Margherita Orsino fa parte del comitato di redazione di Line@editoriale.
Nell’ambito dell’editoria universitaria francese, line@editoriale è la prima rivista scientifica internazionale redatta in lingua italiana, promossa dal gruppo di ricerca “Il Laboratorio”, il centro di studi di letteratura italiana dell’Università di Tolosa che studia le pratiche e culture dell’editoria italiana dalle origini ai giorni nostri.
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L'immagine è di Magdalo Mussio
Premessa
È necessaria oggi la poesia? È necessario che i poeti scrivano? I poeti hanno qualcosa da dire o usano un mezzo raffinato per esprimere il senso di horror vacui, di una solitudine che l'uomo stesso ha voluto per sé? Il poeta è un «fingitore» e la sua finzione è andata troppo oltre nel rappresentare solo se stesso (fino a possedere, sfruttare e danneggiare l'habitat in cui vive e che lo ha accolto)?
Questo articolo parla di origini della poesia. Forse solo cercando di individuare queste origini, potremo riappropriarci della poesia e della sua "funzione" nel mondo in cui viviamo.
Poesia, mito e musica
Secondo J.L. Borges, la poesia (e la letteratura in generale) utilizza una struttura ed un linguaggio non comuni e cioè comunica attraverso dei fattori che riflettono degli archetipi interiori (Borges fa riferimento ad un esempio per tutti: l'Ode all'usignuolo di John Keats). Il discorso sugli archetipi è strettamente connesso a quello del mythos, come è stato individuato dalla critica moderna della mitologia. Il «mito» è oggetto della poesia fin dalle origini della letteratura occidentale che noi facciamo risalire ad Esiodo ed Omero. La poesia è quindi, essendo linguaggio del mito - inteso come prima rappresentazione del reale, spiegazione di un rito o delle credenze di un gruppo sociale, soprattutto dell'uomo primordiale - il linguaggio archetipico dell'uomo. Fin dalle origini, poesia e mito sono indissolubilmente legati: canto del poeta (áidein) e attività del mitografo coincidono in quel genere di poiesis la cui materia consiste in «racconti intorno a dèi, esseri divini (deimónön), eroi e discese nell'aldilà» (Platone, Repubblica, 392a).
Il poeta è -per sua origine- colui che avverte più degli altri la forza mitopoietica dei simboli, scaturenti dall'intimo e parla per archetipi, facenti parte della 'memoria collettiva'. Il recupero degli archetipi appare la funzione primaria del poeta. Platone parla di 'invasamento divino' che possiede i poeti e li fa comporre: la poesia è "una mania proveniente dalle Muse" (Ione, 533e-536b; Fedro, 245a). Aristotele, invece, identifica notoriamente nella poesia una funzione puramente catartica, la poetica avendo tratto origine da cause naturali (Poetica, 49b, 21-28). I poeti romantici seguiranno la strada tracciata da Platone, come fa Keats:
… Allora m'invase
un potere di visione enorme: vedere
come un dio vede; e cogliere il fondo
delle cose agilmente come l'occhio esterno
penetra misura e forma…1
La poesia può essere capace di mandare a morte o di salvare ma «vi si accompagna, e vi sottentra, un livello parallelo, né più profondo, né più superficiale, ma testardamente altro, in vui niente salva, niente esalta, niente commuove, niente innnamora, niente è efficace, la magia gira a vuoto […[ L'unico potere del quale dispone questa scrittura consiste nella dimissione da qualsiasi potere , nella rinuncia all'elevazione, al riscatto da questo mondo, alla salvezza. […] Nemmeno un salmo può salvare, se ancora vuole salvare, se non è già salvezza, se non è già perfetta letizia, nel suo pure essere pronunciato, nel suo puro essere scritto».2
L'intuizione di Lévi-Strauss: «Il mito si può paragonare sia alla musica sia al linguaggio, ma con questa differenza: nel mito non ci sono fonemi, gli elementi più semplici sono le parole. Così, se prendiamo come paradigma il linguaggio, lo schema è costituito da: primo, fonemi; secondo, parole; terzo, frasi».
«Nella musica esiste l'equivalente dei fonemi e delle frasi, ma non l'equivalente delle parole. Nel mito c'è un equivalente delle parole e un equivalente delle frasi, ma non c'è l'equivalente dei fonemi. In emtrambi i casi, dunque, manca uno dei livelli. »
«Se vogliamo comprendere il rapporto fra linguaggio, mito e musica, possiamo farlo solo prendendo come punto di partenza il linguaggio. In seguito è possibile mostrare come la musica e il mito nascano entrambi dal linguaggio ma si sviluppano separatamente in direzioni diverse, come la musica metta in rilievo l'aspetto l'aspetto sonoro già presente nel linguaggio, mentre il mito sottolinea l'aspetto del senso, del significato, anch'esso contenuto nel linguaggio.»
Ma come la musica e la mitologia siano «due sorelle nate dal linguaggio e poi separatesi per procedere in direzioni diverse», Lévi-Strauss non lo spiega. Non spiega come strutture più semplici gemmino da una più complessa e non perché sia possibile l'esatto contrario -ovvero come da due strutture semplici -musica e mitologia - sia nata una struttura più complessa - il linguaggio. Data la contiguità poesia/mito, ho il sospetto che poesia possa essere un passo successivo di mito verso il linguaggio. La poesia è ritmo, è musica3, pertanto viene facile la sequenza: mito-poesia (musica)-linguaggio.
Poesia e linguaggio
Borges cita, nelle sue Lezioni americane, Robert Louis Stevenson, il quale «parla delle parole come se fossero semplici pezzi di legno, semplici strumenti. […] Se accettiamo quello che dice Stevenson, ne deriva una teoria della poesia, una teoria secondo cui le parole vengono trasformate dalla letteratura per un'utilità che va oltre il loro uso specifico. Le parole, dice Stevenson, sono fatte per il normale e quotidiano commercio della vita e, in qualche modo, il poeta le trasforma in elementi magici». Ma, «agli inizi le parole non erano astratte, bensì concrete, e immagino che, in questo caso, "concreto" abbia lo stesso significato di "poetico". […] Quindi, parlando di poesia, possiamo dire che la poesia non fa quello che pensava Stevenson, non cerca di prendere una serie di elementi logici e di trasformarli in qualcosa di magico. Semmai, la poesia riporta il linguaggio alla sua fonte originaria».
I mitografi, Platone, Borges recuperano l'eredità ancestrale dell'uomo, che ci informa ancora oggi come uomini moderni. La fonte originaria della poesia: la relazione madre-figlio nel Pleistocene. Che dalla soddisfazione dei bisogni primari (cibo, protezione) sia nato il primo 'linguaggio', il linguaggio archetipico fatto di suoni che comunicano, è vero, ma comunicano i primi bisogni dell'uomo. «La femmina di Homo sapiens è condizionata a fornire al neonato una lunga protezione, che va dalla nutrizione e dalla protezione fisica al rimodellamento neurale. Da questo prolungato e indispensabile contatto fisico e psicologico, e dall'esigenza di interpretare i bisogni vitali ed emozionali del cucciolo, nasce la tendenza della femmina a prendersi cura, a ricercare il contatto ed anche ad allargare le possibilità di comunicazione reciproca. Da ciò l'ipotesi che il linguaggio nasca dall'interazione prolungata madre-cucciolo, dal bisogno materno di interpretare le esigenze, i bisogni del piccolo, rivestendo queste forme di interazione di suoni significanti […] che alla lunga […] si estendono progressivamente alla comunità».4 Tenendo conto che in questa situazione possono essere emersi dei fonemi significativi, ma primitivi, dalla Dea Madre e dal suo rapporto con la prole, ovvero dall'espressione degli archetipi, può essere nata la prima poesia/musica/mito "prelinguistica" (vedi più avanti).
Partendo dal rapporto di Agostino con la propria madre a riguardo della musica, Alessandro Carrera ci ha già ragguagliati sul dubbio che la trasmissione del linguaggio, della scrittua e in fondo anche l'ispirazione poetica avvengano solo per 'via paterna': «Il poeta può bensì invocare la musa, ma si dà per scontato che la facoltà di rivolgersi alla musa, il potere fallico di gestire il linguaggio e dunque la poesia e la scrittura, gli vengano da un "logos", già marcato dalla presenza e dalla figura del padre». Ma è possibile che «l'ispirazione poetica, la motivazione che tra tutte le opzioni possibili della vita porterà allo scrivere poesia (o al cantarla), si ricavi invece da uno sviluppo del rapporto tra madre e bambino, una situazione pre-edipica (orfica, se vogliamo), nella quale ci troviamo all'inizio di tutto, quando il bambino non sa ancora di essere bambino e la madre solo gradualmente si scopre madre».5 Dopo Amaut Daniel, che Dante definisce "miglior fabbro del parlar materno", Pasolini e Zanzotto, i quali hanno dichiaratamente espresso la loro poesia nel linguaggio materno, il dialetto, un linguaggio arcaico e sacro che può essere in grado di rivelare il nostro essere sepolto.
Del resto il linguaggio è una funzione superiore dell'homo sapiens, comparso contemporaneamente alla costruzione di utensili e al pensiero simbolico. Il linguaggio è naturalmente parte della cultura, forse la parte più importante, ed è un meccanismo potente per l'innesco e la trasmissione della cultura stessa. Il genetista delle popolazioni Luigi Luca Cavalli Sforza identifica nel linguaggio la facoltà umana essenziale che permette la cultura, intesa come accumulo trasmissibile di conoscenze ed innovazioni.
Ma se pensiamo che ciò sia dovuto ad un processo causale o 'intelligentÈ ci sbagliamo. L'evoluzione non sembra operare in questo modo: la selezione naturale non è un processo creativo in sé. L'evoluzione deve essere descritta opportunistica: essa semplicemente sfrutta o respinge le possibilità che si presentano e, a loro volta, queste stesse possibilità possono essere favorevoli o sfavorevoli. Le nostre decantate capacità cognitive, che ci distinguono dalle scimmie antropomorfe, potrebbero essersi originate mediante un processo di "esaptazione": un'acquisizione insorta in un contesto prima di essere sfruttata in un altro. L'antropologo Ian Tattersall ipotizza che l'evento che poi ha dato luogo al linguaggio sia insorto nel genere Homo 500.000-600.000 anni fa, quindi molto prima di quando l'uomo tipologicamente moderno abbia fatto la sua comparsa, cioè circa 196.000 anni fa. 6 In quei millenni l'uomo aveva un apparato vocale che poteva produrre i suoni del linguaggio articolato ma che evidentemente non 'produssÈ il linguaggio. L'apparato era composto dalla laringe, ossia la struttura del collo che contiene le corde vocali; la faringe, un tubo che risale al di sopra di essa e si apre nelle cavità orale e nasale, coinvolta anche nel passaggio del cibo verso lo stomaco; e la lingua, con strutture associate. Forse dava qualche vantaggio nel contesto di una forma 'prelinguistica' di comunicazione. Infatti, poiché il neo-apparato vocale si accompagnò all'inizio ad una flessione delle ossa del cranio di questi ominidi, possiamo solo immaginare che fosse un vantaggio (tanto è vero che questa modifica si è conservata fino ai nostri giorni) o per una forma arcaica di espressione vocale o per respirare o per deglutire il cibo.
Il pensiero simbolico fa la sua apparizione con le pitture rupresti dell'Europa sudoccidentale di 30-40000 anni fa. Ma quando nasce una "coscienza" poetica e poetante? Probabilmente la consapevolezza riflessiva del "fare poesia" è venuta in seconda battuta, quando la poesia in qualche modo esisteva già e l'uomo ne faceva uso in particolari circostanze, soprattutto nel corso di cerimonie rituali e religiose. Non abbiamo testimonianze vive di testi poetici anteriori ai reperti archeologici sumeri e assiro-babilonesi. I frammenti forse più antichi di poesia che conosciamo risalgono a 4500 anni or sono e si riferiscono all'epopea del semidio Gilgamesh. Ma fermarsi a questa data e fissare lì l'inizio della poesia è ovviamente un'arbitraria riduzione. Tanto più che la capacità dell'uomo di simbolizzare è riconosciuta anche ai Cro-Magnon di circa 40.000 anni or sono. Essi infatti seppellivano i morti con complessi riti funebri che alludevano in modo esplicito a una vita "al di là" della vita. E appare logico supporre che, se una comunicazione simbolica e rituale-religiosa era in qualche modo presente, la poesia non doveva essere lontana, in uomini che certo conoscevano modalità espressive basate molto più sui sentimenti e sulle emozioni che sulla proprietà "numerica" dei messaggi. Essi insomma, possedevano un linguaggio capace di descrivere, tramite il rito, il simbolo, l'allusione, una realtà immaginaria e religiosa, un mondo che nella realtà fenomenica non esiste; un linguaggio che non conosceva soltanto una sintassi e una pragmatica, ma anche una 'poetica'.
Per Roman Jakobson, il linguaggio consiste nell'inviare un messaggio dal mittente al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto, esige un codice, ed infine necessita di un contatto. Su questa base, Jakobson identifica sei funzioni del linguaggio: referenziale (che si concentra sul contesto), emotiva (che si concentra sul mittente), conativa (che si concentra sul destinatario), metalinguistica (che si concentra sul linguaggio stesso), fatica (che si concentra sul codice), e poetica. E la poetica su cosa si concentra? «La messa a punto rispetto al messaggio in quanto tale, cioè l'accento posto sul messaggio per se stesso, costituisce la funzione poetica del linguaggio.»7 Pertanto, secondo Jakobson, la lingua poetica tende per sua natura a funzionare al contrario del linguaggio corrente, giacché il discorso poetico è significante in sé in quanto tale e non in quanto si riferisca a realtà e a contenuti esterni. Inoltre, il linguaggio poetico rappresenta la violazione del codice normativo del discorso prammatico e utilitaristico.
Poesia come funzione biologica
Se esiste questo cortocircuito tra poesia e linguaggio ed il linguaggio è il primo e fondamentale momento di astrazione, la prima espressione delle nostre capacità cognitive, la possibile analisi della relazione tra poesia e funzioni biologiche superiori (identificabili con il nostro cervello) non può prescindere dal considerare prima la relazione tra linguaggio e queste funzioni. Se vogliamo essere ancora più drastici, la poesia - come linguaggio - fa parte dell'uomo quale corpo e quale mente, è una funzione biologica dell'essere umano. Riporto le parole scritte da Gio Ferri sulla rivista telematica Karenina.IT: «[…] Con questa ricerca non pensiamo minimamente di esprimere una uguaglianza di linguaggi e di situazioni analizzabili, di eventualità, fra poesia e scienza. Le due culture sono ovviamente distinte, a livello di linguaggio e di metodo (che per la poesia non si dà mai in senso logico). Tuttavia si deve rilevare che, in una concezione unitaria dell'uomo quale soggetto creativo e giudicante, complessivamente sensitivo - fra l'altro partecipe privilegiato della (dis)misura generale dell'universo fisico e biologico - la poesia (e l'estetica in generale) risponde a una condizione di sensibilità e sensualità (e addirittura sessualità) che, superata ogni metafisica, non può trovare le sue ragioni se non nella conoscenza dei meccanismi biologici e cosmologici.» Da queste premesse possiamo formulare una serie di domande: «quale lavorìo, fra sensi, mente e cervello, si sviluppa nell'atto della produzione e percezione poetica? Quale processo biologico si rivela nell'atto di percezione della natura e di metamorfosi del percepito in parola, o segno?»8
Se rimaniamo alla prima domanda, possiamo allora chiederci in un gioco di specchi dove risieda nel nostro cervello la sede biologica della funzione 'poesia' e di quella 'linguaggio'.9 Stando alla neurofisiologia, le strutture cerebrali deputate alla elaborazione del linguaggio nell'uomo comprendono due aree corticali, ovvero la porzione postero-superiore del lobo temporale, denominata area di Wernicke, e la zona posteriore del terzo giro frontale adiacente alla corteccia motrice o area di Broca (area opercolare). La corteccia è l'hardware con il quale ci interfacciamo con il mondo esterno, è preposta all'attivazione motoria e al sensorio, è la sede della razionalizzazione: è infatti la parte più recente (dal punto di vista filogenetico) del nostro cervello, detta anche neocortex. Scendendo di scala filogenetica, troviamo il sistema limbico, il magazzino di tutte le nostre sapienze e di tutte le nostre sensitività, sensualità, e quindi del nostro piacere; è il cervello 'più giovanÈ, che governa anche il mantenimento della temperatura corporea, la pressione del sangue e i livelli di zucchero nel sangue. Ancora più in profondità troviamo il tronco encefalico, la parte più antica del cervello, che, assomigliano dall'intero cervello di un rettile, viene spesso chiamato cervello "rettiliano", residuo delle nostre origini, deposito delle memorie ancestrali, preposto al sostegno della vita, controllando il ritmo della respirazione e del battito cardiaco. Queste due ultime strutture compongono il paleopallio e l'archipallio.
Il linguaggio è espressione delle connessioni superiori che avvengono a livello della corteccia (area di Broca e area di Wernicke integrate con l'area occipitale). Sebbene manchino delle dimostrazioni sperimentali e fisiologiche, secondo quanto afferma la linguistica e la neurofisiologia, la funzione Poesia dovrebbe invece nascere nel sistema limbico-rettiliano, 'prima' della razionalità, dell'uso delle mani e del linguaggio. In altre parole, la 'poesia-linguaggio' nasce nelle profondità del nostro cervello e la corteccia vi pesca abbondantemente per 'utilizzarÈ le risorse energetiche e conoscitive del sistema limbico, per poi strumentalizzarle come linguaggio utilitaristico della società 'civilÈ. La poesia non è - almeno alla fonte, allo scaturire - comunicazione (quella viene dopo, con la corteccia ed il linguaggio), bensì descrizione dell'io ancestrale della specie homo sapiens, probabilmente quello che emerge dal rapporto con la madre/Madre.
Gli archetipi scaturenti da questo incontro possono essere considerati 'engrammi' (dal greco engràpho, "incido") del circuito nervoso limbico-rettiliano. L'engramma è sia traccia mnestica, sia traccia culturale e schema predefinito: un luogo-circuito che nasce dall'archetipo (per eseptazione?). Secondo la definizione proposta nel 1908 dal neurologo Richard Semon nel suo studio Mneme, ciascun evento esperenziale agisce sul cervello lasciando su di esso una traccia: l'"engramma". Oggi per engramma si intende anche uno schema motorio già predeterminato dal sistema nervoso centrale e che corrisponde a un modello preciso dì reazione muscolare responsabile della postura. Aby Warburg applicherà questo concetto alla memoria culturale. Gli engrammi si configurano come immagini di forte impatto espressivo - miti, figure, parole, simboli - sopravvissute nel patrimonio ereditario della memoria culturale occidentale e riemergenti in essa in modo frammentario e discontinuo.
Per riassumere, la funzione poesia-linguaggio-pensiero simbolico può essere comparsa per esaptazione di una caratteristica anatomica legata all'apparato vocale o, a livello neurofisiologico, ad una struttura cerebrale 'profonda' quale il sistema limbico-rettiliano. Poi, la stretta interazione madre-cucciolo ha portato all'emergenza di fonemi primari-suoni, diffusisi in seguito a tutta l'orda.
Conclusione
Queste poche note servono ad indicare che una nuova coscienza della poesia-linguaggio è necessaria. Ed anche a comprendere la trasformazione del linguaggio "poesia" che sta avvenendo nel mondo presente. Antonio Porta ha scritto in proposito: «…lacerando le trame dei linguaggi falsificanti in uso nel campo della informazione, la poesia offre strumenti alternativi di conoscenza inventando "rime e ritmi" in grado di ritardare l'entropia propria dei settori "culturali" del potere (burocratico, giornalistico, filosofico, ecc.)».10 La trasformazione finale della poesia-linguaggio potrebbe essere l'adulazione dell'immagine, che rimuoverebbe l'attenzione dalla realtà primimitiva dell'uomo. In effetti, il vero significato della poesia è quello comunicativo, in primo luogo a livello profondo, della madre con il cucciolo, livello che oggi non è più avvertito.
Possiamo quindi descrivere un percorso che parte, nella filogenesi, dall'engramma "linguaggio-poesia", ed è il primo ancestrale modo di comunicare dell'uomo di centinaia di migliaia di anni fa: il quale viene poi asservito dall'io razionale dell'uomo faber, a fini puramente utilitaristici, di profitto e di consumo potremmo dire; infine, la rivoluzione antropologica a cui stiamo assistendo: l'asservimento del linguaggio al mondo della tecnica e dell'immagine.
Bibliografia
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CARRERA Alessandro, "Lo spazio materno dell'ispirazione. Agostino, Blanchot, Celan, Zanzotto", Fiesole, Cadmo, 2004.
CAVALLI SFORZA Luigi Luca, "L'evoluzione della cultura", Torino, Codice Edizioni, 2004.
FERRI GIO, "La ragione poetica", Milano, Mursia, 1994.
JAKOBSON Roman, "Saggi di linguistica generale", Milano, Feltrinelli, 2002.
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LÉVI-STRAUSS Claude, "Mito e significato", Milano, Net, 2002.
ORNSTEIN Robert e THOMPSON Richard F, "Il cervello e le sue meraviglie", Milano, RCS Libri, 2001.
PRATTICO Franco, "Eva nera", Torino, Codice edizioni, 2007.
SPAGNOLETTI Giacinto (a cura di), "La poesia che parla di sé", Salerno-Roma, Ripostes, 1996.
Biennale di Poesia Anterem, Biblioteca Civica di Verona, 15 Novembre 2008
Questo testo conserva talvolta nella sintassi il carattere di traccia per l'esposizione orale alla quale era originariamente destinato.
L'Altro per eccellenza rispetto alla Filosofia: la Poesia, vera 'amica stellare'. Una lunga tradizione filosofica ci conduce a quest'identificazione dell'amica-nemica: da Platone fino a Heidegger, passando per Leopardi, Hölderlin, la tradizione idealistico-romantica, ecc. Vicinanza-lontananza philosophia-poiesis: poeta e pensatore ("custodi della dimora dell'essere") abitano vicini su due alture separatissime - stanno su due vertici alla stessa altezza, ma divisi. Si tratta della grande lotta interna al dire umano, di un'insistente rivalità che persiste nel corso dei millenni tra le due più alte espressioni della vita umana, poesia e filosofia, le quali da sempre si contendono il primato dello spirito in rapporto al tentativo di esprimere una/la verità. Nessun facile irenismo (l'ovvietà che "ognuno esprime la verità, una parte di essa, a modo proprio, col proprio linguaggio"), bensì lotta, agonismo, rivendicazione di una supremazia (Platone: ribadire la supremazia della philo-sophia, in quanto ricerca, ovvero sapere senza contenuto, superiore alle forme artistiche, così come alle produzioni della techne).
Qui sta la radice del problema (leibniziano-borgesiano, ma anche, tra l'altro, givoniano): filosofia come romanzo? Il romanzo è erede della fabula mitologica, passando per la Sage? E la filosofia è solo una narrazione, cioè un romanzo inconsapevole? Quell'Altro, insomma, è forse lo Stesso, il Medesimo?
In Platone la poesia (tragica) è la grande nemica; sorge qui, sul crinale della più decisiva delle crisi e degli agoni, la «palaia diaphora» (Resp. X, 607 b), l'antico dissidio, l'"antica inimicizia" tra philosophia e poiesis - analoga al "sacro sgomento" col quale Nietzsche stava davanti all'atavica contesa tra arte e verità. Inizia la grande lotta che porta alla cosiddetta "condanna dell'arte" (libri II, III, e, con motivazioni diverse, Resp. X). (Platone riguardo all'arte è molto più provocatorio, più attuale, più produttivo ad es. della Poetica di Aristotele). Chi è il poeta in Platone? Il poeta è un mentitore, un essere policefalo, multiforme, sfuggente come Proteo, un hypokrites: un mimetes. Problema della mimesis (Resp. X) = non tanto imitazione, quanto ri-produzione, cioè ri-creazione (ex novo, di fatto). La somiglianza col sofista è evidente, anche nell'abuso che entrambi fanno della potenza di apate, l'inganno - la psicagogia (II-III Resp.), la teo-logia falsa del mito e dei poeti. Poeta e sofista si sottraggono alla decisione inequivoca per la verità, da una parte grazie ad un relativismo o pragmatismo, dall'altra per la necessità dell'elemento illusorio proprio della coscienza estetica. Mentre la verità non è equivoca, come la congerie mitico-tragica vorrebbe farci credere, bensì univoca, secondo Platone. Nulla esisteva di tanto sottratto al principio di non-contraddizione (e a quasi tutti i principi della logica) come il racconto mitico, la fabula; le varianti mitiche sono dei veri 'compossibili' (a-dogmatismo della mitologia, tolleranza). Platone invece combatte, 'contraddice' apate, la dea Apate, l'Inganno archetipico - Schelling: dal quale ha origine la mitologia - figlia della nera Notte (Esiodo, Teogonia): Ate - Apate - Peithò. Nel testo platonico si attua una vera e propria critica della coscienza estetica, come nota finemente Gadamer (Platone e i poeti). L'esperienza vissuta dal rapsodo, dal poeta, e in ultimo dallo spettatore è già in se stessa - senza aggiungervi necessariamente la menzogna esplicita del detto - corruttrice per l'anima, portatrice di una falsa morale, di un traviamento insano; l'oblio estetico di sé consegna alla facile psicagogia delle passioni squilibranti, fa prendere il sopravvento alla parte irrazionale dell'anima, sovverte le gerarchie conoscitive: perde, disperde l'individuum. La mimesis artistica rende l'uomo doppio e molteplice, introduce consapevolmente in un mondo di finzioni condivise, pretende che si rinunci al sacro potere dell'autocoscienza, della vigilanza. La coscienza estetica ci espropria, portandoci fuori di noi, in ekstasis - come avviene al poeta, l'ape delle Muse che per sorte divina (theia moira) è en-theos e ek-phron (Ione, 534 b-c): nel dio, e fuori dal senno. E tuttavia Platone non può appunto rinunciare alla concezione greca secondo la quale il poeta è anche un essere divino: nel Fedro la mania è un dono divino, ben superiore alla stessa sophrosyne. Nello Ione la 'sapienza' poetica è considerata più vicina alla specie mantica - e alla potenza magnetica. È una theia dynamis, una forza divina a spingere il poeta, come accade per la pietra chiamata magnete; la quale non solo attrae a sé gli anelli di ferro, ma infonde loro una potenza tale che permette di esercitare lo stesso potere, quindi di attrarre altri anelli, in modo da formare una lunga catena magnetica di elementi collegati, partecipanti del medesimo influsso, caduti sotto lo stesso potere. Tutti gli anelli stanno da ultimo appesi al monstruum della Musa, e non è forse questa l'ultima delle ragioni per cui la parola poetica può mandare in perdizione. La Musa è il Magnete originario che rende ispirati, che in primis possiede; la poesia si origina infatti dal dio, conferma Platone, per poi passare attraverso gli entheoi, i posseduti, gli invasati; essi attingono alle fonti del miele delle Muse, portando a noi questi doni come api. I poeti dicono la verità appunto perché sono fuori di sé, "esseri eterei, alati, sacri", la cui mente si è svuotata per esser capace di accogliere il divino: «all'ho theos autos estin ho legon»: ma colui che parla attraverso di loro è il dio stesso. Il poeta è dunque 'solo' un hermeneus, un mediatore ermetico del dio, un vate, un recipiente il cui dono divino consiste nel conservarci le parole dette dagli dèi (Ione, 533 d-535 a). Ermetismo puro è la calamita-calamità della poesia. Ione: finale in cui Socrate chiede al rapsodo Ione se vuol esser detto un uomo ingiusto (adikos, senza equilibrio nell'anima, squilibrato, scorretto), oppure un uomo divino. Questa ambiguità rimane sempre indecisa in Platone. Il poeta cioè ci custodisce e ci trasmette la Parola divina della Musa (cfr. Mario Luzi, altezza della nominazione): e tuttavia il poeta mente. Non solo mente, ma non sa nemmeno dove stia la verità. Paradosso di un uomo divino, e ingiusto allo stesso tempo. Disposizione estetica (ovvero sospensione del 'principio di realtà', disponibilità all'illusione, cospirazione nell'inganno) ed estatica (ovvero svuotamento di sé per far posto alla voce divina, che s'impadronisce dell'anima, del daimon): queste due condizioni spossessano l'autocoscienza e l'equilibrio della psyche, rimuovono momentaneamente la sophrosyne, e sono richieste fino all'ultimo anello. Si deve cedere all'enthousiasmos, cedere alla presenza/parola del dio, disfarsi della mortalità per vivere nel tempo degli immortali, congiunti all'eterno - o almeno per fingerselo, affabulandosi, trasfigurandosi. E tuttavia: questo atteggiamento è giusto? Partecipa di Dike, è conforme all'ordine corretto? Platone non ha dubbi: per l'anima, l'atteggiamento estetico è ingiusto; in quanto parziale, squilibrato, transitorio, ambiguo. Quest'atteggiamento richiede l'ambiguità della mania, fa dell'uomo un burattino degli dèi (o, che è lo stesso, delle sue stesse finzioni). Solo per breve tempo l'uomo sopporta la presenza divina; altrettanto poco dura l'inganno. La condizione del poeta divino è dunque effimera (estremamente inadatta, dannosa per la fondazione di una polis-psyche giusta, armonica, equilibrata: ecco la 'condanna' nella Repubblica). Perché mai svuotarsi della mortalità, dimenticare la sua peculiare condizione, i suoi tremendi, costanti bisogni di appiglio, di misura, di sicurezza? Dovremmo forse comportarci o parlare come dèi? Dovremmo forse perderci nell'informe, nell'indeterminato, nell'aorgico del divino - ins Ungebundene, nell'absolutus? E quale ordine di verità proclameremo, tramite le parole della poesia? Non saranno, queste parole, sempre in contrasto con gli ordini reali-razionali che l'uomo si sforza di creare intorno a sé? E d'altra parte non avranno preventivamente dimenticato l'esistenza di una verità ultima, non affabulabile, scevra da inganno, semplicissimamente intelligibile? In conclusione, per poter essere poeta, bisogna decidere in noi stessi il filosofo. Non bisogna cioè farsi guidare dalla 'volontà di verità', e dall'empietà disincantante che essa comporta, ma al contrario essere disposti a farsi ingannare, a vivere la fabula dell'illusione, a cedere al potere magnetico, calamitante dell'arte. Ma come potrà conciliarsi questo atteggiamento di sospensione estetica con la quieta, trasparente unità dell'essere vero, dell'essenzialissimo monoeides, che non ha bisogno di inganni? È per colpa della poiesis che si è costretti ad affermare l'essere del non-essere, è a causa dell'instabilità che essa insinua che tutte le cose precipitano in uno stato di oscillazione, e che va di conseguenza compiuto il parricidio della dottrina parmenidea (Sofista). L'essere si rivela tragicamente inconciliato, l'armonia è il luogo che manca ai nostri discorsi, e che essi rincorrono come la loro ulteriorità puramente possibile. E nonostante ciò, il poeta è e rimane un essere divino («aner theios», Ione 542 a), per quanto egli sia sicuramente adikos. Le ragioni della condanna dell'arte sono dunque di due ordini: non è solo l'inganno della mimesis che Platone condanna (verso l'alto, per così dire, per motivi ontologici); è anche, specularmente (e verso il basso), il fatto che il sapere poetico è inadatto alla polis, alla sua fondazione, al suo realistico mantenimento. Il tragico è sicuramente la chiave del rapporto tra poesia e filosofia; non è infatti anche quella della filosofia una decisione tragica? Platone lo confessa apertamente: è per poter proseguire nel ragionamento (Rep. X, 608 a), per salvare la potenza razionale del logos (che è forma, ordinamento, distanza, salute), è per far questo che occorre bandire il poeta dalla polis. La sua, quella del filosofo, è la più tragica krisis, la più sconcertante rinuncia, la decisione più cruciale. Per non essere doppio, egli toglie-via, de-cide, rinuncia alla poesia. E la decide in se stesso. È dalla polis della psyche che Platone bandisce il poeta (tutta l'argomentazione della Repubblica è basata infatti sulla stretta e puntuale analogia tra città e anima): ma dopo averne assorbito tutte le capacità, dopo averne bevuto il nettare inebriante fino all'ultima goccia. (Il giovanissimo Platone, il miglior figlio dell'Esperia, bruciò tutte le tragedie da lui composte per poter convertirsi alla filosofia). Ed è con coscienza affilatissima che Platone non vuole più essere poeta. Platone si strappa un pezzo d'anima. Decidere il poeta in se stesso pare dunque essere la tragica condizione per diventare filosofo. Tuttavia, nonostante la decisione di Platone, poesia e filosofia rimangono sorelle, e continuano lifelong a sorvegliarsi. Non a caso entrambe si emancipano, mediante un faticoso procedimento di chiarificazione, dalla radice comune del mythos - radice con cui i conti non saranno mai chiusi - dalla quale divergono già da sempre, discostandosene con l'atto stesso del loro sorgere, in un momento senza memoria, separandosi alla nascita. Poesia e filosofia, da Pindaro ai tragici a Eraclito o Pitagora, iniziano entrambe con una critica al mito (critica che prosegue in Platone, accentuata dalle motivazioni relative alla paideia), o meglio con un tentativo parallelo di catarsi di ciò che nel mito era inaccettabile. La poesia pretende di essere il vero mito, così come il mito è l'anima della tragedia. Anche la filosofia, in un altro senso, pretende di essere il vero mito. Platone 'mitologizza' nel costruire la sua città - il suo è uno Stato nei discorsi, la cui possibilità è data dalla filosofia stessa, dall'ulteriorità possibile che questa indica. Per tacere ovviamente dell'uso esplicito dei miti Se mythos è parola-racconto-discorso, origine muta di tutte le parole, allora entrambe ne partecipano come modi eccellenti di creazione, e le loro parole potranno 'rispecchiare' creativamente quell'indicibile, quell'originale mancante: entrambe funzioneranno cioè per mimesis, per 'imitazione' poietica, per ri-creazione, ri-produzione: entrambe saranno arti mimetico-tragiche, nelle quali la parola vola più alta possibile. Il poeta non potrà più parlare la parola della Musa, il filosofo non si appellerà a nessun fondamento. Tragico è l'(im)possibile ulteriore della poesia, non meno tragico è l'(im)possibile ulteriore della filosofia. E tuttavia: saranno per questo solidali, o addirittura simili? Sarà placata con così poco la loro rivalità? Al di là delle facili e apparenti sintonie tra poesia e filosofia, qui ci si gioca il dominio sulla parte più sublime dell'anima umana: e chi non è straziato dall'aut aut, ma anche dall'insondabile, misteriosissima solidarietà degli opposti, non è degno di esser detto né poeta né filosofo. È questa, scrive Leopardi, la "nemicizia giurata e mortale" tra poesia e filosofia, che ci rende insieme freddissimi ragionatori e ardentissimi poeti, in un'alternanza drammatica di incantesimo per via d'illusione e disincanto. Per questo motivo, pensa il divino Platone, noi filosofi, quando giungeranno in città poeti tragici, i figli delle tenere Muse, gli 'esseri divini', riconosceremo tramite i loro espedienti i nostri antitechnoi, in loro stessi i nostri antagonistai nell'immane dramma della parola, e diremo loro: «Ottimi ospiti, noi stessi siamo poeti di una tragedia (hemeis esmen tragodias autoi poietai) che, nei limiti del possibile, è la più bella e la più nobile; tutta la nostra costituzione non è che imitazione della vita migliore e più bella (mimesis tou kallistou kai aristou biou), il che per noi costituisce in realtà la tragedia più vera (tragodian ten alethestaten). Voi siete poeti, e anche noi siamo poeti del medesimo genere, vostri rivali nell'arte, vostri antagonisti nella composizione del più bello dei drammi (Poietai men oun hymeis, poietai de kai hemeis esmen ton auton, hymin antitechnoi te kai antagonistai tou kallistou dramatos), che solo la vera legge (nomos) può condurre a compimento, secondo la nostra speranza (elpis)» (Leggi VII, 817 b).
Riflessioni pronunciate in occasione della serata di apertura
della Terza Biennale Anterem di Poesia,
il primo ottobre 2008.
Utopia della scrittura
La presenza scalfita della parola nel bianco prima ancora che letta è avvistata: in quanto segna, il segno è innanzi tutto visibile.
La scrittura è iniziale in quanto luogo avvistato dall'occhio.
L'occhio coglie il segno nel bianco, scorge la pagina come interezza, campo e aratura.
La scrittura appare in figura.
Aprire il libro è farsi al balcone dei segni a vedere la pagina panoramica.
La scrittura contiene sempre entro ciò che le è proprio, un progetto di calligramma
che sia palese o implicato.
Il proprio della parola è il senso nel suono, della parola scritta è il senso nel suono visibili.
La scrittura che si fa visiva all'intervento del segno che la mappa e la situa rivela una trama già inclusa nel proprio della parola.
Questo disvelamento è nuovamente iniziale: nel libro inizia il mondo in quanto lo "segna" in mappa avvistando nella pagina la testura e il suo paesaggio.
Nella pagina, in filigrana, ecco apparire il paesaggio. È il paesello vocativo: o paesaggio, tra cui il viandante ambula e scompare.
Innanzi al paesaggio della scrittura che si è fatta visiva dacché ha esplicitato in mappa il suo essere in vista, scorta, avvistata, il lettore è invitato a farsi abitante e viandante.
Qui si esce a salire la linea fino a leggere un nome o si scende dall'altra parte a leggerne un altro.
L'occhio cha sale sull'erta o discende per queste chine, rettilinee figure, geometria di zone, e incontra una parola poi l'altra unite/disgiunte da segni che tracciano pezzature trame, aste, baratri, l'occhio è viandante nel nuovo paesaggio.
Fare abitare la scrittura. L'abitata scrittura.
La visibilità dei segni:
lettere, parole
linee
figure
il bianco il nero
i segni hanno modificato il luogo bianco, vi hanno portato l'inizialità inaugurale della parola e insieme la traccia del suo panorama.
La scrittura che si è fatta visiva è mappatura, catasto e ispezione paesistica. Sopralluogo, in quanto luogo sopra posto e super luogo inclusivo.
Questo scrittura scrive e di-segna lo stare della scrittura innanzi e nel paesaggio.
Rileva e alleva il paesaggio nel noto e nel nuovo.
Questa scrittura è di fronte e affronta il paesaggio.
Affrontare il paesaggio è esserne affrontati.
Lo stare della scrittura nel paesaggio (come lo stallo dei segni in ambiente) è proposta: dialogo ecologico in quanto eco di logos.
Lo stare della scrittura nel suo farsi mappa è perlustrazione e ritrovamento di tracce.
Ritrovare le tracce, calcarle, esplicita la configurazione del paesaggio in quanto luogo umano, per un nuovo umanesimo del paesaggio.
Il luogo fattosi umano contiene nella traccia antropomorfa l'utopia umanistica.
Il paesaggio ha segni parlanti, linguaggio di tracce riconosciute in saluti.
Il fine del segno che si è inoltrato nel bianco lasciando e trovando la traccia è la Natura/Cultura.
Ma lo stallo del segno nel bianco è trauma di un secondo e ultimo avvistamento.
Ecco. Il segno che mappa il paesaggio ne scorge oltre la linea l'oltraggio.
La zanzottiana oltranza-olttraggio, il zanzottiano "ti fai più in là".
È qui in questo eterno profilarsi nel segno, defilarsi dal segno, del luogo umano l'utopia della scrittura.