Massimo Morasso
Appunti sulla metafisica dell'immagine
in Rainer Maria Rilke, Inge Müller e Günter Eich
Per quanto il mondo rapido si muti
come alle nuvole la forma,
ogni cosa compiuta torna
al fondo dell'antico.
I versi iniziali del diciannovesimo sonetto a Orfeo di Rainer Maria Rilke lo dicono a chiare lettere: nonostante il destino di impermanenza del mondo e delle forme che lo costituiscono, oltre il mutamento "ogni cosa compiuta" persiste in un'altra dimensione, in uno spazio-tempo che è posto ab origine, al principio, al "fondo dell'antico". Tuttavia, la capacità, o meglio, forse, il mandato di consacrazione e celebrazione del canto sulla terra che il poeta afferma nella chiusa celeberrima ("Solo il canto levato sulla terra / consacra e celebra"), non gli ha impedito, più indietro nel testo, di affermare che
i dolori non li si è conosciuti,
l'amore non lo si è imparato,
e ciò che nella morte ci allontana
non ha deposto il velo.
Il dolore, l'amore, la morte, "l'allontanamento" di noi a noi stessi e ai nostri cari nella morte, i novissimi laici, cioè, di Rainer Maria Rilke come di qualsiasi altro uomo interrogante, restano avvolti in un enigma insondabile, nascosti dietro al velo di Maya che assedia l'ordine del mondo, e in, quell'ordine, inscrive il contorno esistenzialmente "negativo" della legge naturale della metamorfosi.
Si può aggirare quel velo: puntando coraggiosamente gli occhi al cielo, verso le stelle. Tentando di scorgere, oltre le nuvole, qualche linea di fuga che, una volta ricongiunta nel pensiero, consenta di aprire l'animo all'infinità che aleggia al di là della nostra umana non-conoscenza.
Le "costellazioni" di cui ci parla Rilke giunto al culmine della sua maturità espressiva, cosa sono, dopotutto, se non luoghi di rispecchiamento, forme cave del nostro volto nelle quali ci è dato di imprimere il sigillo di un'astrale nostalgia?
Il "Cavaliere", per esempio, che Rilke evoca all'inizio dell'undicesimo Sonetto e nella più oscura, forse, delle Elegie duinesi, l'ultima - quel lungo respiro meditante di struggente e quasi insopportabile bellezza. O, sempre nella decima Elegia, la chiara M risplendente "che significa le Madri" nominata al termine di un percorso interiore in cui martirio e spoliazione coincidono con una caduca, paradossale felicità.
Il tema della coincidentia oppositorium, così come in ogni cammino mistico, chiama alla comunione simbolica di ciò che è distante. Fra il cavaliere e il cavallo scolpiti in coppia in quel mirabile sonetto c'è una identità che, in realtà, è un'identità nella differenza, e che è il segno, dunque, di un'oltranza ontologicamente irriducibile. E' in questo abisso letteralmente sconfinato che ha luogo il dramma in cui si strema senza fine la tesa, anelante natura dell'essere:
Via e svolta. Ma uno strattone li accorda.
Nuove vastità. E i due sono uno.
Ma lo sono? O non pensano entrambi
solo alla via che percorrono insieme?
Già non ha nome il divario tra tavola e pastura.
Anche l'unione delle stelle mente.
Ma ci rallegri almeno per un attimo
credere alla figura. E' sufficiente.
Eppure, in questo accordo non sembra esserci nessuna verità: perché i due non sono per davvero uno, perché fra tavola e pastura esiste un vuoto senza nome, perché anche l'unione delle stelle è una menzogna. Di un'ipotesi di comunione metafisica non resta adesso, a ben vedere, che la dura realtà di un'accresciuta consapevolezza: la necessità, per noi, dell'illusione. Il che, stando al poeta, deve bastare, poiché "noi siamo da tanto" (il "so weit sind wirs" della seconda Elegia), e a noi è concesso di spingerci fin qui, non oltre: credere, anche soltanto per un attimo, al sogno sovrumano che siamo in grado di concepire quando osserviamo le cose con gli occhi di fuoco dell'imaginatio vera.
Qui come ovunque in Europa, l'esilio e lo sradicamento sono coessenziali alla poesia della trasfigurazione. Non si comprende molto di una tradizione altissima della poesia occidentale (né dell'esperienza interiore che la presuppone) se non si hanno sensi per capire che la percezione della bellezza fa tutt'uno con lo stupore e il trasognamento, e con il senso preciso dell'inattingibilità di quel sacro che, in ogni cosa, permea e custodisce l'intimità del reale. Per poter dire, il poeta deve diventare visione, come l'Atteone di Bruno che negli Eroici furori da cacciatore diventa egli stesso preda.
Questa è la stessa grammatica che detta anche il passo contronatura di Inge Müller, un passo d'angelo caduto, benjaminianamente postumo alle vicende della storia e vicinissimo, piuttosto, alla sur-realtà dello spirito:
io non ho paese tranne uno
non ne ho
non ne vedo
un passo dietro l'altro verso il vuoto
metto il nulla saldamente sotto i piedi
vedo il mio paese dall'inizio: grande
da raccogliere tutte le fatiche
e sollevarle tutte verso l'ampio
e ancora più lontano.
E i miei occhi
mi vedono con i vostri.
Ma è proprio a partire dalla caduta che inizia quel percorso di orientamento à rebour che consente il rendimento di grazie e avvicina al tempo del raccolto, quando tutte le fatiche sfuggono alla presa della ragione calcolante e lo sguardo può esporsi, a propria volta, come un oggetto della visione. Anche se la realtà viene prima della sua nominazione, anche se la vita è più forte dell'immaginazione - come ha scritto Rilke in una lettera tarda, che sembra, del resto, contraddirne tante altre almeno altrettanto "rilkiane" - anche se la storia dell'homo faber e dei suoi tentativi di trovare casa risponde a quel destino di Auflösung cui vanno incontro tutti gli enti nel mondo creato (l'incipit della poesia della Müller suona così: "I paesi prima che li si nomini / vengono edificati, occupati e rovinati"), anche se il vuoto e il nulla in questo nostro mondo sublunare si danno come il viatico necessario (ma niente affatto sufficiente) alla katastrophé, allo strattone che accorda in nuove vastità di cui parla l'undicesimo sonetto a Orfeo. Il vero paese, è il paese dell'inizio. Ed è un paese sconfinato, questa atavica Ur-Land, uno spazio di auto-riconoscimento grande a sufficienza da raccogliere tutte le fatiche umane, e sollevarle, dantescamente, nell'ampio e nell'altezza.
Altrove, neppure accanto al cielo capovolto del sogno c'è salvezza, poiché la visione, sia essa diurna, notturna o vespertina, chiede al veggente uno sguardo inflessibilmente verticale - lo chiama a quello scatto conoscitivo in grazia del quale è possibile bruciare l'assedio delle immagini traendo profitto, nello spirito, dal doppio incontro della natura e dell'uomo:
Uccelli, in cerca di mangime,
trattengono la tua immagine sulla retina.
La portano ai lupi nella macchia,
dove si prepara l'alta marea
e si riuniscono gli squali.
La sera ti
rassicurano i tramonti
e la gentilezza
che accende le finestre.
Ma tu sai quali palpebre
si sono aperte oltre le luci verdi.
Le vie d'uscita sono sorvegliate.
Giocalo a dadi, ora che sei circondato,
contalo sui rami davanti alla finestra,
leggilo nelle linee della mano:
chi ordina l'attacco
ha a cuore anche la tua salvezza.
I lupi al mattino perdono le tue tracce nella neve.
Con un'inversione dei termini consueti del rapporto di conoscenza fra uomo e animale, in questi versi di Günter Eich sono gli uccelli, e i lupi, a trattenere l'immagine dell'uomo, non viceversa. All'uomo, con un gesto che avvicina il disilluso, lucidissimo Eich-Atteone al giovane morto della decima elegia di Rilke, tocca, piuttosto, il difficile compito di prendere per intero su di sé il peso della minaccia che lo circonda. In Assedio (suona così, con un laconismo che dà i brividi, il titolo della poesia) il palcoscenico interiore non è, in fondo, che l'esecuzione di una riconciliazione. Esposto alla visione, l'osservatore è diventato infatti il campo e l'esecuzione di un processo trascendentale. Più precisamente, si è trasformato in scena dove la naturalizzazione dell'umano e l'umanizzazione del naturale avvengono davanti ai nostri occhi nell'incontro del poeta con l'altro, con il vivente selvaggio, con il disumano in sé e fuori di sé che percorre e alimenta anche il suo sangue - con l'orrido, dunque, che seguita a pullulare nel vivo dal rilkiano "fondo dell'antico" come un'inevitabile, suppurante eredità. Al di là del lascito di un'ansiogena, allucinata ipercoscienza ("Ma tu sai quali palpebre / si sono aperte oltre le luci verdi. / Le vie d'uscita sono sorvegliate"), in questa scena insieme umana e sub-umana non resta, dunque, che il gioco inevitabilmente in perdita dell'inseguimento degli indizi terrestri, l'opportunità / ossessione di leggere le linee della vita entro un disegno antinomico di senso:
Giocalo a dadi, ora che sei circondato,
contalo sui rami davanti alla finestra,
leggilo nelle linee della mano:
chi ordina l'attacco
ha a cuore anche la tua salvezza.
Giocalo a dadi, ora che sei circondato,
contalo sui rami davanti alla finestra,
leggilo nelle linee della mano:
chi ordina l'attacco
ha a cuore anche la tua salvezza.
I lupi al mattino perdono le tue tracce nella neve.
Ma a noi, alla fine, cosa importa che le forze ricondotte alla sovranità diurna dell'io sospendano il gioco al massacro fra spirito e natura se il destino delle immagini sta nella nostra impossibilità di accedere, per rivelazione, a quel mistero del quotidiano in cui si cela il segreto della nostra stessa vita?
n.b. I testi tradotti (integralmente o solo parzialmente) in questo scritto sono tratti da Rainer Maria Rilke, Sonette an Orpheus, in Samtliche Werke, Insel, Frankfurt am Main, 1955 sgg.; Inge Müller, Wenn ich schon sterben muB, Luchterhand, Darmstadt und Neuwied, 1986; Günter Eich, Botschaften des Regens, Suhrkamp, Frankfurt am Main,1955.
Riflessioni pronunciate durante la terza edizione della Biennale Anterem di Poesia
Sin da Scritti nomadi (Anterem 2001), la mia riflessione ha sviluppato alcuni punti nodali, ribaditi nel frattempo su rivista e organizzati in modo sistematico nel mio prossimo saggio dal titolo Senza riparo. Poesia e finitezza, la cui uscita è prevista per la tarda primavera. Questa relazione ne riprenderà schematicamente uno, sperando che ciò sia utile ai presenti.
L'auspicio ci porta immediatamente nel cuore della questione, che potrebbe essere tradotta nella seguente domanda: se l'uomo, per natura, cerca l'utile di ogni cosa, quale sarà quello chiesto alla poesia? Il cannone spara, il secchio contiene, la penna scrive; alla poesia quale azione compete? Evidente che la poesia non è un bene strumentale, anche se può essere usata per divertire, commuovere, educare eccetera. Essa è un bene strumentale solo in seconda istanza, qualora l'uomo abbia deciso di utilizzarla, di sottometterla alla propria volontà. Quante poesie patiscono questa sorta di schiavitù! Tuttavia, così come sappiamo che l'uomo non è strumento di un altro uomo, dovremmo interrogarci sulla più autentica natura della poesia e chiederci, ancora: a che cosa serve la poesia? A rispondere, ci può aiutare una frase di Osip Mandel'štam: «La poesia è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili». Essa li rimette in circolo tra le sue maglie più esposte, in quel ruvido che è il testo, con tutte le sue pieghe visibili e invisibili. Se coniughiamo questa metafora con le acquisizioni della filosofia di Jean-Luc Nancy potremmo affermare che la poesia non soltanto ara e rivolta il tempo, bensì è il tempo stesso nella sua feconda imprevedibilità, nel suo tumultuoso venire allo scoperto. La poesia è il tempo presente che, spazializzandosi nel testo, declina la nostra singolarità, giocandola in uno scarto che ci tiene sensatamente nell'aperto del mondo. Così operando, essa dispone (e indispone) affinché il senso del presente non si chiuda, e lo fa senza volerlo, senza saperlo. Per dirla con Leopardi, essa «rivitalizza» il presente, ma non lo fonda, non lo trattiene, lo rilascia invece nelle pieghe della sua superficie, in tutta la sua complessità.
Ciò che il poeta conosce, di tutto questo, è la vertigine di quel trattenere senza proprietà, che è pensiero ossia dialogo - senza riparo - della singolarità con la parola che avanza, che chiama alla responsabilità dello stile. Per questa ragione, scrivere poesie non significa additare qualcosa che si ritiene vero, conoscendolo attraverso il doppio cappio della nominazione e del metodo, bensì si concretizza nel lasciar-essere ciò che siamo nella sorpresa che questa esposizione comporta, uno stare adesso e qui eppure dis-locati, padroni di una tecnica, eppure in balia di una creazione, che tiene in prossimità e declina, nello stile, corpo e mondo, affettività e ragione, passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle tradizioni entro il cui orizzonte (plurale) noi operiamo. Scrivere una poesia è difficile appunto per questa insopportabile pressione, a cui lo stile dà forma, ma in un modo che toglie all'identità qualsiasi pretesa di dominio, pur costringendo la parola entro uno spazio - quello letterario - già parzialmente deciso. Ogni poesia insomma rilanciando libertà e giogo, fa parola del luogo terrestre in cui la finitezza si gioca senza resto. Detto in altri termini: nei ritmi, nei sintagmi, nei suoni, nelle cose che la poesia nomina o tace, pulsa uno sfondo, un'ombra reale, palpabile, che dice il proprio dell'autore nonostante l'autore. In questo senso, l'opera è l'esercizio stesso dell'esistenza quando si scopre finita, esercizio che trattiene, non soltanto l'indicibile e l'inconfessabile dell'autore, ma anche quanto egli stesso non può conoscere, mostrandoli tutti in un mascheramento (effetto della «resistenza», della «rimozione» e delle «proiezioni», per usare una terminologia psicoanalitica), che non può essere evitato e che dà luogo a un proficuo fraintendimento - in cui è coinvolto anche il lettore, con le sue «resistenze» - sul quale si giocano la complessità e la pluralità dell'interpretazione.
Sotto il profilo antropologico, tale acquisizione ci spinge a credere che la poesia non serva né a denunciare l'ingiustizia né ad alimentare il "mistero del poeta", bensì a mettere in opera le forze che hanno mosso e muovono l'uomo sin dapprincipio: la paura dell'altrove ma anche, nel contempo, il tentativo di esorcizzarla; il desiderio del centro, quale luogo del sacro e la consapevolezza che ciò costi sovrumane miserie; il bisogno di rifondare il tempo profano, ritualizzandolo, e il sospetto che nulla possa sottrarci alla deriva della caducità.
Pensare la finitezza e lasciarla essere disseminandola nella scrittura significa, inoltre, togliere l'inganno che l'origine sia qualcosa di praticabile; il ché comporta vivere l'erranza (e la scrittura) senza nostalgia per il ritorno. Se c'è origine, infatti, essa è già da sempre perduta (Nancy) e, comunque, anch'essa - se davvero, come scrive Martin Buber, la relazione originaria è io-tu - non è identità, bensì porta con sé il proprio essere-differenza, l'inconciliabilità e l'incomprensibilità dell'accadere rispetto alla coscienza che vorrebbe fissarlo univocamente. Ciò comporta il fatto, la prassi, che noi siamo già sempre nella verità della presenza, in un qui la cui temporalità custodisce il disagio della smemoratezza dell'Inizio e l'ottimismo del muoversi-verso il luogo in cui già siamo. Un ritornare a casa che non ha le caratteristiche dell'uscire dall'inautentico, come molta scrittura contemporanea lascia intendere, bensì la forza dell'approfondire il proprio luogo, quello stare in posizione singolare plurale che è già sempre comunità e che ci costituisce in quanto mortali parlanti.
La parola, non il termine (Leopardi). La parola non solo il linguaggio. Il linguaggio, la comunicazione, con molte altre cose, lo condividiamo con gli animali, api incluse. La parola da dire, no. Il dire, ha il potere di racchiudere in sé suono+immagine+tatto+olfatto+
Si fa una sostituzione, è al posto di. È potenza immane e infinita miseria. Nasce dalla deprivazione o dall'eccesso e ci restituisce il mondo, ma non è il mondo. La parola è la prima realtà virtuale inventata dall'uomo. Nelle parole ci sono le cose e la loro privazione. L'uomo che le percepisce e la sua distanza incolmabile dal mondo, da sé e dagli altri. Il tempo e il niente, lo spazio e il vuoto. In questo scarto: lacerazioni, estraneità e una lontananza dolorosa ma che può anche essere ricompensa e, come per i romantici, ironia e gioco. Nella parola c'è la vita e c'è la morte. In principio erat verbum. All'inizio dell'umanità, della storia dell'uomo, della precaria condizione umana, condizione di un particolare tipo di sofferenza, è la parola. E in fondo, alla fine e au fond, c'è la scrittura. La parola-immagine, un pugno di cenere. La poesia è la fenice che rinasce dalla sua cenere, questo inesauribile principio senza fine e senza inizio.
Chi sei, quando, da dove vieni? Ai confini del tempo, ai limiti dello spazio, sui margini, lungo i bordi, tra le lingue: «se pareba boves/alba pratalia araba/albo versorio teneba/negro semen seminaba» (Indovinello veronese, VIII secolo). Che cos'è, che cosa vuol dire questa scrittura meticcia, confinaria, reclusa nella polvere di una biblioteca per secoli? Significa scrittura, il suo gesto, i suoi attori: le dita (boves), la penna (albo versorio), l'inchiostro (negro semen), la sua scena, la pagina bianca (alba pratalia). Così ri-nasce una letteratura da una catastrofe politica, economica, sociale, linguistica, fondandosi sulla sua misera ma inestirpabile, autobiologica tautologia: ai confini dell'età di mezzo (media tempestas), ai confini del latino e dell'italiano (né l'uno né l'altro, sia l'uno sia l'altro), con un indovinello metalinguistico, dotto e infantile, una domanda su che cos'è. La risposta è il dire del suo farsi nel fare nel suo dirsi: gesto del contadino che ara e semina.
La parola affiorata, letta, ri-scritta, che prima o poi precipita e affonda nel bianco naufragio della pagina, nel silenzio dell'afasia, una parola svestita, scandalosamente nuda, sola davanti a se stessa, vuota come conchiglia, leggera come piuma o pesante come sasso: «cette blancheur rigide/dérisoire/en opposition au ciel». (Mallarmé, Un coup de dés jamais n'abolirà le hasard).
Ritorna come gesto primordiale, l'atto elementare e fondante della creazione, tracciare con un dito una striscia che diventa vena, arteria, torrente, fiume, mondo: «In quel muro in quel foglio/nell'area bianca che la tua mano cerca/il mignolo bagnato nell'inchiostro/sopra strisciato con fiducia/azzurro corso d'acqua rapinoso/vena arteria in cui scorre/a occhi chiusi il mondo». (Creazione, Bartolo Cattafi, Segni, Scheiwiller, Milano 1986, p.19).
«Foglio bianco/come la cornea d'un occhio./Io m'appresto a ricamarvi/un'iride e nell'iride incidere/il profondo gorgo della retina./Lo sguardo allora/germinerà dalla pagina/e s'aprirà una vertigine/in questo quadernetto giallo». (Valerio Magrelli, Ora serrata retinae, Feltrinelli, Milano 1980, p.49). Con Magrelli la scrittura incide lo sguardo nella pagina che scrive. La possibilità di vedere innesca un risucchio, gorgo del caos e di una ri-nata vita della parola da dire, pronunciare.
Orazio: ut pictura poiesis. Leonardo: «La pittura immediate ti si rappresenta con quella dimostrazione per la quale il suo fattore l'ha generata, e dà quel piacere al senso massimo, qual dare possa alcuna cosa creata dalla natura. E in questo caso il poeta, che manda le medesime cose al comun senso per la via dell'audito, minor senso, non dà a l'occhio altro piacere che s'un sentissi raccontare una cosa. Or vedi che differenzia è da l'udire raccontare una cosa che dia piacere a l'occhio con lunghezza di tempo, o vederla con quella prestezza che si vedeno le cose naturali.» (Leonardo da Vinci, Aforismi, Giunti, Firenze 2004, p.134).
Pittura, società delle immagini e dello spettacolo (cinema, tv, internet) = immediatezza, istantaneità, presente. Poesia = lunghezza di tempo, mediazione vista-udito. Un'altra lingua: «Writing was to build on paper;/To speak was to make things out of air,/To see was to take light, and shape it/Into something that was never there». (Another Language, Patrick McGuinness, in Poesia n.213, p13). Tradotto da Giorgia Sensi: «Scrivere era costruire su carta;/Parlare era fare cose con l'aria;/Vedere era prendere la luce, e darle forma/Di qualcosa che non c'era mai stata». (Un'altra lingua, ibidem).
Si chiede Celan: «Forse - è solo una domanda - forse la Poesia, come l'Arte, raggiunge assieme a un io dimentico di sé quell'alcunché d'arcano e straniato, e si rende - ma dove? ma in che luogo? ma con che cosa e in quanto che cosa? - si rende nuovamente libera?» (Paul Celan, La verità della poesia, Einaudi, 1993, p.11). E riallacciandosi al Lenz di Büchner, Celan trova una risposta nel respiro, cioè ritmo che va e viene, voce che si ferma e si protende in avanti, e nella figura, luogo di tutte le metafore. In questa direzione «il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. » (Celan, idem, p.16). La poesia scrive il poeta (Barthes). Attraverso questo sguardo le immagini si staccano da sé. Come nella gnoseologia epicurea, ci vengono incontro, non siamo noi a vederle, ma loro a catturarci: "guardano nei nostri sguardi". E viventi parole-simbolo ci «observent avec des regards familiers» (Baudelaire, Correspondances). Parole profumate «comme des chairs d'enfants/ Doux comme les hautbois, verts comme les prairies».
L'Altro significa «il sin qui taciuto» ovvero «l'antiparola, la lingua muta delle cose» (Flavio Ermini, Antiterra, I libri dell'Arca-Joker, Novi Ligure, 2006, p.27). Il partito preso delle cose (Ponge) che ci apostrofa. «È così che accade: il poeta è chiamato a incidere il respiro nella parola scritta, a seguire il respiro in cui la sua parola nasce e nascendo non è più sua, come egli non è più l'io, ma l'Altro.» (ibidem, p.28).
Il testo come anamorfosi, de-formazione in cammino: il senso cambia, a seconda del punto di vista, come il teschio ai piedi dei due diplomatici di Holbein. A sinistra è confusa tavolozza piatta, piena di colori, di luci e di ombre insensate, a destra diventa un teschio, simbolo della vanitas. Significazione.
Sotto la superficie, covano altre forme.
Riflessioi pronunciate durante la terza edizione della Biennale Anterem di Poesia
Interrogarsi sulle ragioni del testo poetico - come chiede la rivista Anterem nell'occasione della III Biennale della poesia 2008 - presuppone la domanda radicale su quale sia il logos, che si comunica e si trasmette nel poema.
Logos, per il pensiero europeo, significa, principalmente: manifestazione di pensiero, discorso sviluppato secondo certe regole, racconto, ragionamento, calcolo, relazione, proporzione, misura.
E il testo poetico certamente è manifestazione di pensiero e di linguaggio secondo certe regole. È l'esito di un contare-raccontare. È il frutto di un ben preciso calcolo. E, nel suo essere qualcosa di formato - ogni poesia ha una forma - i suoi elementi si relazionano reciprocamente e si dispongono secondo certe proporzioni, che gli conferiscono la sua misura. Infine, ma non da ultimo, è l'effetto di un misurare.
Diciamo subito, allora, che, in modo eminente, nel poema, si confrontano - in una sorta di contraccolpo, però- le ragioni del discorso, della relazione, del calcolo e della misura.
Schelling sosteneva che, in generale, l'opera d'arte scaturisce dall' unità indissolubile di ars e poesia, laddove l'ars è la téchne, ovvero quel produrre consapevole, che muove dall'intelletto e richiede visione, educazione ed abilità e consiste, come diceva Aristotele, nel calcolare e "nel ricercare con l'abilità e la theoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci".
Ma la téchne, da sola non produce bella arte. C'è bisogno anche di ciò che Schelling chiama "poesia", la quale è legata all'evento, è un dono imprevedibile, che può provenire solo da un'entità sovrumana, da un dio o un demone: "Incapace di poetare è il poeta, se prima non sia ispirato dal dio e non sia fuori di senno, e se la sua mente non sia interamente rapita."(Platone, Ione, 533e).
Anche se da solo, tuttavia, anche questo dono divino non basta. Come scrive Aristotele nella Poetica, se l' ergon artistico è frutto di un "movimento da altro ad altro", in quanto tale richiede di necessità l'esercizio della téchne, la quale comporta quello sguardo capace di abbracciare un tutto, di cui parla anche Hölderlin.
Anche se, affinché l' illimitata enérgeia della divina follia possa raggiungere l'uomo ed installarsi per un attimo nella sua anima, possedendolo, si deve dare una conditio imprescindibile: lo spalancarsi di una distanza abissale e incolmabile.
È ancora Hölderlin a sottolineare come i poeti e gli uomini eccellenti debbano " riconoscere distintamente e spassionatamente la distanza tra loro e gli altri"
Eppure, per lo stesso Hölderlin, "Noi siamo un dialogo(Seit ein Gespräch wir sind)" e "udiamo l'uno dell'altro" e la poesia non è altro che questo colloquio tra l'uno e l'altro. Noi siamo sì in un dialogo, ma tra i dialoganti, tra 'io' e 'tu', tra i comunicanti, tra A e B, si spalanca una distanza infinita. Un'inviolabile distanza infinita, che la poesia non può che presupporre e custodire. Se non fosse così, la theia manía non irromperebbe mai nel mondo degli uomini e il "gran demone" di Eros, l'unica divinità rimasta accanto agli uomini da quando essi divennero mortali, si eclisserebbe lasciando i parlanti del tutto incapaci di fare qualsiasi esperienza1.
Eros è, infatti, colui che ci spinge ad andare incontro al mistero dell'Altro, dell'assolutamemnte Altro.
Se allora la poesia è misura, essa misura l'incommensurabile. Se la poesia è rapporto, essa relaziona degli assolutamente differenti. Ma che significa questo? Non la banalità secondo la quale la poesia direbbe - in qualche modo - l'indicibile.
Se ciò che non può essere calcolato è il "senso vivente", è la pura vita, das blosse Leben, calcolarlo poeticamente non significa affatto darvi una misura. Come si potrebbe mai porre un limite all'incommensurabile?
Semmai il misurare poetico allude al gesto di un toccare l'infinito trascorrere del senso, in un "dire esatto", accordandolo secondo la giusta voce(Stimme), secondo un "giusto tono". Né più, né meno.
Ma questo esige, secondo J.L.Nancy - mi riferisco al saggio Calcul du poete - lo spezzare ciò che procede e si prolunga indeterminatamente. Spezzare la via del discorso. Comporta interrompere il prolungarsi della "successione ritmica", nel "controritmo" di un taglio. Di un taglio netto, preciso esatto. Insomma (come dice Nancy): "Il corso del senso deve essere interrotto affinché il senso abbia luogo"2.
Nancy non lo cita esplicitamente, ma, nel dire quel che dice a proposito del "calcolo del poeta", deve avere presente non solo Hölderlin, ma anche Paul Celan.
Che cosa scrive, infatti, Celan sin dalle primissime battute di der Meridian?
L'Arte, da parte sua, forma l'oggetto di una conversazione, "la quale(…)potrebbe essere continuata all'infinito, se non accadesse qualcosa". Ma "qualcosa accade"3
Celan qui si dimostra, in fondo, schellinghiano. L'arte non può che affidarsi al logos come discorso, ragionamento, racconto. L'opera nasce immersa nei discorsi. E non può che presupporre la tendenza del discorso a prolungarsi all'infinito come conversazione tra un 'io' e un 'tu' o un 'voi'. Ma la sua poesia si dà quando "qualcosa" accade. Quando qualcosa inter-viene, nel senso letterale, "mentre dura la conversazione", imponendosi "brutalmente".
È proprio in quest'attimo che scatta il calcolo del poeta, ovvero di qualcuno, di "uno" - di una non-persona - che, come scrive Celan , "ode e tende l'orecchio e guarda", ma non sa di che si è parlato, per quanto egli "sente il parlante, lo 'vede parlare', ne ha percepito il linguaggio, la figura(Gestalt), e, allo stesso tempo(…)allo stesso tempo anche: il respiro(Atem), il che significa direzione e destino"4.
In tal senso, la poesia "può significare una svolta del respiro"5: Atemwende (che è anche il titolo di una raccolta di poesie di Celan stesso pubblicata nel 1967).
Ma ciò che improvvisamente e inopinatamente accade, interrompendo il discorso e spezzando la conversazione, è una parola che non è più parola, nel senso che è phoné di un "pauroso ammutolire", il quale "toglie(…) il respiro e la capacità di parlare".
Eppure proprio qui, in quest'attimo, dice Celan, "il volto di Medusa si atrofizza" e, "per un breve istante" "forse fanno cilecca anche gli automi" dell'Arte.
Da ciò la domanda che Celan pone:
Forse è a partire da questo punto che il poema è se stesso… e ora può percorrere, in questo modo anartistico ed emancipato dall'Arte, le proprie altre strade, dunque anche le strade dell'Arte -percorrerle più e più volte ancora?
Forse. 6
Dunque la Poesia presuppone l'Arte, per poi trovare la sua direzione, il suo meridiano, il suo respiro, il suo destino, percorrendo di nuovo "le strade dell'Arte".
Ma in mezzo, "tra"(zwischen) il punto di partenza e il punto di arrivo - che sono e non sono lo stesso - sta il calcolo del poeta, il quale coglie sinotticamente con lo sguardo, con "assoluta determinatezza" (Hölderlin) un tutto e, da non-persona, tende l'orecchio e vede il parlare nella sua Gestalt e ne percepisce, in controritmo, il respiro: un respiro che può essere anche affannoso o quasi impercettibile per carenza di fiato. Scrive, infatti, Celan: "il poema rivela ed è innegabile, una forte inclinazione ad ammutolire"7.
Eppure il suo calcolo esatto dell'apeiron incommensurabile interrompe violentemente un discorrere, la continuità dell'arte della conversazione, la quale proseguirebbe ad indefinitum, se non accadesse qualcosa. Ma qualcosa accade.
Ma che cosa propriamente accade?
Per Celan l'evento di ciò che accade, è già accaduto, è un già accaduto, di cui la poesia, ogni poesia, deve ogni volta riappropriarsi produttivamente (uso apposta un'espressione heideggeriana), sempre di nuovo, immer wieder.
Che cosa è accaduto? Celan vi allude con una semplice data: il 20 gennaio, la quale corrisponde al 20 gennaio 1942, quando fu decisa la "soluzione finale".
Badate. Qui non si sta dicendo affatto che dopo Auschwitz non si può più fare poesia. Questa sentenza aveva profondamente irritato Celan, il quale sostiene esattamente il contrario: il 20 gennaio è il segno estremo dell'evento dell'interruzione, di ogni violenta interruzione che spezza la continuità del discorso, a prescindere dalla quale non vi sarebbe alcuna poesia.
Come aveva scritto nel 1934, rivolto a tutti i "figli d'Europa", E.Levinas (nell'articolo intitolato Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo8), il nazismo non fu né un'inconsulta esplosione di follia, né una "contingente anomalia" della ragione europea, né un'accidentale deriva ideologica."9.
L'hitlerismo è, a pieno titolo, una filosofia, alla quale "ogni buona logica può condurre"10. E il "Mal élémental" scaturito dal nazismo fu una "possibilità che si inscrive nell'ontologia dell'essere che ha cura d'essere(…) secondo l'espressione heideggeriana"11 . Esso è uno dei possibili frutti del pharmakon( in senso forte) della filosofia in quanto comunicazione e trasmissione del pensare. È pienamente frutto dell'intrinseca natura duplice ed ambivalente del suo logos, allorché il suo discorso e la sua conversazione si fanno iper-comunicazione e iper-rappresentazione.
Per rispondere ad Adorno, Celan scrisse un apologo: la Conversazione nella montagna. Ma la risposta era contenuta già in der Meridian. L'ammutolire di ciò che improvvisamente e inopinatamente interrompe il fluire di ogni discorso e spezza la conversazione è un "pauroso ammutolire". Il "qualcosa" che accade e interviene "mentre dura la conversazione" si impone "brutalmente". Che cosa mai ci sta dicendo Celan?
Che il calcolo del poeta che spezza il corso del senso affinché del senso abbia luogo, è imprescindibile dalla violenza.
W.Benjamin - un autore che certamente influenzò Celan - nel saggio del '21 intitolato Zur Kritik der Gewalt12, parla della violenza come di una diade, dalla natura unoduale. Vi è la violenza in quanto pura e divina e la violenza impura e mitica. Mentre la prima - quella pura e divina - lacera, sovverte, uccide e annienta in maniera incruenta, a favore della continuità della vita e per la salvezza della vita, la seconda, invece, - quella che determina le espressioni umane, troppo umane di violenza - è cruenta e si rivolge contro das blosse Leben, contro la pura vita, giacché, per essa, il vivente è solo un mezzo in vista della realizzazione dei propri fini, che sono fini strumentali, produttivi, comunicativi, iper-rappresentativi.
L'esclusione della violenza pura e divina comporterebbe la totale eclissi del sacro da un universo, il quale diventerebbe, per citare ancora Lévinas, un mondo irrimediabilmente "pagano", ovvero un mondo totalmente ripiegato nella sua chiusa e astratta immanenza, e quindi del tutto inospitale, privo di trascendenza, privo di distanza. Privo di esposizione al Fuori di una assoluta estraneità.
È lo stesso Celan ad affermare che l'interruzione, la svolta del respiro, die Atemwende, può far sì che la poesia si apra e apra verso l'assoluta Estraneità, consentendo di "distinguere tra estraneità ed estraneità".
Ma se vi sono due forme di estraneità - quella della relazione tra ente ed ente nel senso della differenza e la pura Estraneità dell'assolutamente Altro - non vi sono due forme di violenza. La violenza è una. Non vi sono affatto due forme opposte di violenza, quella divina e quella mitica, quella pura e quella impura. L'una non la negazione dell'altra o l'alternativa all'altra, nel senso logico del termine.
Impostare la "critica della violenza" in tali termini logico-oppositivi dell'alternativa e della negazione, significherebbe aver già predisposto le condizioni per l'assolutizzarsi della violenza impura e umana, nella totale chiusura e immunizzazione nei confronti dell'eventuale irrompere della violenza divina, a prescindere dalla quale non vi sarebbero né distanza, né trascendenza, né assoluta estraneità. Ma la violenza pura e divina - che destituisce, interrompe e provoca l'autodistruzione di ogni ordine, di ogni nomos, di ogni ordine, di ogni logica, di ogni processualità, di ogni discorso, di ogni conversazione - di per sé è inconoscibile, irriconoscibile, indeterminabile, assolutamente imprevedibile nella sua eventualità.
La violenza mitica e impura è la violenza catturata e declinatasi secondo gli scopi, i codici, le logiche e le tecniche della parola logico- comunicativa, alla luce dei quali, come scriveva Benjamin, "il mezzo della comunicazione è la parola, il suo oggetto la cosa, il suo destinatario un uomo".
Il saggio benjaminiano del '21 va letto, infatti, in controluce con lo scritto dello stesso autore, del 1916, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini13.
La storia e le relazioni all'interno delle comunità umane sono dominate da quella cattiva astrazione della forza - il cui effetto è appunto ciò che Benjamin chiama violenza "mitica e impura" - la quale va di pari passo con l'imporsi e la tendenza ad ipostatizzarsi ed assolutizzarsi della dimensione logico-semiotico-comunicativa della lingua. Il compimento di tale tendenza, come ha messo in luce Nancy, è il totale annientamento di ogni componente simbolico-rivelativa del linguaggio nel trionfo globale dell'iper-rappresentazione, cui, per Celan, rinvia la data del 20 gennaio.
E allora non è vero che dopo Auschwitz non è più possibile scrivere poesie.
Il pericolo insito nel farsi impura e troppo umana da parte della violenza si annuncia all'occidente già con l'apertura universale del senso incontrovertibile dell' epistéme (come sostiene lo stesso Severino), la quale - come potenza anticipante tesa a rendere prevedibile l'imprevedibile - sta a fondamento dei calcoli tanto della ratio tecno-logica, quanto dei moderni saperi scientifico-settoriali. Con ciò l'imprevedibilità dell'evento - il fatto che sempre qualcosa accade spezzando la continuità di ciò che procede - viene preventivamente annullato dal progetto tecno-scientifico che lo pre-assoggetta e lo pre-uniforma ad un determinato orizzonte dato di significato. In questo modo, come scrisse Derrida, viene meno la possibilità di ogni "ospitalità incondizionale". Nel senso che l' eventualità dell'evento viene preaddomesticata, "naturalizzata", normalizzata nel procedere del discorso e nel fluire della conversazione. Si fa astrattamente arte(nell'accezione di Celan).
Al cospetto dell'evento, però, c'è, però, calcolo e calcolo. Vi è la dimensione dominante logico-tecno-scientifica del calcolo, che conduce all'iper-rappresentazione e all'imperversare dell'umana violenza solo ed esclusivamente distruttrice. Ma vi è anche il calcolo del poeta. Il quale non si astiene dalla violenza tout court, non può astenersene. Il poeta semmai asseconda quella violenza di cui parlò Nietzsche, in Umano, troppo umano, quando si riferisce ai filosofi come a quegli uomini "non saggi" e imprudenti, i quali sono "educatori" nella misura in cui arrecano violentemente una ferita agli individui e alle stesse comunità, in modo che "proprio in questo punto ferito e diventato debole, viene per così dire inoculato qualcosa di nuovo(…); la sua forza deve essere, però, in complesso abbastanza grande da accogliere nel sangue e assimilare questo che di nuovo."14
Le azioni poetico-artistiche, come mostra con particolare evidenza il secondo '900(dopo gli orrori della guerra), nel loro produrre lacerazioni, tagli e interruzioni, che hanno profondamente a che fare, con la vita degli individui e delle comunità - sono azioni violente.
Eppure, nel caso del poeta, dell'artista, tali azioni che "producono ferite o utilizzano le ferite che il destino produce" consentono che "qualcosa di buono e di nobile può anche essere inoculato nei punti feriti", in modo che "tutta la sua natura lo accoglierà in sé e farà sentire più tardi, nei suoi frutti, la nobilitazione."15
È a partire da questo punto che, dice Celan, "il poema è se stesso"?
Ciò che è indubitabile è che il poema - il quale "tenta di percepire la figura nella direzione"16 - è se stesso in quanto si colloca e ci colloca, dice Celan, "dentro l'incontro - dentro il mistero dell'incontro"17. Nel suo tendere all'Altro, all'assolutamente Estraneo. "Lo va cercando". "E vi si dedica", in modo tale che "ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l'Altro, è figura di quest'Altro."18
Dopo Auschwitz, nel calcolo del poeta - la cui azione lacera e ferisce - l'immane e impura violenza del 20 gennaio si riscatta nell'evento, che spalanca le porte alla forza del demone di Eros, che ci chiama e ci accompagna dentro "il mistero dell'incontro".
E così la lingua si purifica. E in questo "miracolo" sta la più profonda ragione del poema.
Romano Gasparotti insegna Ontologia fondamentale presso la Facoltà di Filosofia dell'Università "Vita e Salute"- S.Raffaele di Milano e Fenomenologia dell'Immagine presso l'Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano. Collaboratore di molte riviste di carattere filosofico ed estetico, è(con M.Donà) il curatore dell'opera postuma ed inedita di Andrea Emo e ha pubblicato numerosi libri sulla filosofia antica, sulla filosofia della politica e su argomenti di carattere estetico-artistico, tra cui Le forme del fare(con M.Cacciari e M.Donà), Liguori, Napoli 1987, Movimento e sostanza. Saggio sulla teologia platonico-aristotelica, Guerini, Milano 1995, I miti della globalizzazione, Dedalo, Bari 2003, Filosofia dell'Eros. L'uomo, l'animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Il suo ultimo libro è Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007.
Sul tema della filosofia dell'eros è autore e protagonista di Imeros. "quando Amor mi spira, noto" recital teatrale di letture, immagini e musiche originali .