo “raspa”, ma si trova ad arare un campo inaridito da secoli di incoltura.
“La penna raspa: è un inferno!/ Son io dannato a dover raspare?–/ Arditamente afferro il calamaio/ E giù densi fiumi d’inchiostro./ Come affluiscon pieni, come larghi!/ Come ogni cosa che faccio, mi riesce!/ Manca invero allo scritto la chiarezza–/ Non fa nulla! Quel che scrivo, chi lo legge?” (F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, p. 47)
Ciòche permea il testo filosofico è, dunque, l’estrema passione che congiunge il pensiero alla scrittura, la ricerca della e attraverso la conoscenza non (e mai) disgiunta da quella peregrinazione interiore che si pone in costante confronto con l’alterità. È quanto ottiene Nietzsche, ammonendo i “realisti”. “Voi uomini sobri che vi sentite corazzati contro la passione e i capricci della fantasia, voi vorreste gloriarvi del vostro vuoto e pavoneggiarvi con esso, vi chiamate realisti e date a intendere che il mondo sia realmente costituito nel modo che appare a voi: davanti a voi soli la realtà starebbe senza veli e voi stessi ne sareste forse la parte migliore” (F. Nietzsche, ibidem, p. 102). Questo brano, che s’anima dinanzi ai nostri occhi, pretende quasi un ossequio, un’attesa ironica che desti finalmente chi ancora osi pensare che tutto ciò che appare è realtà, che il mondo s’apre all’uomo nella sua verginità.
La questione, dice Nietzsche, si gioca tutta sull’ebbrezza che s’avverte nel rapporto con il mondo: chi non riesca a vivere tale ebbrezza (il caos della stella danzante!) è come tagliato fuori dal flusso dirompente della vita, condannato invece ad arrovellarsi nelle proprie elucubrazioni. “…forse – scrive Nietzsche – la nostra buona volontà di tirarci fuori dall’ebbrezza è altrettanto rispettabile quanto la vostra convinzione d’essere del tutto incapaci d’ebbrezza” (ivi, p. 103).
In questa ebbrezza (lungi, sembra, dallo slancio dionisiaco dello Zarathustra eppur così paradossalmente vicino) è tutta la capacità del filosofo a creare concetti, a farsi promotore attraverso il proprio testo dello scandalo generato, ad esempio, dalla parola verità: chiunque abbia coscienza d’essa ne rifugge come dinanzi a un fantasma. Eppure, avvalorando i continui emendamenti ai testi filosofici che vengono da chi ama che la parola sia inevitabilmente interpretata, sostiamo increduli, quasi trasognati dinanzi al leggero battito di “stupidità” che ci riporta alle cose ovvie, alla capacità di nutrire il dubbio degli incapaci o, per dirla con Voltaire, del “filosofo ignorante” che socraticamente ammette la propria limitatezza. Un monito, allora, ancora da Nietzsche, che ci costringe a leggere il testo filosofico con l’ingenuo dissapore di chi vive nel proprio tempo: “Occorrono dunque intelletti virtuosi – ah! Voglio usare la parola più inequivocabile – occorre la virtuosa stupidità, occorrono coloro che battono imperturbabili il ritmo dello spirito lento, affinché i credenti della grande fede collettiva restino insieme e proseguano la loro danza: è una necessità di prim’ordine che a questo punto impera e pretende” (ivi, p. 113).
Su questa urgenza il testo, che raspa la propria infernale perversione, svanisce come per ritrovare un originario perdono.
Sottrazioni
“Segreto è il calore
delle cose obliate”
Canetti
Spezza
con tacito silenzio
la vergogna che ti chiude
al reclinare sordido
dell’armonioso evento:
conosce il tuo approssimarsi
il dio della lingua sottratta?
Ti hanno scritto, allora,
della calda fuliggine
che muove gli angoli
remoti della distrazione:
se nel manto del ciliegio canuto
troverai il pianto che dissoda,
quello sarà la mia voce,
l’ebbro canto dell’appartenenza.
Distrazione
a Franco Fortini
I poeti si fanno
dai poeti, nel diàspero
di un notturno tacitamente
reclamato.
Le brune del vermiglio
non colgono più
le croci della parola
dissipata: lasciano
intatta (con inattesa vergogna)
la chiusa del riverbero.
Nessun compromesso
scioglie le mani del poeta:
egli non ha
merce di scambio, solo
parole irsute e metafore ostinate,
che stringono il cerchio
dell’apparenza.
Preludio della forma
Le foglie del manto autunnale
non mitigano la brina
né la parola dei ritorni:
nella bocca
la fronda dell’astio
rintana come
smorzata serpe: chiudono
il loro tempo
le fatiche consacrate
al silenzio.
Strettoie
Alla volpe
L’orgia da cui l’incavo
produce l’assidua metafora
delle affezioni
è il corale strepitio
che calpesta le dolorose
attese:
non detta alcun decalogo
il reciproco delle appartenenze –
bensì sposta
con animo inquieto
la curva dell’occhio
(acuta come l’ombra
del passaggio meridiano).
Il segreto sta
nella rivolta – come dicevi:
ad essa appartengono
le banalità della storia
e le verità distratte
dell’inconsueto.
Haiku desolato 2
Terribile e vuoto
è il nome,
pienezza d’assoluto:
ma nei ritagli inquieti
del mondo,
il destino è paura.
Gianluca Giachery è dottorando di ricerca in Scienze dell’Educazione presso la Scuola di Dottorato in Scienze Umane dell’Università di Torino e collabora agli insegnamenti di area pedagogica della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere della medesima Università. Sue pubblicazioni sono comparse su «Encyclopaideia», «Paideutika. Quaderni di formazione e cultura», «Pedagogika.it», «Hortus musicus», «Adultità» e «Anterem». Collabora a «L'Indice dei libri del mese». Tra le sue pubblicazioni: Il volto dell'Angelo. Walter Benjamin e l'esperienza novecentesca del tragico (Torino, 2004); Esperienze vissute ed esistenze incarnate. Per una critica sociale dell'educazione (Torino, 2006). Redattore di «Paideutika», è recentemente uscito il suo volume Etica della padronanza. Le pratiche educative come pratiche di riflessività (Roma, Anicia, 2009). È autore, inoltre, di una raccolta di cartigli poetici dal titolo Transiti.
Nota dell'autrice
La parola dice il cielo e la terra, dal momento che la parola li riempie. Ma la parola non contiene nétutto il cielo néla terra intera; cielo e terra sovrabbondano. Dove dunque si riversano cielo e terra quando di essi è colma la parola?
Fino a qui mi sono mossa parafrasando. Ora mi chiedo: puòl’essere che eccede la parola riversarsi in una parola nuova, i cui confini impercettibili di senso siano estesi nella misura in cui si estenderà, al contempo, l’essere sovrabbondante? È ciò che eccede la parola il caos, da cui la parola rifugge. La parola sentinella al cospetto del caos, quell’indicibile che noi percepiamo oltre, in un terreno non umano ma sia pure naturale e intimamente famigliare.
Tendo la mano verso ciò che alla parola sovrabbonda; ecco che la parola muta e io sono altro. Si manifestano le metamorfosi dell’essere, pure del mio essere. Potrei anche finire col credere che la parola sia me, ed io la parola. Nulla di panteistico, bensì movimento dell’uomo, forse solo del corpo, a tastoni dentro la sovrabbondanza dell’essere, di natura.
In luogo di premessa
Nessuna parola direbbe il caos. Lo fuggirebbe. Il caos la contraddice. Il caos ride.
E contraddicendo la contempla come sua tenera parte: lo spazio dove dimora l’uomo.
L’indicibile è nei nostri occhi infiniti e muti.
***
Solo il bianco agli occhi rimane
come la neve, dove affonda –
il passo che l’occhio attende lieve.
Non sappiamo piùdire: l’occhio
che vede guardato – dal confine,
rinnega, richiama, abiura, – ama
mentre scende nel marmo a spirale
nel frammento vuoto di luce.
***
È lastricata e sdrucciola la mia
non retta via di fragili orizzonti
sui fianchi di rovine umide e muri
– e scarti ricoperti di muschi
verdescuri, lungo questo risucchio
dell’aria – mantra d’assenza e d’oblio.
Io vengo all’accorrere del cielo
all’azzurro in grembo alle colline.
***
Gesti ed esili che cedono alle mani
come lungo vettori di gole
negli aneliti fra le dita oltre l’andare
scivolare su questa ghiaia di cose
oltre lo schianto.
***
1.
Il nero dove scavo in evento
limite, all’estremo perimetro
ritagliato intorno alle cose,
dove l’ombra dal sud si muove.
L’ho veduta nel sogno ululare
ma forse era uomo sul ciglio,
le labbra colme di cose chiamate.
2.
Le cose che vedo – sono
le cose cedere al nero.
Cadere all’azzurro degli occhi
alle nebbie del grembo, in volo
ritorno a respiro a ritroso.
Elena Corsino (1969) traduttrice e docente di Italiano come lingua straniera presso l’Università degli Studi di Udine. Ha tradotto L. Carroll, M. Cvetaeva, O. Mandel’štam, F. Dostoevskij.
È autrice della raccolta di poesie Le pietre nude (2005), oltre che di saggi brevi e liriche per musica.
Nota dell'autore
Il poeta incide sopra se stesso una ferita che annuncia l’alto riverbero di una rottura decisiva: cioè l’esplodere di una visione dilatata, nobilmente oggettiva,che d’improvviso lo fa precipitare in un agone sconosciuto, dalle sembianze gelide e divine.
L’amoroso azzeramento che consegue a tale verticale epifanìa sa poi donare, a chi è tutto scivolato nell’attesa, un nuovo, inaspettato silenzio che produce l’aprirsi di una lingua tutta priva di modi e di desiderio e di intenzioni (ché la poesia deve, finalmente, solo interdire la comunicazione, strappandola ai suoi limiti finalistici). La poesia indica, appunto, quell’acuta coincidenza entro la quale agisce un insperato e involontario distacco dall’esserci: ed è allora che si è precipitati in uno sperdimento che, simile a un teatro impossibile,miracoloso e osceno, continuamente ci perde e ci rinnova. «Io fisso un punto dinanzi a me e mi immagino questo punto come il luogo geometrico di ogni esistenza e di ogni unità, di ogni separazionee di ogni angoscia. […] Aderisco a questo punto e un profondo amore di ciò che è in questo punto mi brucia fino a rifiutare di essere in vita per qualsiasi altra ragione che non sia ciò che è lì, per questo punto che, essendo insieme vita e morte dell’essere amato, ha lo splendore di una cateratta. E nello stesso tempo, è necessario denudare ciò che è lì da tutte le sue rappresentazioni esteriori, fino a quando non sia altro che una pura violenza, una interiorità, una pura caduta interiore in un abisso illimitato» (G. Bataille, La congiura sacra, tr. it. Torino 1997, p.123). La poesia richiama e stabilisce, in un istante, le coordinate della consumazione e della distruzione e, contemporaneamente, l’accecante manifestarsi di una festa grandiosa: non è lontana, dunque, dalla soglia perigliosa di una piccola morte. Essa è un’interiore plenitudine che ci trascina in una bellezza irrappresentabile, senza volto e senza direzione; e che amplifica e distrugge l’identità del singolo poeta e del lettore; e che a entrambi toglie tutto il respiro.
da Preghiera del Minotauro
5
Ti lascerò quel sangue e quel destino. Ti lascerò il coltello dell’attesa. Gli averi ansiosi della partenza. Oppure l’annegamento vano di quelle dita che cercheranno di sfiorare quelle maligne stelle. Adesso, ascolta: la scatola perfetta degli errori cade nel piatto e poi rimescola i registri, la dolce seduzione delle cene.
6
Domandi se sei viva. La pelle è dunque il nome, è dunque il nuovo riflesso che richiama e che sconcerta. Il corpo vede e suona. Il corpo è la pietanza. Ma il respiro definisce tutto quello che risplende: amami ed esci. E le unioni sono scarlatte e bianche. Le unioni sono vere: sono scarlatte e sono indivisibili, per sempre.
da Sculture
***
Ero un esile e curvo respiro e riparavo
ansioso nella tua mano e poi mi rifugiavo,
calmo, sotto un albero di verbi, dopo l’ultima
festa delle luci; era un nuovo stratagemma
per l’attesa ch’io ricevevo come una danza:
sopra le labbra tu accoglievi, in un istante, il vero.
***
L’anima cade nella vetrata quando muoiono, d’incanto, le
parvenze. Una semplice arena che cresceva notti lunghe:
era il poema violento della vista,
ma ti accorgevi allora di non essere che un inesatto
gesto, un sonno tutto lieve che scuoteva le dimore.
da Risposta di Arianna
1
Il mondo si riposava con la sua grande presunzione. Io vendevo tutte le stelle al primo passante che mi pregava ansioso. Non potevo distinguere i pensieri dagli eleganti impulsi. La vista mescolata ai futili motivi: e allora la tua mano,così pericolosa e amara, si trasformò in un albero leggero, in un sorriso buono che taceva. Per le tue forze perdute era un incanto avvicinarsi ai segni sconosciuti e gareggiare coi celesti risultati. Dietro l’amore della mattina si rivelava: l’arte di non sapere.
2
Adesso l’ora è piena di demoni e di frutti. Usciamo, allora, da questa vista povera e impaziente: c’è un doloroso impasto che invoca il nostro nome. E la camera profuma di rendiconti, di asciugamani intatti, di veri giuramenti: ecco il segreto, dici: ecco la dolce sorte.
3
L’arca dei sentimenti non è capace: le penitenze, le rose, le domande. La festa non aveva nessun ospite: perciò la notte io discendevo a seminare rozze spine in mezzo agli aranceti. C’erano sempre, disposti bene in fila, i giocattoli amici e nemici. Per un ineluttabile favore del destino.
Mario Fresa è nato nel 1973. Le sue più recenti raccolte poetiche sono Costellazione urbana (tre poemetti, in« Almanacco dello Specchio» n. 4, Mondadori, 2008) e Luci provvisorie, apparsa integralmente su «Nuovi Argomenti» (Mondadori, n. 45, 2009). Ha curato insieme con Tiziano Salari un volume di indagine critica, La poesia e la carne (La Vita Felice, 2009).
Cristina Annino
Due racconti inediti, una poesia e un’immagine
Fatto sta
Fatto sta, la
speranza è una casa, ed è
larga più del luogo in cui dormo. La devo
sollevare sveglio ogni
alba, per infilarla in bocca; poi
con acqua la ingoio fissando sul guanciale
l’orma di lei che mi spacca
i polmoni per respirare. Se resisto son
degno.
da Casa d’aquila, Levante Editori, Bari 2008
Kid (Racconto inedito)
Fin da bambino ho sempre dovuto insegnare qualcosa a mia madre. Con la sensazione, ogni volta che la portavo ad essere differente da quel che era, di allontanarla dalla morte. Ingoiavo io qualche pezzettino di quella dandole in cambio una parte viva del mio corpo. Siamo pertanto giunti a un rapporto quasi eroico che però non ha niente a che vedere con l’amore spontaneo o con la riconoscenza. E’ qualcosa di più: il mio IO spropositato ha bisogno di una sua spropositata fragilità perché di questa campa, anche consumandosi.
-Sai quel’è il vero senso della letteratura?- le faccio domande di questo tipo; in tal modo mi addestro. Lei continua a mangiare ma pensa. Pensa anche di avere un figlio strano, le cui ampiezze mentali vanno e vengono all’improvviso. Come nell’imbecillità, che è lo stato originale prima dell’organizzazione. Insisto:
-Finché, per esempio, stimerai un grande architetto, ecc, qualunque fenomeno che ti sembri sul serio un fenomeno, non farai grande letteratura. Devi spellarlo vivo per guardargli bene le bucce e quando gli avrai trovato il punto debole sarai sulla buona strada. Ogni grande talento è un bravo scassinatore. Il più abile scassinatore delle proprietà altrui è il più grande artista.
-Vuoi dire che “questo” è il tuo metodo?-
Chiede o riflette, ma va bene: la mezza misura addestra. Devo solo stare attento che non arrivi alle conclusioni da sola. Quelle, deve impararle da me.
-No, intendo dire che questo è il metodo migliore…
Poi insisto, calcolatamente noioso:
-Il Metodo è ogni metodo degli altri. Qualsiasi attività altrui è la tua professione. La letteratura è ciò che sanno fare gli altri, ma tu devi farlo meglio di loro perché sorvegli anche tutto il resto e contemporaneamente.
-Mah, a me pare un modo d’essere invidiosi!
Spesso fraintende, però così posso andare avanti.
-Non potrei mica essere invidioso di un’ape, che c’entra. Eppure mi interessa anche il metodo delle api. L’invidia non è solo cattiva, cavolo!
Non c’è da meravigliarsi se non regge il mio ritmo. Smette d’ascoltare, nel suo solito stile, stile solo suo perché lei non ruba niente. Sposta il discorso su qualcosa di personale, mettiamo la collana che ha al collo. Dice, parlando di sé:
-Povero tesorino, tutti i gioielli me li son dovuti comprare io, coi miei risparmi. Mai un regalo, neppure quand’ero bambina. Il primo anellino me lo feci con una campanella da tende. Mi faccio tanta tenerezza...
Come no! Lei è l’unico fenomeno che faccia saltare i muri di casa, con la sua irrazionalità: E io che amo la logica, ammetto che i muri saltino, pur di renderle omaggio. Non perché sono suo figlio, non basta. E’ qualcosa che ha a che fare con la letteratura. Devo inseguirla perché possiede quel che non ho. Ha vitalità mentre io ho solo frenesia. Devo imparare. Lei parla persino coi tappeti, dal grande ottimismo che possiede; io dovrei vivere nel Tibet almeno un anno prima di riuscirci. Non so cosa la faccia agire e pensare in questo modo. Devo allora tenere alta la guardia, non perderla di vista e allo stesso tempo guardarmi le spalle, perché lei è il mio compare.
-Finirò con l’essere mediocre quanto te, se non la smetti coi tuoi anellini!
Le grido mentre termino la frutta; un po’ di vino mi va di traverso. Cerco di mantenermi calmo ma ancora non ho lo stile giusto. Quello di Hendry Jones, per intenderci. Dovrò impossessarmi di quel tono medio indifferente a cui non tremano mai le mani o la voce, anche quando pensa “la mia vita è andata”. E poi si gira, Hendry nel film, e questo potrebbe già finire su quelle sue dita ferme. Tipi così hanno il dono dell’ovvio. Come mia madre. L’Ovvio alla grande. Ogni mistero fonda qui la propria vitalità: nel piccolo sta il grande, mentre non è sempre vero il contrario. Quanto dico, Hendry detto il Kid, doveva saperlo fin da bambino. E solo per questo poté rispondere “e con ciò?”, alla fine della sua storia su questa terra. Tre parole così, dette a un certo punto, valgono un treno di neologismi. C’è bisogno di modi, soprattutto questi, fanno letteratura.
-Sta tranquillo, ho capito!- mia madre sorride. Poi respira profondamente perché ha il cuore debole. Potrei sentire il suo respiro da tre metri di distanza, come una sveglia dentro un cassetto “ce ne stiamo andando, Kid” allora penso.
Oggi comunque il ragno è stato affar suo. Nero, grosso, con una schiena ad attico. Quando l’ho colpito col piede, gli ho solo spolverato le spalle; è corso via ridotto a metà. Mia madre invece l’ha preso in pieno:
-Era una femmina- ha spiegato- sopra portava le uova.
-Che schifo!
-A te fa schifo tutto, anche la natura. E’ per questo che mi chiami col nome di battesimo.
-Mi viene naturale, che c’entra- le ho risposto quasi con meraviglia.
Che c’entrava, metter di mezzo sempre la biografia. Ma lei fa così, è il suo stile; siamo due compari. Ho pensato meglio non approfondire, queste cose non servono a niente, né a vivere né a scrivere.
Ma mi aveva colpito, Come un ebete nel mio studio continuavo a ripetere “mi viene naturale, ecco tutto, che c’entra”. Anche chiamare i miei libri preferiti col nome dell’autore, il titolo me lo scordo, ma non Dylan o Henry; il titolo non conta. Anche in loro cerco le persone perché cerco un segreto, come in mia madre. Anche quando guardo le nuvole tacchino. Non contano un accidenti le nuvole, ma sì il fatto di vederci dei tacchini. E’ il mio modo di guardare le cose, che conta. E questo ce l’avrò sempre, anche se le nuvole, in tutta la mia vita, non torneranno più ad essere come sono in questo momento. (1984)
Il tritacarne (Racconto inedito)
Io mi addormento con difficoltà. Devo prima fumare molte sigarette, poi camminare un bel po’ all’aperto, quindi tornato al chiuso, discutere con il sonno e fargli qualche buona promessa. Solo allora, se la posta è abbastanza alta, lui decide di stendersi accanto a me. E inizia così il nostro dialogo come iniziassero dei racconti. Gli unici racconti solo miei, cioè offerti dalla ditta; e garantisco che sono i migliori racconti che uno potrebbe mai scrivere.
Ogni notte io sono un grande autore, perché appunto tale tecnica mi costa sempre molta fatica e disciplina. Se sono arrivato a immagini essenziali e pulite; se i sogni barocchi di quando ricordo d’aver iniziato a sognare sono partiti da bravi verso notti altri, è perché con il tempo, i miei patti si facevano più risoluti. Allo stesso modo che sempre più stentavo ad addormentarmi. Ma così sono passato –come dire- dalla poesia alla prosa e poi sono giunto a quella autentica poesia ch’è solo un certo tipo di prosa.
Ora, la validità maggiore del mio sonno sta nel fatto che mi corregge la vita. Non la consola, la corregge. Tutti sappiamo che la vita è abbastanza retorica. Vi si consumano molti macelli soprattutto in nome della speranza. L’origine dei nostri mali, per me, è la speranza che è cieca, mentre definiamo cieca la fortuna che invece è, al massimo, originale o sciocca.
Non sostengo che la vita sia apparenza. La vita concede delle verità, come i miei sogni, solo che questi tolgono il refuso clamorosamente più umano e in buona fede. Cancellano insomma la speranza, cioè quel tipo di bellezza solo retorica che è il condizionale. Quello per cui tanti corrono felicemente al macello con l’illusione che il meccanismo potrebbe all’improvviso incepparsi. Prima della fine. Chiamano questa tecnica senso dell’esistenza; e beati se s’accontentano.
Io sono ormai giunto a tale grado di bravura per cui sono felice solo in base all’esattezza delle mie bozze.
-Beh, ora vado a dormire- dico uscendo di casa, prendendo un nuovo pacchetto di sigarette.
-Hai bisogno di qualche consiglio?- fa mia moglie.
-No, perché?
-Si dice che la notte lo porti. Si dice dormirci sopra, non è cosi?
-Si dicono tante cose.
Lei ha i piedi nel tritacarne; un giorno glielo dirò. Perché lei ama i proverbi, ci tiene ancora alla bellezza e annega nel condizionale.
-Si dice anche che sei stufo di me?
-Anche.
-Il tuo sogno allora ti consiglierà di “cancellarmi”.
-Anche.
-Insomma, non sai dire altro che anche?
-Sì, e prometti di chiamarmi Signor Anche. C’è qualcosa di sensuale. Io ti chiamerò Signora Potrei. Allora. La signora Potrei in Anche teme i sogni di suo marito perché non ama la buona letteratura.
-Qualcosa in te non funziona mica!- dice sconvolta.
-Lo so. Troppo assonnato.
-Guarda che un giorno invece sarò io a lasciarti.
-Può anche darsi.
-Ma si può fare almeno un discorso serio con te?
-Anche due. Domani però, ora vado a dormire.
-MA SE STAI USCENDO.
-Mia cara Potrei, io non ho bisogno di consigli, come dici tu. Non ho bisogno di lasciarti né di dormirci sopra. Né di essere amato o di amarti. Io non ho necessità a breve scadenza perché tutto, dico tutto, mi è efficacemente superfluo. E ora, se preferisci, dirò che vado in biblioteca.
Io sono il più bastardo, freddo tranquillo organismo vivente. Il signor Anche sa cos’è una pagina ben scritta. Di quelle che non si leggono da nessuna parte tanto sono ben scritte, perché non ce ne sono di così vere. Non ne esistono di così, tanto sono sincere. Non hanno niente a che fare con l’amore, non si noterebbero neppure, né farebbero bella figura perché hanno perduto la speranza. Ma sono le uniche che andrebbero scritte, uno di questi giorni, ad avere coraggio e coscienza e tranquilla fedeltà a se stessi. Solamente un signor Anche può farcela, con una simile sincerità. Essere il peso straordinario d’un uomo e compiere l’azione esterna di trasportare se stesso nel buco nero della verità col la massima leggerezza. M’è costato riuscire a crederci; m’è costato il prezzo di capire che la verità non è mai mortale quanto invece lo è la bellezza o la felicità. M’è costato come spengermi. Perché questo è il rigore dei miei sogni: mi tolgono il senso della morte e il senso della speranza, e ogni volta mi risveglio più freddo. Ma non credo ci sia altra tecnica. (1984)
Cristina Annino, nata ad Arezzo, vive e lavora a Roma. Nel 1968 pubblica il libro Non me lo dire, non posso crederci, edito da Techne a Firenze, città nella quale si laurea in Lettere moderne. Nel 1977, Ritratto di un amico paziente, Roma, Gabrieli. Nel 1979, Boiter, con Forum, Forlì, (romanzo). Nel 1980, Il cane dei miracoli, Foggia, Bastogi. Nel 1984, L’Udito Cronico, in “Nuovi poeti italiani n. 3, Torino, Einaudi. Nel 1987, Madrid, Corpo 10, Milano, libro vincitore del Premio “Russo Pozzale” nel 1988. Nel 2001, Gemello Carnivoro, Faenza, e nel 2002, a Prato, in collaborazione col pittore Ronaldo Fiesoli, Macrolotto. Nel 2008, Casa d’aquila, bari, Levante Editori. Ancora inedito il libro di racconti Una Magnifica Giovinezza. Numerose le plaquettes, recensioni e pubblicazioni in prosa, poesia, saggistica, in molte riviste e antologie sia italiane che straniere. Da alcuni anni si occupa anche di pittura.
La musica èun’operazione per sottrarsi alle leggi di questo mondo (...) alla sua salda disumana materialità.
Henri Michaux
Danza dei dervisci ruotanti
la superficie del divano
non è pelle marina
l’onda non scopre tesori
quando a caso si sposta.
Restiamo qui seduti. Beviamo vino ed èbuio.
Danzano solo i pianeti.
Stesso colore della spiaggia a quest’ora e del suono
che batte sulla sabbia poco lontana e vorremmo
non essere piùnoi non essere
da nessuna parte
non piùfantasmi con le loro catene di parole
per legarci ad un senso.
Perché la pelle che avevamo un giorno
è ora larva strappata
in nessun luogo e modo traducibile?
Le nostre maschere tragiche ruotano nell’aria del salotto:
se solo potessimo sragionare,
nessun confine è perduto e il mare non sta qui e noi
sulla riva del divano
– mai partiti.
Quando saremo infine bambini e come?
Perchéla pelle scorticata solo lei
sa dirci dell’ustione in fondo all’estasi?
Questa èla nostra casa che danza
accogliente trappola e tempio
intorno a noi gira e misura
muro e soffitto
fa apparire sparire
il futuro
ci chiude gli occhi
la bocca
i libri
i balconi.
Toccata settima
(Girolamo Frescobaldi)
una scala sale e poi si ferma.
Resta lì a creare
altre scale
senza condurci
da nessuna parte.
L’aria chiama slanci
verso un aperto sempre più aperto
un alto sempre più alto.
Una stanza d’aria ferma
ha il peso specifico
dell’arabesco vaporoso
che non snida nulla.
La mia carezza resta a metà –
si crea a cerchio la sua aria
foglia che non va
né su né giù.
Dove siete anime dei cieli promessi?
Qui non ci sono voci
néparole, nulla progredisce
o torna, si danza o si fa finta
su passi sottili
distanti dal pensiero.
E io ti chiedo: dove sei?
E tu rispondi: dove sei?
Non c’è nessuno, qui. Neppure noi.
Concerto per la mano sinistra
(Maurice Ravel)
se il disordine segna i mutamenti
riaffiorano
i versi sbigottiti
galleggiano
verso nuovi mormorii.
Ciò che manca è la forza
di confonderci e rifare una gioia di sorprese
dalle menomazioni.
Le assenze
hanno germogli al buio
da coltivare attentamente
perché le ombre
raccolgono l’energia dei millenni
i profili potenti di terre morte
le trame
di chi in loro ha creduto
nelle ore diurne.
Chi si ripara nell’ombra per godere la luce
sceglie la parte sinistra di sé, gli oscuri
lobi temporali che dirigono
occulte partiture.
Ora tu suoni
per me per noi
per questa casa saturnina che a ogni nota
si frantuma un po’ di più.
Moduli assenze come
vuoti virtuosi
pause musicali.
Impari e dimentichi
Impari e dimentichi
e non smetti mai di suonare.
Naima
(John Coltrane)
dolcemente strappa la pelle
del viso
scivola
giù
indolore
fino ai piedi
I nervi
viaggiano
tra cartilagini e giunture
elettrica rete
s’infiamma
pietra miliare
snodo
sinapsi
da fiato a fiato
da sponda a sponda
L’arte
di ingannare la morte
è tutta nella gola.
Exodus
(Fausto Ferraiuolo)
dove andare
dove andare fuori da questo luogo
senza bagaglio e scarpe
di notte
col nostro scheletro
e un pensiero martellante
dove andare
fuori da questa stanza che ci spia
dai suoi oblò
con musica narcotica
acqua materna di fiaba
narrata
da mille e mille anni
verso altra diga o scafo
o sfondato mare?
come un popolo
sempre in cerca della sua aria
sempre in cerca
finisce
contro un muro
Queste poesie sono nate dalle suggestioni di brani musicali ascoltati nel corso di lunghe serate estive.
Lucetta Frisa, poeta, scrittrice e traduttrice, è nata e risiede a Genova. Tra i suoi libri di poesia: La follia dei morti (Campanotto,1993), Notte alta (Book,1997), L’altra (Manni,2001), la silloge Disarmare la tristezza (Dialogolibri,2003), Siamo appena figure (GED, 2003), Se fossimo immortali (Joker, 2006) e Ritorno alla spiaggia (La Vita felice, 2009). Tra i libri tradotti, ama ricordare i due di Bernard Noël: Artaud e Paule, 2005, e L’ombra del doppio, 2007 (entrambi per le edzioni Joker). Presente in diverse antologie come Il pensiero dominante (a cura di F.Loi e D.Rondoni, Garzanti, 2001), ha scritto in prosa, con Marco Ercolani, l’epistolario fantastico Nodi del cuore, 2000, e Anime strane, 2006 (entrambi per Greco & Greco) e Sento le voci (La Vita felice,2009) e insieme curano la collana I libri dell’Arca per Joker dove è appena apparso il suo Sulle tracce dei cardellini. Collabora alle riviste cartacee: La Clessidra, La Mosca di Milano e L’Immaginazione oltre a diversi siti-web tra cui http://rebstein.wordpress.com. Sempre in prosa, scrive racconti per ragazzi in Popotus, inserto del quotidiano Avvenire.
Varie volte finalista al Premio E. Montale e L. Montano, ha vinto il Lerici Pea per l’inedito 2005.
1.
nella sospensione
derivo il mio stato d’essere
la mia costanza
all’incostante
nella sospensione
2.
e se tutto finisse qui – ora
cosa ne resterebbe – cosa
di noi – o d’altro
di desiderio relitto del giorno passato
ma già qui – domani – tra noi
3.
derivo il mio stato d’essere
la mia ombra di costanza
nella sospensione
gioco le carte che non so tenere
e derivo il mio stato d’essere
4.
cosa ne resterebbe – cosa
di noi – o d’altro
se tutto finisse qui – ora
nel giorno andato di un relitto
cosa ne resterebbe – cosa
5.
la mia costanza
nelle mie mani
nella sospensione della carne
nell’istante di domani
ma già qui – ieri – tra noi
6.
di ieri – o d’altro
cosa ne resteràancora
se tutto finisse qui – ora
di desiderio relitto del giorno a venire
ma già qui – ieri – tra noi
7.
nelle marce mani
nella sospensione delle mie dita
scompongo ciò ch’è stato
la mia costanza
la vacuità nelle mie mani
8.
cosa ne resterà ancora
se tutto finisse qui – ora
di domani – o d’altro
del desiderio già stato a venire
ma già qui – domani – tra noi
9.
nella sospensione
raccolgo gli avanzi di un uomo
putrefacendo il mio stato d’essere
pietrificando la costanza
nella mostra senza forza
10.
e se tutto se tutto finisse qui – ora
cosa s’arresta ancora – nella cenere
cosa ne resterebbe – cosa
di noi – o d’altro
o della cenere finora in avanzo
11.
relitto di un segno marcente
nell’arresto passato
la mia costanza
giàqui – domani – tra di noi
come se tutto finisse
12.
qui – ora
di noi – o d’altro l’istante
giàstato nel giorno a venire
nella cenere delle mie dita
conservo le carte che non so giocare
Alessandro Morino nasce nel 1980 a Roma, dove attualmente vive e lavora.
Nel 2008 consegue la laurea specialistica in Filosofia e Studi teorico-critici presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza con una tesi in ‘Ermeneutica artistica’ dal titolo “Antonin Artaud o l’esperienza artistica di una rivolta”.
Nel 2009 viene premiato con menzione d’onore per una poesia inedita al Premio di poesia “Lorenzo Montano” XXIII edizione, sezione “Poesia inedita”, presso Anterem. Rivista di ricerca letteraria.
Nel Giugno 2008 pubblica il suo primo testo poetico dal titolo “Propriocezione di un feto riflesso dal libo si se stesso” edito presso le Edizioni Polìmata, Roma.
Nel 2008 pubblica l’articolo “Artaud: il gesto della parola” nel numero 39, anno 13, 2008, della Rivista di letteratura contemporanea Avanguardia.
Nel 2007 viene premiato con menzione per una raccolta poetica inedita al Premio di poesia “Lorenzo Montano” XXI edizione, sezione “Raccolta Inedita”, presso Anterem. Rivista di ricerca letteraria con la raccolta “Visioni della carne nuda”.
Nel 2005 pubblica alcune poesie nella Collana “Orizzonti” della Aletti Editore. La poesia Ricordi edita ne “Poetici Orizzonti” vol. 5, maggio2005; la poesia Ho provato edita ne “Gli Internauti”, giugno2005; la poesia Cos’è edita ne “Poesie del Nuovo Millennio” vol. 3, giugno2005; la poesia Tacito edita ne “Antologia dei Poeti Italiani Contemporanei” vol. II, dicembre 2005. Le poesie In quegli occhi di terra di fuoco… e C’è una maschera appesa alla ruota… edite da edizioni Pagine nella raccolta “L’Eco del vento” 2006.
Nel giugno 2005 partecipa al Premio Letterario Internazionale “Città di Cava de’ Tirreni” XXII edizione sezione Poesia in lingua italiana presso L’Iride Associazione Culturale .
Ha tenuto reading di poesia e istallazioni verbo-sonore nel 2005 (Ci – Gît Viola, Roma) e nel 2008 (Costruzione n.1: Nigredo, Roma).
Nel Febbraio 2010 uscirà il testo poetico “Nuda Stabat Mater” pubblicato nella collana di poesia ex[t]ratione, edita presso le Edizioni Polìmata, Roma.
Dal 2005 si dedica più assiduamente anche alla pittura. Autodidatta, tiene la sua prima mostra collettiva “meta.stasi” presso la Sala comunale “Marie-Renè de La Blanchère”, nella Città di Terracina. Nel Settembre 2009 espone in una collettiva presso il Museo “Antiquarium Comunale”, nella Città di Sezze. Nell’Ottobre 2009 espone per la prima volta a Roma, nella collettiva “Esperienza Estetica” presso la Galleria Montoro.
Contatti: www.alessandromorino.net per vedere i lavori pittorici e poetici.
info@alessandromorino.net
Dalle giornate della III Biennale Anterem di poesia, filosofia e musica, riportiamo i contributi teorici di Giorgio Bonacini (Oscurità 1) e Flavio Ermini (su “Viaggio attraverso la gioventù” di Lorenzo Montano), seguiti dalla cronaca in versi dell’ultimo evento (“Controcanto di giornata”) composta da Carlo Penati.
“Controcanto di giornata”
Cronaca in versi del settimo appuntamento della Biennale Anterem di poesia
Sabato 5 dicembre 2009
di Carlo Penati
la parola abbonda
abbandonata nell’aria
Stefano Baratta, La parola nella psicoanalisi
i nomi di Jung ho chiamato a raccolta
conclamanti forme dell’anima
per pronunciare la parola indicibile
che la psiche crea a ricrea
adattando e riorganizzando il mondo
anima-madre eccede,
soffocanti abbracci
invadono il conscio
anima-donna rivela il simbolo
e nell’archetipo profondo
traccia impronte che svelano
il sentiero dell’ombra
dove le parole affiorano
gravide di ogni senso cercato
Trio musicale: Stefano Baratta, Stefano Benini, Andrea Tarozzi
scivolano suoni a risvegliare
gli animali quieti dell’anima
turgidi risvolti dei ritmi spezzati
nel jazz regolatore d’influssi
l’emozione ondeggia negli specchi
dei flauti che tessono e ritessono
sul moto estenuante del piano
lasciami scendere senza freni:
l’arrivo è solo un abbraccio
e riparte il cuore palpitante
dal silenzio
che cosa sale dal fondo dell’anima?
o il suono confonde i piani
e non mi avvedo di quanto scende
palpitando nell’inconscio?
scende e sale in appassionata danza
gioioso battere di tasti in sequenza
che parlano voci lontane
evocando dai fiati risposte di memoria
ingenui scambi di ruolo
all’apice il rigo s’arrotonda
e solleva e risolleva la passione
insisti sulle corde già tese,
continua il sentiero dell’accordo
scomposto e ricomposto ad libitum
come accarezza il flauto la soglia
di stanze profumate ed assenti
Rosa Pierno e la poesia di Rinaldo Caddeo
l’ombra avvolge a poco a poco
che strano gioco il suo impalpabile movimento!
più mi ricopre e più nasce conoscenza
più è oscuro il giorno
e più la parte chiara di me affiora
stende una patina di luce
proiezione di leggera sostanza
Rinaldo Caddeo
sostanza oscura è l’ombra
sorella muta che accompagna
nella sua pretesa insistente
ogni passaggio di vita
un corpo che non proietta ombra
è la figura nitida del passato glorioso
laddove implode ogni conclusione
e l’epilogo consegna
mani piedi e sangue
all’alfabeto della nostra vocazione
Rosa Pierno e la poesia di Mauro Germani
superstiti parole s’affrettano
nelle strade e negli odori
tra ricordi e sogno
dove morti e vivi si susseguono
nel prendere e strapparsi la parola
solo negli altri mi ritrovo
Mauro Germani, Livorno
Livorno èl’altra
quella che non appare
e invoca il mare e la sua terra
che s’immerge in un cielo scoperto
domande in bilico all’altare
di divinità prive d’ascendenza
lì la voce brucia ferita dagli anni
e si perde in un vento straniero
Francesco Bellomi al pianoforte uno
John Cage Dream 1948
sogni sonori le note di Stravinskij
FA-RE-FA-RE lattiginose, testicolari
nel cerchio dei suoni prescelti
che escludono per sempre i diversi
attorno a sette note sogna John
e solo a quelle assegna un compito impossibile:
colmare d’immagini la sera
che avvolge Verona e i suoi poeti
nel rito dei segreti ormai svelati
Flavio Ermini introduce Franco Rella
Hölderlin sull’esergo dice la vita:
solo genera parola
chi interroga il proprio cuore
e sprofonda lo sguardo
nell’anima del vasto mondo
le strade in cui ci avventuriamo
nell’abbandono di ogni apatia del pensiero
Franco Rella, La parola postuma
fuori dalla città i poeti,
menzogneri che traviano dal vero!
l’essenza delle forme persa
nella paralisi dell’anima
ecco la ragione s’impone
sull’antico dissidio tra poesia e filosofia
la poesia irresponsabile della verità
inganno di versi affascinanti
distoglie la mente dall’oggetto
diaforà di strade antagoniste
innamorato che si stacca
nel sacrificio della poesia bruciata
dalla tragedia dell’amore
vinto l’agone col Simposio
ma resta il vuoto della rappresentazione
che Benjamin richiama con Cartesio
nel gioco del rimando
tra ciò che vedo e la sua specie
m’inoltrerò con coraggio nella culla delle parole
a catturare lo stupore del sogno
e immergerlo nel logico rigore
dell’ermeneutica più pura
custode dell’inesprimibile
attizzi il fuoco degli spiriti
che frantuma nell’orrore ogni forma
prima che la parola sapiente ricomponga
nell’unità di senso
l’incomposto sgranarsi di sostanza
nell’onirico volgere dell’estasi
la singolaritàconfina ai margini della città
ma la tragedia accomuna
chi pensa e chi poeta
in un identico coro della vita
il poeta è vincolato all’ombra
nel gorgo di bene-male indistinti
nell’indecisione che gli spetta
è la metafisica il campo dell’incontro?
la contraddizione sfuma nella coesistenza del diverso?
l’apparenza è il volto noto dell’ombra
dove l’indicibile alligna
e viene a volte in superficie
nella stentata trama dei ritmi di parole
attrito surreale del senso sulla carne
della realtà sullo spazio estetico
pensiero-sentimento
la polis riaccolga con gioia
chiunque ci doni conoscenza
Francesco Bellomi al pianoforte due
composizione su cinque tasti scelti a caso usando il timbro-ritmo e non la melodia
insiste il tasto in un ritmo d’industria
ma il timbro della natura riaffiora
nello strappo di un FA alto
che acutamente rimanda
al volgere del sogno
Rosa Pierno e la poesia di Giuliano Rinaldini
uno sguardo che non vede
pone la memoria sugli oggetti
che il tempo rende ossario
e la natura sviscera l’immondo
dell’artefatto di ogni morale
Giuliano Rinaldini, Sequenza del fico
sussulto nei rovesci della terra
allo sguardo che animali di pianura
disegnano nella messe di campi sfioriti
e il coro dei canneti scompone
il rettifilo senza spessore della strada
Rosa Pierno e la poesia di Giovanni Turra Zan
gli insetti della convivenza
nell’acido sussulto di versi civili
intrusi aggettivi dirompono
dall’accogliente placidità del giorno
Giovanni Turra Zan
distoglie da ogni oggetto
il rimando a sensi altri
di parole composte in segni alterni
che culminano in immagini
risolte dall’incavo di un prisma
Filippo Ravizza, Il turista
senza scampo m’affaccio
sul cerchio dell’essere/nulla
e mi sdraio al sole dei ricordi
nei luoghi che ri-conosco miei
il vero destino è un muro bianco
e oltre andare è il verso
Alberto Mori, Fashion
la vita viene detta dalla moda
strascicata la parola f-a-s-h-i-o-n
è suono di cromi di tessuto
che vestono il futuro
l’olfatto trattiene il rigonfio dei corpi
in abissi lastricati di lustrini
Francesco Bellomi al pianoforte tre
Tasti scelti dal pianista ed altri scelti a caso
ascolta l’anima e il conto del tempo
nel riverbero di note
che l’abitano ab origine
il cerchio ostinato del ritorno
come un temporale in fuga
rilascia lente gocce
di luce compulsiva
Flavio Ermini presenta Silvia Ferrari
piacere nell’ascolto di parole
che danno consistenza all’inconcluso
con l’aggiunta di un provvido segno
Silvia Ferrari, La parola nell’arte
la parola erompe nell’arte
decostruendo il campo dello sguardo
fino al contratto spasmo degli esse-emme-esse
ogni espressione ha senso
se solo rimanda ad altro
così l’elettronica diventa gregoriano
e la sinestesia racconta il nuovo incontro
dei linguaggi controversi
Francesco Bellomi al pianoforte quattro
basso ostinato accende ricami
di foglia, alloro, rincorse
velluti e tragici ossimori
Emanuele Modigliani
la prosa distende il racconto
in periodi di tempo e di senso
nel breve identico corso
di scene stirate sui muri
Carlo Penati, Vorrei imprimere un vuoto nell’aria
l’aereo s’innalza pesante
gravido delle spoglie di vite
sempre in agonia
nel duro lavoro del senso quotidiano
alla ricerca, ahimè, dell’infinito
Francesco Bellomi al pianoforte cinque
giro di do nascosto
maschera, confondi la ragione
di un cerchio ripetuto di note
se trovi la cifra che apre
verità di musica interna
contorno di rassegna
gran finale
Carlo Penati (Legnano 1954) è stato redattore del periodico di ricerche e analisi linguistiche "Pianura". Nel giugno 2008 ha vinto il 29° premio letterario "Città di Moncalieri". Sempre nel 2008 ha pubblicato Vorrei imprimere un vuoto nell'aria, Fara Editore, prefazione di Luigi Metropoli, segnalato al XXIII "Montano".
Le parole, quando pensano il vero, si muovono all’interno di un sistema che ha a che fare, in qualche modo, con una zona franca della materia in cui ogni trasformazione sembra, se non attuabile, possibile.
Tutto è, concettualmente, materia; e ogni contrapposizione genericamente intesa sotto dualismi del tipo palpabile/impalpabile, sensibile/insensibile, visibile/invisibile, ecc., è priva di senso in termini concreti.
La poesia non ha preferenze operative: èessa stessa a determinare una selezione, svolta in astratto, per una considerazione fisica che permette di scrivere e di misurare la significatività dei propri testi.
Se guardo il mio linguaggio (che è anche una riflessione implicita sull’an- damento e sulla forma del vivere) penso al modo in cui i suoi tratti “irridici- bili” implodono all’interno della sua stessa assenza di potere.
Credo che ciòpossa rientrare in un’idea patafisica; una sorta di felicità mentale in cui però, alla scienza delle soluzioni immaginarie, devo aggiun- gere una metodologia dell’indecisione materiale.
Cosìil procedimento slitta su zone deformate, in modo tale che l’unica contrapposizione valida è forse quella fra realtà e reale, dove la poesia non si occupa, né potrebbe in alcun modo farlo, della realtà.
Si preoccupa invece della sua insistenza, della sua presenza che deborda in luoghi e tempi non giustificati dalla fatica o dallo sforzo di un io che non è mai, per fortuna, né curativo né rispondente a sé.
Bisogna allora organizzare un nucleo di tensioni che siano, nello stesso tempo, impermeabili e traspiranti, per far sìche la scrittura fuoriesca e di- venga un’indicazione esatta di ciò che chiamiamo reale.
E ciòche èreale èl’incarnato di una parola, la sudorazione fonica, l’esilio indefinito dell’esperienza individuale, inconciliabile anche con il carattere volontaristico di questa dichiarazione di poetica.
Sono cosciente che tutto ciòpotrebbe fallire, ma se ciò che creo è davvero reale allora posso far leva sui dintorni di una felicità quasi sofferta, parziale, pacata e senza tregua ma attentissima e precisa.
Perciòqualcuno ha scritto che “gli oggetti hanno evidenza nel vivente, tra le cose”; e in poesia queste resuscitano e si distinguono con una tale ric- chezza di particolarità che ancora mi stupisce.
Reale: la parola unisce in sé tutte le manifestazioni dell’immaginario, le intermediazioni naturali, i ritmi logici, le condensazioni, gli addensamenti e i pregi di una disquisizione imperfetta.
E’ lo sgretolarsi di un pensiero languido e scaltro, l’incedere elusivo attra- verso cui ci si ricorda che alle volte anche gli amori più invidiati (o più atmo- sferici) confondono gli oggetti con le cose.
Le cose del pensiero e gli oggetti della mente non sono intercambiabili: sembrano fondersi apparentemente nell’assolutezza del cuore, ma il loro di- stacco, ciò che li rende dissimili, è sempre visibile.
Ma è questa la condizione mitica in cui riconoscersi: “un’addolorante fini- mondo di euforia”, una contraddizione esorbitante a cui si crede ingenua- mente, e da cui si è certi di poter sempre sfuggire.
L’ultima possibilità è dunque borbottare; inventarsi un linguaggio ventri- loquo che finga d’essere falso e rovesci la lingua nelle meraviglie di un pos- sibile giardino interminabile: qualcuno dovrà pur farci caso.
Giorgio Bonacini è redattore di "Anterem". Per la sua biobibliografia vedi "Chi siamo" nel sito.
Trascrizione dell'intervento di Flavio Ermini per il Convegno su Lorenzo Montano e il Novecento europeo (6 dicembre 2008) nell'ambito della terza Biennale Anterem di Poesia.
Parliamo di Viaggio attraverso la gioventù di Lorenzo Montano.
Questo libro è stato edito per la prima volta da Mondadori nel 1923.
Successivamente (nel 1959) l'opera sarà pubblicata da Rizzoli nella collezione B.U.R., con un saggio di Aldo Camerino. Tale saggio viene riproposto ora in occasione della terza edizione, che si presenta arricchita da una biografia e una bibliografia aggiornate, a cura di Claudio Gallo, oltre che da una mia riflessione interpretativa.
L'edizione, a cura di Moretti&Vitali, è resa possibile dal sostegno della Biblioteca Civica di Verona.
Seguirò in questo mio intervento un itinerario, una sorta di "viaggio", tra le parola-chiave che caratterizzano l'opera.
La prima parola che propongo è: "desiderio".
Cominciamo con una citazione.
Ascoltate come il protagonista di questo grande romanzo definisce l'adolescenza: un «breve tumulto d'ombre cose passioni, incoerenti», fatte di «notti laboriose, alcune pazze, l'uno e l'altro compagno, qualche viso e corpo di donna, qualche paese scorso di sghembo, e quell'attesa, quell'impazienza incessanti …».
L'eroe montaniano si avventura sull'itinerario della gioventù senza calcolo; senza padronanza. Ma con la consapevolezza di un vivere che può aprire le porte all'immaginario, al desiderio.
E proprio a proposito di questo "vivere" Aldo Camerino nella presentazione scrive: «Il romanzo montaniano è il ritratto di un vivere straordinariamente distratto e pieno di voglie».
In questo inoltrarsi nella vita - un inoltrarsi «distratto e pieno di voglie» - tenebra e aurora stanno l'una davanti all'altra, e ognuna ripone nell'altra sempre nuove aspettative.
La gioventù. Sarà lo stesso eroe montaniano a sancire l'impossibilità di coglierla pienamente - e lo farà con una bellissima definizione: «Esita a lasciarci, s'indugia a lungo con noi, infine si stacca a tradimento».
Lorenzo Montano ci fa entrare in una vicenda che nasce come speranza e gioia per incupirsi nella perdita e nella pena, fino a chiudersi con l'ingresso nell'età adulta.
Qui ogni sorriso non potrà che mutarsi in malinconia.
E non può essere che così - se è vera quella definizione di "gioventù" che prima citavo:
«Esita a lasciarci, s'indugia a lungo con noi, infine si stacca a tradimento».
E "gioventù" è proprio la seconda parola-chiave che voglio segnalare alla vostra attenzione.
Il romanzo di Lorenzo Montano è un'opera che fa parte di un preciso genere letterario: il "romanzo di formazione"; un genere letterario che ha le sue radici nel Wilhelm Meister di Goethe (1796).
Ma appartiene a questo genere in modo del tutto particolare. Vediamone il perché.
Nell'Ottocento, intorno al romanzo di formazione si raccoglie una piccola moltitudine di giovani che incarna, con evidente foga, la smania di desiderare. E il desiderio è quello di entrare a far parte - in un modo o nell'altro - del mondo degli adulti.
Questo genere conoscerà poi i suoi ultimi capolavori - che ne decreteranno in pari tempo il culmine e il tramonto - con gli inizi del secolo scorso.
Alcuni di questi capolavori sono: i Turbamenti del giovane Törless di Musil (1906), i Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke (1910), America di Kafka (1915), Dedalus di Joyce (1916).
In queste opere - anticipate da Gioventù di Conrad (1898) e da Tonio Kröger di Thomas Mann (1903) - c'è un dato comune evidente: la saggezza degli adulti non è più un contrappunto costante alle avventure dall'eroe.
Da qui in poi, pare che gli adulti non abbiano più nulla da insegnare.
Da qui in poi la gioventù comincia - se non a disprezzare la maturità - quanto meno ad autodefinirsi in opposizione a essa.
La separatezza rispetto all'età adulta diventa la vera compagna di viaggio di questi eroi.
A differenza di quanto accadeva nel romanzo di formazione dell'Ottocento, questo vivere gravita sempre più lontano dagli adulti e dalla loro società.
Quel disprezzo, quella separatezza emergono da un'osservazione dell'eroe montaniano, quando, seduto a un caffè, osserva i passanti e annota: «le loro facce così sicure di dissimulare la bestia interna, la quale a loro insaputa fa capolino da tutta la fisionomia».
Insomma, il mondo degli adulti non si configura più come una dimora ospitale.
E dunque il rifiuto di entrare con decisione nell'età adulta sancirà il fallimento, l'impossibilità della "formazione".
Arriviamo allora alla terza parola-chiave: "smarrimento".
Abbiamo visto che Montano, così come Musil, Kafka, Rilke, Joyce, ereditano la convenzione ottocentesca del romanzo di formazione ma vi apportano significativi cambiamenti.
Non è più la crescita a dare corpo all'inoltramento nella gioventù, prima, e nell'età adulta, poi.
Al contrario: è la ribellione, più o meno esibita.
Che l'adolescenza stia diventando sempre più narcisistica e regressiva ce lo dirà in modo più radicale nel 1923 (lo stesso anno del Viaggio montaniano) un altro "tardo" romanzo di formazione: Il diavolo in corpo di Radiguet.
Emerge l'"altro lato" della coscienza adolescenziale: quello "smarrito", e invade le nostre abitudini mentali; rende visibile la precarietà delle nostre regole, la sconnessione del mondo.
Sulla soglia dell'età adulta, lì dove le cose fluttuano e si mescolano, l'eroe montaniano, indugia, così come iniziano a fare tutti suoi compagni dal Novecento in poi, fino ai nostri giorni.
E si trattiene tra le sicure parentesi della giovinezza.
In questo romanzo ci troviamo di fronte a due precipizi che delimitano l'inizio e la fine dell'adolescenza. I due quaderni li rappresentano.
In questo senso è estremamente importante il corollario formato da "Introduzione" e "Aggiunta". Questo corollario ha il compito di farci gettare almeno uno sguardo in quella discesa nel Maelstrom che è l'età adulta…
Da quel gorgo, in una delle sue ultime poesie - poco prima di morire - Montano scriverà: «Adesso invece assidera il mio tocco / la vita, sotto alla mia mano il fiore / di gioventù impietrisce, e si trasmuta / il più dolce dei seni in duro sasso» (1956).
Quel gorgo racconta la notte, ovvero ciò che rappresenta il mondo adulto per gli esseri umani.
Davanti a quel gorgo, nella penultima pagina di Dedalus, Stephen insorgerà con una dichiarazione di guerra quasi programmatica contro l'età adulta e la sua febbre possessiva: « … cercherò di esprimermi attraverso qualche maniera di vivere o di fare dell'arte il più liberamente e integralmente possibile, difendendomi con le sole armi cui consento a me stesso di ricorrere: il silenzio, l'esilio, l'astuzia … Benvenuta, oh vita».
Come non rilevare un parallelismo con l'eroe di Montano? Il quale scrive: «Tutt'a un tratto conobbi che la mia giovinezza era finita … Rimasi attonito allora, ricordo, di trovarmi privato così di colpo di tutta un'età della vita … Mi fermai in una piazza, non sapendo che fare di me … M'era rimasto soltanto un grande smarrimento …»
Un'altra parola chiave per intendere il romanzo è "l'amore".
L'amore è rappresentato nel romanzo da due figure di donna: Biancanera e Delfina.
La loro presenza consente di leggere l'opera anche come una sorta di educazione sentimentale.
Si sa: chi si muove nel giardino di Eros è sempre in bilico tra l'indigenza della mancanza e la ricchezza dell'acquisizione. Ce lo ha detto Platone: penuria e risorsa accompagnano costantemente ogni gesto dell'innamorato.
Questo dipende ovviamente dal fatto che ogni passione amorosa si colloca in uno stato d'insicurezza. Ma Montano ne fa un riflesso dell'adolescenza, dove urge a ogni passo il richiamo alla brevità del tempo di cui possiamo disporre.
A tale proposito, a me pare addirittura didascalico il Viaggio attraverso la gioventù.
Questo romanzo infatti ci segnala che c'è un grande lavoro da fare nell'educazione all'amore, un sentimento che può dare senso e forma al nostro esserci:
--- contro il troppo caos dell'adolescenza,
--- o il troppo ordine dell'età adulta,
--- o semplicemente contro le tante illusioni che ci accompagnano per tutta la vita.
Il viaggio attraverso la gioventù nasce per ricordarci la polvere dell'effimero.
Parla a quella parte di noi che cede alla seduzione - una seduzione rappresentata nel romanzo montaniano da «un braccio nudo ... il pallore abbagliante del viso, la bocca pura, le grandi iridi cangianti».
A questo proposito, l'eroe montaniano davanti a tanta meraviglia, davanti a tanto amore, annota: «... mi pareva di stare affacciato sopra un paese favoloso e strano».
L'Io è un'altra parola-chiave per intendere il "Viaggio" .
Diciamolo con chiarezza: la "formazione" è destinata a fare i conti, all'inizio del Novecento, con la disgregazione dell'individuo come soggetto e con una nuova, incandescente realtà: l'inconscio.
Questa chiamata verso l'Io frantumato - e di conseguenza verso l'introspezione e l'autoanalisi - è imperiosa in tutto il tardo romanzo di formazione.
E risulta così evidente nel Viaggio attraverso la gioventù che può indurre ad accostare questa opera a un altro grande romanzo del 1923: Coscienza di Zeno di Italo Svevo.
Ne abbiamo dimostrazione soprattutto nel primo quaderno, per la forma frammentaria che lo caratterizza, tra schegge di personaggi, atomi di scene, briciole di realtà. "Frammenti" che sono specchio di un continuo soliloquio interiore e di un vibrante processo d'interrogazione. Schegge che provengono direttamente da quel baratro oscuro che il vivere "autorizzato", il vivere adulto, malamente cela.
Sarà proprio l'avventurarsi del protagonista nelle profondità interiori che renderà evidente la definitiva lacerazione tra l'Io e il mondo.
Cosa che porterà Montano alla decisiva scelta di non dare all'eroe un nome e nemmeno «figura».
A tale proposito nelle ultime righe del romanzo leggeremo: «Questo personaggio ha tralasciato nel suo scritto qualunque indicazione che giovi a dare un'idea del come egli apparisse agli altri …».
Lo sguardo e l'ignoto: le ultime due parole-chiave.
Come per il Malte di Rilke anche per l'eroe montaniano è necessario «imparare a vedere».
«Imparare a vedere.»
Vi è un modo di configurare il reale che non si appaga dell'intuizione, ma che preferisce porla tra l'emozione e la riflessione.
La sintesi che ne scaturisce è carica di una sua specifica mobilità.
Viaggio attraverso la gioventù è il romanzo di un saggista. E lo si avverte per come ogni sensazione viene con minuziosità indagata e faticosamente sottratta alle zone interiori, notoriamente poco decifrabili, ma sempre autorevoli.
Accostarsi a queste zone misteriose comporta un movimento che è propriamente il gesto del venire per la seconda volta alla vita. Un gesto che ogni volta mette a soqquadro il mondo.
Ed ecco allora uno dei grandi risultati di questo romanzo: consentire al nostro sguardo di accedere attraverso più prospettive a questi paesaggi dell'anima e di prendere con essi confidenza.
Dopo aver letto Viaggio attraverso la gioventù, sappiamo che proprio per questo motivo va custodita la memoria delle terre incognite dalle quali si parte, delle terre della gioventù:
--- siano esse caratterizzate dalla "formazione" (come accade nell'Ottocento);
--- o dall'"obiezione" (come si rileva dal Novecento in poi);
--- o siano esse un fenomeno della realtà o dell'illusione...
Ci si inoltra in queste terre - nelle terre della gioventù, ci dice Lorenzo Montano - per tornare a smarrirsi nell'ignoto.
Flavio Ermini è direttore di "Anterem". Per la sua biobibliografia vedi "Chi siamo" nel sito.
***
serbatoio acerbo
[veleno da svuotare,
taglio che scola]
nel pomeriggio cupo
davanti ad uno specchio
- sfondo scuro:
ritratto fiammingo
***
purple brown
a Mark Rothko
aloni pulsanti
pacati
respiro di sangue rappreso
lividure accarezzate
furore pesto e vivo
***
quiete
rurale
umido silenzio
affreschi stinti
la frescura
riposta
d'umile chiesa
allevia
il carcere
di carne
***
pagine e notti di pallida viola
e parole taglienti come lune;
questo giorno trascorso senza luce
lugubre si dilunga sino all'alba:
l'anima palpita in oscurità,
luce ignea su sfondo perlato.
triste tempo di dolore imperlato,
liquefatta l'amarezza viola
la tiepida quiete d'oscurità.
aspetterò questa notte illune
lamentando il ritorno dell'alba
dai lunghi veli di rorida luce.
occhi pieni di cristallina luce,
cangianti pietre, bagliore perlato:
languida luce di liquida alba,
il vostro bigio riflesso di viola
avvelena crudele lunghe lune,
l'umido mattino e l'oscurità.
distempera lenta l'oscurità;
passa un sogno, arriva la luce.
non vivrò sino alle prossime lune
senza quel volto di astro perlato.
melencolia suona ancora la viola:
senza di lei non v'è notte né alba.
sol una nocte, et mai non fosse l'alba:
così ti volevo in oscurità,
nel fondo buio, color della viola.
bianca, vaporosa venne la luce:
versammo al gelido arrivo perlato
lagrime candide, acqua di lune.
ora nel postumo giorno illune
non ho buio sublime né orrida alba.
ritroso, silente in scrigno perlato
il ricordo nutre d'oscurità.
arriva avvolgente, privo di luce
e lascia nebbia soffice e viola.
saranno lune dai petali viola,
mai più la mia alba di grigio perlato,
non più un'oscurità densa di luce.
***
chantilly bagnata
ardesia translucida
curva gonfia,
livida:
lacrima
Gaia Gubbini si è occupata di lirica trobadorica e del laudario di Iacopone da Todi. Ha pubblicato Tactus, osculum, factum. Il senso del tatto e il desiderio nella lirica dei trovatori (Nuova Cultura, 2009); la raccolta oropallido in Nodo sottile 5 (Le Lettere, 2008) e objects in the mirror are closer than they appear (in «ore piccole» 11 - 2008, con una nota di A. Cortellessa e nel Registro di poesia n#2 a c. di G. Frasca, Edizioni d'if, 2009).
***
Dice che non c’è addio nelle asole
e asola allora sia:
poca materia intorno e vuoto.
Sia passaggio e allaccio
sia lo spazio dell’abbraccio e del ritorno
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso esposto alla parola.
***
Non è che l’ombra del silenzio
questa parola che irrompe
e sgorga necessaria come tutto il bene
che in questo momento è compiuto
nel basso della terra
e si misura ad altezza d’uomo.
***
L’inchiostro scorre
e si rapprende come lava
fa fertile il foglio
fa anse all’ansia
spicca il vuoto alle cornici
ai cornicioni chiede la vertigine
per il salto nel pieno della vita.
***
E’ d’altra specie
e sente in fiamme lente
ardere lo squarcio
sente il costato aperto
e sano l’osso
a pestare la vita
nel mortaio dei sensi.
***
Qui stanno gli anni, le storie inconcluse,
gli sguardi senza più coraggio,
le assenze
dentro i sogni
o le troppe presenze ancora
ancora senza degna sepoltura, per questo
sarebbe meglio cambiare il pensiero
ora che ècambiato il millennio
e il silenzio si èfatto piùfitto
e le parole avvizziscono
cosìche si diradi questa luce bruna
e la paura sorrida di sé
e sollevi il capo dal risentimento.
Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Dai primi anni novanta il suo amore per la poesia l’ha portata a occuparsene attivamente come organizzatrice di rassegne, di letture pubbliche, di presentazioni di libri e con collaborazioni a diverse riviste del settore. Fa parte della redazione del blog letterario collettivo "viadellebelledonne". E’ coautrice con Vincenzo Morra del libro “Alessio Niceforo, il poeta della bontà” (Viemme, 1990). Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: “Gli argini del tempo” (ed. Totem, 1991), “Biografia a margine” (Fermenti Editrice, 1994) con la prefazione di Dario Bellezza e disegni di Francesco Paolo Delle Noci, segnalato al premio Montale nel 1995. “Mutamento” (Fermenti Editrice, collana “Il tempo ansante” diretta da Plinio Perilli, 1999), con la prefazione di Mariella Bettarini, “Verso Penuel “ (Edizioni dell’Oleandro, 2003), con la prefazione di Dante Maffia (Premio Donna Poesia 2006). “Diario inverso” (Manni editori, 2006), con la prefazione di Marco Guzzi. Nell'ottobre del 2009 con la Lietocolle ha pubblicato una plaquette, “Favola”, con disegni di Marco Sebastiani. Con Pagina-Zero ha realizzato un e-book tratto dalla raccolta inedita "Le stanze inquiete".
da Macerie
Dozzinali
II
Questa che si scrive è un ponteggio,
un empio torreggiare delle lingue,
un’impresa edile.
Che getta fondamenta
soltanto quando è prossima al finire.
V
Questa sta per un’altra che non viene
perchè scrivere è passarsi il testimone
tra il detto e il dicibile non detto
che rimane, cancellato, da una pece;
è il divario tra opera e intenzione,
le altalene,
le supplenze di parole
dette “in vece”.
L’arte del tratteggio I
Ma alla fine vorranno veramente
qualche forma rivelare queste tracce
questo cumulo di linee e di presenze.
Oscilla ovunque la lotta degli opposti:
la stasi s’interpone al moto
come l’ombra si rivela nel volume
per la luce che la limita e contorna,
il pieno con il vuoto,
il suono col silenzio si avvicenda.
Restiamo fissi nell’intermittenza
col sentore che ad essa apparteniamo
fin nel nostro profilo segmentato
tagliato a colpi alterni da una lama
intanto che in disparte
qualcosa già s’intreccia, già si trama.
L’arte del tratteggio II
Ma alla fine vorranno veramente
qualche forma tacere queste tracce
questo cumulo di pause e dissolvenze.
Oscilla ovunque la lotta degli opposti:
il pieno s’interpone al vuoto
come la luce si rivela nel volume
per l’ombra che la limita e contorna,
la stasi con il moto,
il silenzio con il suono si avvicenda.
Restiamo incerti nell’intermittenza
col sentore che ad essa apparteniamo
fin nel nostro profilo dove, continua,
una linea superstite si attarda
intanto che in disparte
qualcosa già s’infrange, già si sfalda.
***
E proprio quando alla fine
dall’opera appena compiuta
ti allontanavi orgoglioso
per ammirarla da lungi,
s’insinua nel tutto compatto
un epicentro che freme:
vacillano travi e frontoni,
la chiave di volta non tiene.
L’abusiva
Tutto è in pezzi, tutto è frammentato:
adesso che ne parlo, si compone.
La tessitura traccia furtiva un nesso
dopo la frana, dopo l’esplosione.
Posano briciole nella grafia minuta
si addensa un cumulo, s’innalza già dal fondo.
Come lo zero, per eccesso d’essere nulla
si capovolge nelle orbite di un mondo.
Francesco Onìrige, Macerie, Selezione Quaderni di Línfera
Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2009, prefazione di Maria Luisa Spaziani
Classificatasi al primo posto nella prima edizione del premio indetto dalla rivista Línfera, la raccolta Macerie di Francesco Onìrige, si presenta immediatamente articolata nella duplice e contraddittoria alternanza di immagini di demolizione, di frana, di frammentazione, da un lato, dall’altro, di un parallelo recupero -o almeno, di un tentativo di recupero- di compattezza, di integrità, di ordine. Denunciando all’apparenza la propria autodestituzione con tono sovente rassegnato o sgomento, talvolta invece ironico e beffardo (come nella serie delle dodici brevi, metapoetiche Dozzinali), la scrittura si definisce invece come strumento di comprensione e oggettivazione dell’avvicendamento continuo tra pars destruens e pars costruens, come evocazionne di un perduto “filo di Arianna”, come testimonianza di una residualità destinata a ricomporsi, secondo un progetto che anche l’espediente tipografico che corre tra le pagine del libro tenta di esplicitare al lettore. Così, dai testi, scritti solo sul recto del foglio, alcune parole “cadono” nella pagina successiva, come “macerie” appunto, per assemblarsi nella poesia conclusiva, in cui l’azzeramento estremo si rovescia in un superstite inizio, l’assenza diviene presenza, il caos ritorna cosmos. Scissi tra “un movimento sismico e antisismico”, secondo un’efficace definizione di Maria Luisa Spaziani, i versi suggeriscono pertanto come la cifra più autentica della condizione umana si riassuma in un “abusivismo” esistenziale, che - volente o nolente- addensa i propri materiali in attesa di nuovi crolli, di imminenti ricostruzioni.
Pseudonimo di Francesco Nigro, Francesco Onìrige è nato a Taranto nel 1973, ma vive da tempo principalmente a Roma, dove si è laureato in Lettere con indirizzo storico-artistico. Macerie costituisce la sua prima pubblicazione di rilievo. Una sua precedente raccolta di poesie, dal titolo Messinscena, è ancora inedita.
Prologo (A ben vedere)
I
E lentamente entro,
e batto il tempo.
Come si batte il filo
contro il muro.
S’intersecano piani
e sorgono gli spazi.
Avanzo, adagio,
nel tessuto dato
e creo profondità.
E lentamente batto.
II
Torno con te, in fine,
in dialogo serrato,
e nuovo;
cucio i tuoi punti
a trattenere insieme
diverse ruvidezze
in trame di fiato
lavorate; campi
contigui, distinti
da confini e visitati da
lacerti brevi.
Sembianza
Sembra
profondità poter strappare,
passando appena nuvole leggere,
(e nascondendo forza accumulata altrove)
la trama protettiva di rete famigliare. Dirompe
come vento immobile, al momento. Poi, nega al mio
sguardo una dimora: non vedo, riflessa nello
specchio, neppure un’ombra che mi dica
di fermare (in una forma almeno)
sintomi di rivelate verità
lontane.
Scrittura incerta
Vuoi la profondità negata. Non sai se
un rinato viola, da rosso e blu notturni,
sia sufficiente per mutare il nome al tratto
sottile, che disegni come se fosse di prospettiva fuga.
Epilogo
Sono entrata nell’unica stanza, e in quel bianco
ho racchiuso lo sguardo nel vetro di una lente.
Ho ruotato nel bianco e la materia si è sottratta ai miei piedi,
e si è fatta icona mostrandosi, morbida.
Dispiegato per me ora vedo ciò che devo sapere
così, attraverso la lente, un passo alla volta,
un pensiero alla volta, mi muovo accanto, lentamente.
Un tempo, quel lucido nero è accaduto.
Un tempo, quel lucido nero un passo alla volta si è mosso.
Un tempo, è successo che un passo alla volta ha mostrato l’opaco.
Ora succede che, un passo alla volta, guardo la forma
di quello che accade una volta e poi sempre: una traccia profonda
secondo la lente che ferma nel vetro un istante del tempo,
secondo il disegno del moto seguito a se stesso.
Così mi ha sospinto lontano, il lucido nero.
E adesso, alla mobile luce dei giorni dei mesi degli anni,
rivedo il cammino compiuto, attraverso la lente,
nel fatto accaduto e fissato, nel bianco.
testo scritto per il “Grande cretto nero” di Burri e pubblicato in Quaderni di Capodimonte, n.23, Electa, Napoli 2005
Inoltre (E’ piega nella terra il silenzioso ascolto)
Avete mai voluto immaginare
la tela di penelope lontano
dai narratori, dal loro divagare?
Avete posto mente e amore
al tempo generato, e saturo
d'immagine, da ritmo di colore?
Avete oltrepassato terre e ere
colle articolazioni delle mani
adoperate, della disinvoltura piene?
Avete visto l'accaduto, intanto?
Matilde Tobia vive e lavora a Roma.
Scrive i suoi testi in stretto dialogo con l'arte figurativa, oggetto dei suoi studi.
Ha ricevuto riconoscimenti per il lavoro Come in un libro aperto, e come in una stanza (Quaderni di Capodimonte,n.23, Electa Napoli,2005),poesie per una performance di attori e danzatori, prodotta per il museo napoletano;e per la raccolta Lemmi per uno sguardo, pubblicata nella collana Opera prima (cierre grafica, 2009) diretta da Flavio Ermini e ideata da Ida Travi.
La suapoesia Dall'ombra e da lontano è stata musicata per voce, pianoforte e flauto dal maestro E. Marocchini, nell'ambito della 30° edizione delFestival "Nuovi spazi musicali" (Roma, ottobre 2009), ospitato dall' Accademia di Ungheria, in collaborazione con il Goethe Institut di Roma.
I testi di Matilde Tobia e le immagini ad essi correlate danno sostanza al suo sito http://www.lemmaelabel.splinder.com/, on line dal 2007.
da Vendesi
***
Da finestra in cucina una rivendita
d'automobili con un prefabbricato
di lamiera che sorveglia sulla vista
rinculando fino in bagno cieco stanze
ripetute a caso ripostigli d'altre
case gli agenti dicono “non badare
ai letti” letti ovunque sotto le reti
il pudore degli infradito appaiati.
***
In distinto condominio anni 60
finiture in buono stato per le scale
in camera sui muri ombre di mobili
smontati da tempo come una sindone
ma la signora che non aveva figli
ha lasciato l'immobile a un Istituto
di Torino che le regalava sempre
il calendario cioè una volta all'anno.
***
All'ultimo piano 3 vani 2 bagni
soggiorno ampio con angolo cottura
panorama sulla valle momentanea
sospensione degli allacci possibile
ricavare altra stanza-studio poco
rumore dagli appartamenti – ma no
non m'oriento troppo vuoto troppo nord
un vento che il muro non sa confinare.
***
Facciata bianca la palazzina in stile
ha interni di prestigio il cotto in terra
riscaldamento autonomo il cortile
di venti metri e portone blindato
affinché tutto rimanga chiuso dentro
o fuori a seconda del caso o del cuore
e il congegno finissimo non richieda
nuovi trasloco scialbare sentenze
***
La signora Perugini col sorriso
nella porta apre mescolando il gesto
al corridoio come quando allunga
il tavolo da pranzo ai quattro figli
ritratti in cornici blu e gialle e mattone
congiungendo il braccio e la stanza in fondo
come una costellazione o un lenzuolo
ricucito come un palazzo disteso.
Renata Morresi è dottore di ricerca in letterature comparate. Attualmente insegna Lingua e traduzione Anglo-Americana all'Università di Macerata, dove è anche borsista post-dottorato con un progetto di ricerca su transnazionalismo, intercultura e scrittura delle donne. Ha curato con Marina Camboni la raccolta di saggi e traduzioni poetiche Incontri transnazionali: modernità, poesia, sperimentazione, polilinguismo, Le Monnier, Firenze, 2005. Nel 2007 è apparsa la sua prima monografia critica: Nancy Cunard: America, modernismo, negritudine (Quattroventi, Urbino). Sue poesie sono raccolte in Locandine d'artista, Camera verde, Roma, 2009, Registro di poesia #2 (a cura di Gabriele Frasca, d'if, Napoli, 2009), in varie riviste cartacee e on-line tra cui Or, Trivio, Il nostro Lunedì, Absolute Poetry, La poesia e lo spirito, Nazione Indiana; nelle antologie Nodo sottile, a cura di V. Biagini e A. Sirotti, Crocetti, Milano, 2004, Lo stormo bianco, Premio Tina Accardi, Edizioni d'if, Napoli, 2004 e L'opera continua, a cura di G. Vincenzi, Perrone, Roma, 2005.
Marco Furia è redattore di "Anterem". Per la sua biobibliografia vedi "Chi siamo" nel sito.
Un'elegante vita
Con "live", Yarita Misako presenta uno sfondo grigio, sfumato e non uniforme, percorso da linee biancastre, sul quale risaltano, elegantissimi, esili segmenti curvi, distinti nella gradazione di colore e nella forma, tali da porre in essere una figura elicoidale, quasi un inedito DNA.
Si tratta d'una vera e propria danza sempre piùevidente via via che lo sguardo, dopo essersi posato sull'immagine, se ne fa prendere, lasciandosi incantare da un movimento rotatorio non prevedibile, da una leggiadra instabilità che può ricordare certe installazioni mobili di Calder.
Dico "può ricordare", perché qui non si è in presenza d'alcun vivace cromatismo, né di concrete oscillazioni, bensì di accenni intensi e leggeri, statici e dinamici nel contempo, ossia di figure assieme reali e immaginarie.
Nemmeno qualche (pur presente) minuscola scalfittura interrompe la tendenza di questi sottili frammenti a muoversi, ad ignorare il pallido spazio rettangolare su cui si stagliano e, chissà, a disperdersi dopo una circostanza di felice incontro.
L'enigma dell'esprimersi è proposto, con toni né inquietanti né gioiosi, nella sua ineffabile persistenza, annullando il concetto stesso di significato (ma non di senso) in un gesto estetico di rara grazia.
Il titolo, poi, appare molto appropriato: c'è davvero vita in un'immagine capace di attirarci e, con assidua delicatezza, di rapirci, mostrando segreti palpiti, intime cadenze dell'esistere.
Un haiku - visual poem? Forse.
Yarita Misako, "live", in "d", n° 26, 7-20-82-504, kohokudai, abiko-shi, chiba 270-1132, Japan
Affettuosi confronti
Il breve, lucido scritto “Un confronto”, di Sylvia Plath, inizia con
Strana davvero questa invidia, poiché la compianta autrice si è rivelata eccellente talento sia come poetessa, sia come prosatrice e, dunque, ha praticato tanto una prosa, in grado di muoversi con libertà nel “Tempo”, per la quale “niente è poco importante”, quanto una poesia “concentrata”, intensa, breve, “inizio e fine in un fiato solo” (unica eccezione dichiarata, i poemi epici).
Se, nel corso della versificazione, verrà inserito un elemento tratto dalla quotidiana esperienza, questo, salvo qualche felice, raro, caso, forzerà la mano al poeta, tendendo ad assumere il ruolo di protagonista, come accadde alla stessa Sylvia che, avendo introdotto “un albero, un tasso”, non riuscì a “sottometterlo” e finì per scrivere “una poesia su un albero di tasso”.
A differenza di quanto accade nel romanzo, le cose (“uno spazzolino da denti”) non stanno al loro posto o, almeno, presentano spiccate attitudini “a considerarsi degli eletti, dei tipi speciali”.
Il tono, come emerge già dalle citazioni, non è astioso: attraversa il testo una leggerezza quasi umoristica, retta da un’intelligenza sensibilissima, sobria, penetrante.
E non d’invidia, sia chiaro, qui si tratta, bensì dell’urgenza di un “confronto” nel cui àmbito differenze e somiglianze vengono poste all’attenzione del lettore sotto il profilo del fare: non s’indugia su presunti aspetti teorici o fondamenti delle due forme espressive, ponendo, invece, con decisione, l’accento su diversità (e difficoltà) concrete del porle in essere nel rispetto delle caratteristiche di ciascuna, senza dimenticarne i tratti comuni, anzi a partire da essi.
Emergono sentimenti di riguardo, premura, simpatia.
Il titolo del brano, perciò, appare quanto mai adeguato e l’incipit sembra assumere il ruolo della tenera, amorosa, provocazione rivolta da una grande artista della parola non soltanto ai suoi simili, ma anche a sé medesima nella duplice veste di poetessa e prosatrice: leggiadre frasi, precise e pregnanti, con una vena d’ironia terribilmente seria, così, riescono a rendere oggetto di analisi e paragone taluni non secondari tratti di due importanti registri di scrittura.
Proprio dalla suddetta duplice veste, proprio dal tono responsabile e appena beffardo, cioè proprio dall’ambiguità schietta, franca, dell’elegante scritto in parola, si è indotti a riflettere su temi più ampi, ossia, ad esempio, sull’esistenza a priori dei generi letterari e sull’opportunità d’intenderli in maniera rigorosa, rigida.
Certo, diverse forme si mostrano, ma considerarle non imprigionate entro
invalicabili confini risulta doveroso, se è vero che un consapevole, semplice, gesto di affetto, come quello di Sylvia Plath, può superarli.
Marco Furia
Sylvia Plath, “Un confronto”, in “I capolavori di Sylvia Plath”, Mondadori Editore, Milano, 2008, pag. 658
Il cavaliere e la sua bella
Con “Pulzella di un giorno distante”, Gaby Ramsperger, immaginando una diversa conclusione dell’ opera “La partenza del crociato”, scritta nel 1856 da Giovanni Visconti Venosta, propone una “ballata” i cui toni eroicomici si alternano a tratti lirico – passionali.
Il “cavaliere dai piedi consumati e stinti” ritorna da prolungate imprese belliche e incontra la sua trepidante pulzella, non più giovanissima, certo, ma ancora innamorata, secondo un tessuto narrativo in cui la poetessa avvicenda versi scherzosi, quasi parodistici, a pronunce che tradiscono una sua partecipazione emotiva (“tu sei stata … / la sola pace”).
Non soltanto, quando suggerisce per via di derisione, va anche oltre: mostra con intento burlesco, ma, intanto, mostra.
E’ come se la canzonatura si ribellasse e fornisse vie di fuga da sé medesima, provocando non ambiguità, bensì compresenza: diversi lineamenti stanno assieme, convivono.
Non si opta né a favore dell’ uno né dell’ altro: ambedue godono di pieni diritti.
A ben vedere, ci si trova dinanzi a una riflessione su caratteristiche del tutto umane: talvolta ci capita di essere coinvolti in vicende amorose e, nel contempo, osservandoci come dal di fuori, di sorridere di certi nostri, pur genuini, atteggiamenti, talvolta, cioè, aspetti buffi vengono a trovarsi accanto ad altri di natura passionale su di un piano, per così dire, di rispetto reciproco.
Non a caso, l’ autrice dedica “All’ amore di tutte le età”, con tono serio, il proprio lavoro.
Davvero questi versi liberi aderenti al narrato, eppure capaci di offrire, repentinamente, suggestive immagini pressoché prive di perimetro logico (“come fosse ormai dall’ altra lente del suo tempo”) – dai tratti descrittivi, quasi in prosa, alternati a spunti d’ intensa valenza poetica con rapido variare dei registri – davvero questi versi, dicevo, ci inducono a considerare quanto la
complessità dell’ esistere possa celarsi dietro un’ espressione linguistica, uno stile, quanto, perciò, occorra soffermarsi su ogni passo idiomatico cercando di portarne alla luce, il più possibile, le molteplici fisionomie.
Come fa Gaby Ramsperger, con la sua ballata.
Marco Furia
Gaby Ramsperger, “Pulzella di un giorno distante”, ODISSEA, Milano, 2008
Esperienza d’ amore
Preceduto dalla riproduzione fotografica di quelli che definirei dipinti plastici sospesi tra pop art ed espressionismo, nonchéda un articolato saggio di Alfonso Lentini, giungono all’attenzione del lettore i versi della silloge “Eva e Adamo – Percezione dell’esperienza d’amore”, di Marinella Galletti, artista e autrice del testo, unito, sotto lo stesso titolo, alle suggestive immagini.
Si tratta di ventisette sezioni, tre per ogni pagina, in cui l’“esperienza d’amore” viene come scomposta in molteplici sfaccettature dagli spiccati caratteri.
L’amore, lo sappiamo, implica mille pensieri, episodi, ricordi, si alimenta dei suoi vividi componenti e sa attraversare e congiungere in un solo attimo vicende anche lontane, dissimili, ponendo in essere un’emotiva condizione di disponibilità, un fecondo aspetto del vivere.
Aspetto che, rivolto verso l’ esterno, verso un’altra persona, può porre l’innamorato in uno stato d’incertezza, di dubbio (l’amore, intendo dire, per essere felice deve essere ricambiato).
Néi suoi risvolti fisici paiono in grado di sciogliere il dilemma: la diciottesima sezione, così, inizia con “Sia la natura nell’atto dell’amare” e si conclude con “Farà male. Male. Male?”.
Siamo dunque di fronte ad un non risolvibile enigma?
Ora se, dopo aver seguito la poetessa, rifletteremo sul suo appassionato proporre singoli lineamenti, ci potremo rendere conto di essere rimasti pressoché fermi sulla via di un’illusoria spiegazione, ma di essere giunti ben più avanti seguendo altri percorsi: l’esserci soffermati, brano dopo brano, su tratti di vario tipo è risultato utile in quanto ci ha aiutato a comprendere come sia possibile avvicinarsi al sentimento d’amore costruendone una (nostra) storia, non immodificabile, non stabilita una volta per tutte, bensì tale da illuminarsi, acquistando valore, ogniqualvolta la si narri con parola attenta, sensibile.
Quale parola èpiùsensibile di quella della poesia?
Con sequenze precise, esatte, capace di accostare immagini proprie del pensiero ad altre riferite a cose e azioni specifiche, sorvegliata nel richiamarsi all’esperienza amorosa, ossia abile nel renderne testimonianza per via di un linguaggio evocativo ma sobrio, incline a variazioni tipografiche di gusto futurista, Marinella Galletti affronta un tema non facile, infinite volte trattato dai poeti, riuscendo a trasmettere qualcosa di originale, di peculiarmente suo.
“Improvvisamente io e lui ci amiamo”, questa frase ricorre spesso: certo, l’amore è sempre improvviso, sorprende, stupisce, perfino quando dura da lungo tempo.
Marco Furia
Marinella Galletti, “Eva e Adamo – Percezione dell’esperienza d’amore”, Edizioni Nuovecarte, Ferrara, 2008
Etimologici incanti
Davvero molto articolato ed enigmatico si presenta "Libro Linteo - Titolo I. Il resto" di Enrica Salvaneschi e Silvio Endrighi.
Enigmatico, ma non indecifrabile, poiché il vero arcano è comprensibile nel non avere soluzione: tutti, intendo dire, lo comprendono, anche se nessuno può scioglierlo.
Di questo si tratta.
D'un itinerario, ricco di folgoranti citazioni, percorso in maniera risoluta, eppure non priva di affetto, lungo quell'indefinibile territorio che si trova tra vita e parola, idioma e silenzio, divenire e restare.
Anzi, nemmeno, perchéappare evidente che i suddetti poli soltanto in apparenza risultano dissimili o opposti, sviluppandosi, in realtà, secondo dinamici lineamenti linguistici comuni.
Lineamenti, si badi, non vere e proprie strutturate lingue.
Un'ampia e profonda opera di dissodamento del linguaggio conduce a riconoscere un'unità di fondo che, a partire dalla forma, in particolare dall'etimologia, riconosce nell'impulso del dire un ineffabile quid da cui tutto parte e cui tutto ritorna.
Autori quali Rilke, Leopardi, Kafka, Parmenide, Pindaro, Nietzsche, Dante, contribuiscono, per via di acute citazioni, ad illustrare la ragion d'essere di un atteggiamento giàreso evidente da un verso del componimento poetico "Tantalo": "Si diventa quando si é già nati".
Prima di nascere non si esiste come individui in senso fisico e neanche linguistico: gli altri, ancora, non possono parlare delle nostre peculiari fattezze, ossia non sono in grado di riferirsi ad un vero e proprio oggetto, bensì soltanto ad un'immagine, ad un'aspettativa (e nemmeno noi possiamo esprimerci almeno con il pianto o con un grido neonatale).
La comunicazione tra umani, insomma, avviene a condizione d'essere "già nati".
Una constatazione ovvia che presenta una precisa fisionomia d'annuncio: tutto quello che viene detto sta al di qua della morte e perciò, anche quando sembra richiamarla (ad esempio a causa della disperazione provocata dall'insolubilità dell'enigma, o della difficoltà dell'intrapreso viaggio, o di altro accidente) ne mostra, nello stesso gesto evocativo, l'attuale inesistenza.
"Poiché non crediamo nell'antitesi tra vivere e scrivere" "ma pensiamo semplicemente - o semplicisticamente - che scrivere sia un aspetto del vivere": apprezzata l'elegante umiltà retorica di quel "semplicisticamente", ci troviamo al cospetto di una rilevante affermazione.
Nel soffermarsi su quanto sfugge perchésempre sotto gli occhi, gli autori non distinguono tra vivere e scrivere, non credono che la vita possa costituire oggetto dell'idioma, ma dichiarano, senza mezzi termini, che lo scrivere è un aspetto del vivere, è fuso con esso, non se ne distingue mentre si svolge, diviene, ossia che la lingua è una forma del vivere medesimo.
Ed è proprio il vivere medesimo ciò che resta, che permane.
Ora l'enigma non è stato sciolto, ma le idee in proposito risultano meno confuse: le incantevoli etimologie, articolatissime ed incalzanti, di Enrica Salvaneschi e Silvio Endrighi ci hanno aiutato a capire che non dell'arcano dobbiamo avere timore, ma del non riuscire ad averne consapevolezza, ci hanno mostrato come riflettere con passione sulla lingua possa costituire feconda meditazione sulla vita.
Marco Furia
Enrica Salvaneschi, Silvio Endrighi, "Libro Linteo - Titolo I. Il resto", Book Editore, 2009
Poetiche tracce
Con "Impronte sull'acqua", silloge vincitrice della quattordicesima edizione del Premio Internazionale di Poesia "Renato Giorgi", Francesco Marotta presenta sequenze accuratamente scandite, limpide nel loro assiduo alludere.
Alludere a cosa?
Un indizio si può trovare già nei primi versi:
"se arrivi appena a
pronunciare un nome".
Affermazione chiara, esplicita, di scontento: la lingua dice, ma non abbastanza.
Tanto è vero che
"la pagina èpronta
per l'inchiostro che
vaga tra silenzio
e silenzio"
ossia per un segno affiorante da mute regioni, nell'attesa d'un altro simile.
Mute regioni, dunque, non considerate quale vuoto, indistinto nulla, bensì ineffabili campi d'energia da cui la parola sgorga.
Ma, allora, se la lingua non spiega se stessa e soltanto si mostra, perché ritenersi insoddisfatti?
Non è sufficiente una presa d'atto?
No, davvero.
Il linguaggio non è qualcosa di statico, da analizzare una volta per sempre, ma di vivido e dinamico: possiamo aggiungere espressioni, proporre nuove forme.
Lo possono fare soprattutto i poeti, sensibili al senso più che a poco elastici significati, al farsi del dire più che a ripetitivi protocolli: costoro percorrono itinerari inediti, invitano gli uomini ad avere fiducia nei propri passi così da sconfiggere il timore del dissimile, del non usuale, chiamano a riflettere su usi idiomatici non semplicemente denotativi, ma fusi in maniera inscindibile con l'esistere.
La loro insoddisfazione, ben lungi dall'indurli a seguire sterili sentieri, è origine di gesti costruttivi che si aprono ad inconsueti scenari, che obbediscono ad impulsi in cui etico ed estetico sono congiunti, mostrando come restare schiavi di rigidi concetti non costituisca inesorabile destino.
Con pronunce nitide, non alieno da (vigile) attitudine a spezzare vocaboli in fine di verso, sicuro nel proporre tratti, talvolta vere e proprie traiettorie, che entrano ed escono ritmicamente dal campo visivo del lettore ("ci sono versi scritti / con gli occhi"), accostando elementi di natura esistenziale ad illuminanti riflessioni sul linguaggio, insomma, offrendo una versificazione varia e dinamica, Francesco Marotta mostra come la poesia non costituisca una via di fuga, un sottrarsi al mutevole divenire, ma sia un importante strumento, un aiuto nello scorrere della vita.
Originali e feconde impronte, senza dubbio.
Francesco Marotta, "Impronte sull'acqua", Le Voci della Luna Poesia, 2008, pp.55, euro 10
Un discorso in frantumi che raccoglie, tuttavia, impressionisticamente
o ironicamente, quanto piùcolpisce o svanisce o richiama l'attenzione.
E non c'è mai ripetizione, in questo sperimentalismo secco e pungente,
mai un abbassamento di tono. E' decisivo il legamento nascosto e
magnetico in cui sembra talvolta di riascoltare, intelligentemente
rivissuti, quei versi che negli anni '60 fecero conoscere fondamentali
pilastri della poesia quali O.Mandel'stam o A.Vosnesenskij.
Maria Alessandra Tognato ce li ricorda ricreando i loro umori sismici
in una modernità autentica e italiana. [N. Bonifazi]
1 50 days
perpendicolare
alla ragione
la Variazione
spacca spudora
e se addolora è
per rare-fare
per farci rari
5 Tre inverni
vene di neve e
schegge–sangue
arancio
si declina al presente
il primo maggio
11
perchè l’eleganza
delle cose non
sussulta
all’inciso defilato
di un profilo
ma piange a
fiume l’impiglio
d’alga
il lascito di
parole
12
Sfilarsi via
via andare
a vegliare
a filare una fine
come brina
come sale sul
bicchiere di
tequila
22
Grigio che piomba
i giunti già
dall’alba –
La tua scomposta
latitanza
che mi sfrangia
il gelo
del nascondimento
32 Tutto
Vinta non c’è più
urgenza
gonfia abbastanza
Ma amaro sale
maschile
da controseme d’assaggio
persa resina
al tatto
La parte per il
tutto
37
Lo svelamento affiora
Necesse est
A filo d’acqua
A non incerta ora
Per numero propizio
Maria Alessandra Tognato vive a Padova, dopo aver vissuto a Boston, a San Carlos e infine a San Francisco. Sue poesie sono state pubblicate nelle antologie "Great poems of the western world", "The best poems of the 90s" e "American Poetry Anthology". In Italia ha pubblicato le raccolte "Andrei", "Non c'è verso", "Rubina", "I Venti & l'Uno" e "D'Ali".
Oltre il Premio, Daniela Cabrini su poeti del “Montano” attivi in altri versanti: Sergio Fabio Berardini, filosofia, Nichilismo e rivolta, Il Poligrafo 2008; Alberto Casadei, critica, La critica letteraria del Novecento, Il Mulino 2008; Giovanni Infelìse, arte, Amedeo Modigliani, Book Editore 2008.
Daniela Cabrini è nata a Cremona nel 1961. Compie studi scientifici e si laurea in Matematica. Ha pubblicato Tempo Presente (Lieto Colle, 2002) e Attraverso interni (Lieto Colle, 2007). È presente con un suo intervento di Matematica in I nomi propri dell’Ombra (Moretti&Vitali, 2004). Sue poesie compaiono in: Rane, un dito nell’acqua (I Quaderni di Correnti, 2004) e I mondi creativi femminili (Lieto Colle, 2006). Vive a Verona.
Per scherzo, potrei tentare una critica su “La critica letteraria del novecento” così che Alberto Casadei sia invitato a codificare un nuovo genere – studi sui saggi di critica letteraria e così via. Ma già avrei il problema di non saper collocare il suo stesso operare: saggio? studio? storia critica della critica?
Nell’introduzione l’Autore indica i criteri che ha scelto come condizioni iniziali, segnalando i margini fra il dovuto e la sua interpretazione per poi cogliere, con accurate selezione e sintesi, i tratti salienti delle origini sia filosofiche, sia estetiche, sia letterarie della critica per come è nata ed evoluta nel corso dei secoli.
Dopo l’introduzione, il libro si concentra sulla critica del novecento, analizzata per categorie – I) autore e mondo: critica sociologica, psicoanalitica, marxista, storicista... II) il testo e l’opera: formalismo, semiotica, retorica... III) il lettore e le culture: decostruzionismo, ermeneutica..., con chiara attenzione alle continue intersezioni fra queste tendenze e singole esperienze critiche. Si tiene conto, in particolare, delle triadi: autore-testo-lettore, studio-saggio-opera letteraria e studio-saggio- testo letterario. La prima triade dispiega le varie correnti interpretative presentate, la seconda e la terza convergono in una sola, ovvero le parole: opera e testo letterario vengono ad essere equivalenti negli ultimi due capitoli.
Attento a sottolineare le caratteristiche delle correnti teoriche nelle varie nazioni, riserva un adeguato spazio alla critica letteraria italiana e propone dieci schede biografiche e critiche stesse di altrettanti teorici stranieri (figure di grande statura: Frye, Lukacs, Benjamin, Adorno, Bloom, per citarne alcuni) proposte come piccoli esempi di un canone personale.
In chiusura un’analisi appassionata sulle tendenze attuali, in cui l’equilibrio intellettuale dello studioso riesce a tenere a debita distanza l’amara constatazione della crisi attuale della critica letteraria e, con sguardo fermo eppure vivace, prosegue alla ricerca di nuove prospettive. Le domande sono due alla luce dei cambiamenti socio-culturali (soprattutto portati dalle società multietniche) e mediatici - informatici (fra cui l’esigenza della spettacolarizzazione del prodotto, la velocità e la ricchezza delle banche dati che avvicinano opere lontane nel tempo e nello spazio): cosa è un’opera letteraria oggi e se è possibile stabilire un canone per poter dire quali opere siano decisive e perché. Si tenga conto che l’antica affermazione – un classico è tale dopo 50 anni dalla pubblicazione, non ha più senso: prima di tutto perché non sappiamo più quale testo potrebbe ambire a diventare un classico e perché, in secondo luogo, la caducità di lettura dei testi informatizzati ha spostato definitivamente nel non fondamentale la questione tempo e durata.
Casadei sottolinea che tutti questi cambiamenti non mutano la fondamentale questione sulla stabilità (qualità? bello?) di un testo letterario, di un contenuto che mantenga una sua forma conoscitiva propria. “Occorrerà allora ripensare ad alcune categorie fondamentali del fare letterario, per mantenere una distinzione tra un giudizio latamente culturale e quello specificatamente estetico sulle opere classificabili come letteratura”. Daniela Cabrini
Livorno è una città strana di mare e terra avvolta da una la luce irreale: viva e insieme spenta, nostalgica. Se la geografia è geografia d’anima, immagino la Livorno di fine ottocento, accogliere e dare origine di terra ad Amedeo Modigliani. Di questa figura si sa della sua breve vita, della sua povertà e solitudine, della sua relazione con Anna Achmatova, del suo grande, intenso e religioso amore con Jeanne Hébuterne, consumato e mantenuto eterno con la morte di lui e il suicidio immediato di lei. Di Modigliani si sa della sua grande arte, del suo lento lavoro su disegni che diventavano velocemente dipinti, della sua imperfezione come qualità intrinseca alla sua anima, punto di partenza e non di arrivo che rende l’arte e la vita così vicine nel sentimento e nell’autenticità.
Giovanni Infelìse ci regala in questo breve testo, commisurato alla breve vita dell’artista, uno sguardo poetico, appassionato, senza cedimenti a una qualunque forma di omaggio e tantomeno a un pretesto per parlare d’altro. Attraversano l’intero studio le parole poetiche e lo sguardo da poeta dell’Autore, e quell’indagine sottile e inquieta dello spirito romantico senza cedere terreno ai comparativi storici. Ciò che colpisce è il timbro di questo libro le cui armoniche sono: la tragedia come essenza tragica di un’esistenza votata all’arte; la felicità e l’amore come ossessioni consumate tra ragione e immaginazione; la sofferenza e la solitudine necessarie per poter essere artisti fino in fondo; la cifra poetica di Modigliani nei suoi nudi e nei suoi volti, dove un singolo segno può cambiarne la natura e la sua diversità senza un nonostante. Ma la combinazione di queste armoniche rendono un timbro fermo, sereno quasi disincantato. Al lettore non resta che il desiderio di conoscere Giovanni Infelise poeta, o abbandonarsi alle figure e allo sguardo nostalgico e romantico delle “Lettere di Modigliani”, di “Le Rose di Modigliani”, o scegliere uno dei testi citati nel libro e riportati nella bibliografia accurata e preziosa. Daniela Cabrini
Il sacro nome del demone russo
“ Adesso finalmente mi sono messo sul mio nuovo libro: su Dostoevskij. Conterrà molto di più (… ): grosse parti della mia etica metafisica, della filosofia della storia etc...” .
Siamo nel marzo 1915, chi parla è Gyorgy Lukacs a proposito del suo “Dostoevskij” (traduzione e cura, con postfazione, di Michele Cometa, edito da SE). Già il suo famoso “Theorie des Romans” conteneva dei precisi riferimenti all’autore russo, “ D. non ha scritto nessun romanzo (…) egli appartiene al nuovo mondo”. Il nome del demone russo e l’utopia del “regno dei cieli sulla terra” o al contrario la speranza in una nichilistica palingenesi agitavano speranze di rivolta e di superamento del nichilismo, del mondo abbandonato da Dio, con la coscienza precisa che l’ideale greco dell’unione fra filosofia, cioè pensiero, e vita era ormai irriproponibile. I personaggi di D. sono eroi di romanzi criminali perchè sprofondati nell’orrore dell’andare fino in fondo al delitto. Di più: un rinnovamento poteva venire solo dalla Russia dove i dettami dell’anima del singolo possono essere immediatamente trasferiti a tutto il popolo.
Si riparta da qui. Si riparte da un pensiero che non vuole riparare a disagi, né decostruire, né creare immagini necessarie come paradigmi anche se seducenti come la stessa solitudine che vorrebbero esorcizzare (deserto, vuoto, silenzio, segreto, solo). Qui errare vuol dire – sbagliare. Si riparte dal sottosuolo, preso anche nella sua superficialità (quella cara a Valéry) .
Si riparte dalla filosofia come uso sereno della mente, impresa dell’intendimento conoscitivo, dire e portare nel linguaggio un modo umano di stare al mondo.
Si riparte dopo cent’anni con il pensiero vicino di Zambrano, Natoli, Galimberti, Guardini, Givone, De Martino, Kojeve, altri sacri demoni attraverso cui rintracciare lo sviluppo del pensiero dell’Autore.
La meraviglia di questo libro è la sua forma estetica-etica: il libro è quello che si vuole e si va dicendo. Dunque è intimamente russo, connesso alla topologia delle proprie asserzioni, è un’epica del pensiero, un romanzo-racconto di idee, nel quale l’autore svela il proprio percorso di pensiero raccontandone le radici. I romanzi di D. e i suoi personaggi sono specchio oltre che motivo di analisi.
Con rara capacità Berardini cita anche ampie parti dei romanzi di D. che si fondono (strumenti, causa, mezzo) col proprio dire, sapendo mantenere la stessa nostalgia, la stessa musica. I temi sono fra i più urgenti: il male che vive nel mondo, la morte sia come caducità sia come mistero, il senso del vivere chiuso nella finitezza, l’anima e la coscienza, l’etica soprattutto nel suo rapporto col sacro (di cui B. propone il significato di “impedire l’accesso, sbarrare” individuato da Giovanni Semerano), la lotta fra gli opposti e la possibilità di superarli senza cadere in agganci metafisici né tantomeno morali. Temi urgenti in un tempo – questo – di altrettanta violenza, in cui l’uomo è così debole al richiamo del sottosuolo, inteso adesso come l’arte di “fare quello che si può” (il nuovo “da- farsi”). Tempo di rimozioni continue e parole che riparano alla mancanza di senso, tempo in cui tutto sembra possibile tranne seguire fino in fondo la propria unicità e il suo abisso.
E dunque: quale rivolta? A quale deserto? L’inquietudine non è sottile. E’ solo una confusione puntata, desiderio non gravido, sorriso spento. L’inquieto parla di sé, prima o poi dice perchè l’inquietudine trabocca l’anima, portandola ad ebollizione. Qualche voce comincia a pronunciare la parola “accudire”, avere cura di sé e degli altri – la madre che culla e alleva e che sorride alla propria gratuità. Ma è sacrificio, ne può valere la pena? La risposta di Fabio Berardini è una scelta cristiana, dove Cristo non è il Figlio del Dio cattolico, così come l’amore non è la religione a più buon mercato. Serve un’anima.
“ Il secolo della scoperta dell’anima è arrivato. (…). Dobbiamo riscoprire l’anima. E il potere dell’anima. Abbiamo bisogno di una nuova religione dell’anima, senza dogma, senza leggi – solo sentimento. Cristo divenne chiesa. E per questo fallì. Noi dobbiamo istituire un dominio dell’anima.” Da Lukacs si è ripartiti e con lui si chiude, in un’epoca ferocemente diversa, altrettanto violenta, in cui sembra che il nichilismo non sia giunto alla sua fine, in cui quella ragione che ha ucciso l’anima è stata studiata, sezionata, spesso condannata ma sempre più offesa e atrofizzata, un’epoca insomma senza anima, senza ragione, senza epica, senza limite, epoca in cui un libro come questo getta una luce sul pensiero libero. Daniela Cabrini