Poetici bisogni
Nel caso di “Bisogni”, di Davide Campi, testo pubblicato sul n° 73 di “Anterem”, si è in presenza di una complessa composizione (trentacinque versi suddivisi in sette parti) in cui il susseguirsi degli articolati, enigmatici, costrutti obbedisce ad esigenze interne allo specifico idioma proposto: un “perno” trovato “negli altri resti dal sapere”, “… un cerchio che spinge lontano/ più al sicuro nell’ altrove dove porta”, “un determinato specchio/ aperto ai generici suoni” risultano immagini, ricche di valenza allusiva, non riferite, certo, a comuni modelli, bensì evocanti la presenza di un ineffabile, vivido, quid.
Attento ad elementi, anche minimi, connessi in maniera tale da costruire assiemi tanto coerenti quanto aperti su insondabili entità, il Nostro si rivela ben conscio del fatto di poter disporre, con vantaggio, di non aprioristiche opzioni idiomatiche, le quali, nel riconoscere i propri limiti, conducono a individuare, proprio in virtù del sollevamento di ottenebranti veli, la via, percorribile, di affidabili consapevolezze poetiche.
Non è dato oltrepassare certi confini, ma è possibile riconoscere la presenza degli stessi, è possibile, addirittura, riuscire a non considerarli, in senso stretto, siffatti, giacché strettamente connaturati, intrinseci, a un modo di essere: rigorose prese d’atto sono in grado di superare ogni giudizio precedente, di condurre a diversi apprezzamenti e, perciò, a nuovi valori.
Con piglio sicuro, dotato di non comune perizia nel muoversi entro spazi linguistici considerati quali àmbiti in cui mettersi in gioco quale (tenace) costruttore di versi, opponendo, così, a qualsiasi altro possibile atteggiamento l’ offerta delle proprie parole e di sé, Campi mostra come le faglie, più delle superfici in apparenza intatte, costituiscano fecondo terreno di poetiche indagini.
Non mancò leggiadro dinamismo.
(Davide Campi, “Bisogni”, in “Anterem” n° 73, pagg. 72-73)
La notte nel taschino
“La bontà animale”, di Alberto Cappi, cui i raffinati disegni di Pietro Lenzini aggiungono il fascino di un leggiadro contrappunto, costituisce sequenza di brevi componimenti d’ intensità non comune, poetico frutto di coerenti ricerche svolte per via di un’ opzione linguistica intesa quale strumento evocativo anziché logico-esplicativo.
I lindi accostamenti di parole, collocate con determinazione tale da impedire di immaginarle disposte in diversa maniera, capaci di catturare energia, restituita, con sapiente lavoro, da un suggestivo svolgersi incline ad alludere alle sue magmatiche origini – l’ identica attenzione nei confronti di temi grandi e piccoli, nella consapevolezza dell’ assurdità di qualunque gerarchia istituita tra varie espressioni dell’ esistere – il richiamo, già presente nel titolo, ad una dimensione biologica considerata non limite, ma fecondo àmbito del divenire – un diffuso senso di enigmatica attesa vissuto con profonda accettazione, senza inibire, perciò, altrettanto intensi sentimenti di fiducia – un assiduo rimando, di vocabolo in vocabolo, ad alterità ritenute, piuttosto che separato altrove, parti costitutive dello stesso essere – una grazia accorta, partecipe d’ intendimenti rivolti a trattenere, a evitare anche minime, non consone, tracimazioni, secondo un’ idea di gesto poetico quale istanza dotata di spiccata, rigorosa, autonomia: questi, in sintesi, i componenti precipui di una verseggiatura in cui la mai apatica eleganza delle pronunce risulta sempre attenta, vigile, non certo ignara di come il più scrupoloso controllo sia indispensabile al fine di giungere non tanto a una spiegazione, bensì a una presa d’ atto degli ineffabili fondamenti della lingua.
Tutti, davvero, “abbiamo la nostra notte e/ la teniamo nel taschino”.
Consci, instabili giorni
“Interni d’ immolazione”, di Domenico Cara, offre al lettore una fitta trama di elaborati versi nel cui àmbito l’ esistente viene considerato, nei dettagli esterni come nelle sensazioni e nei pensieri, secondo multiformi, asimmetrici aspetti.
A contatto con contesti cittadini in via di progressivo degrado, il Nostro, lungi dal reagire operando nella direzione di raccogliere eterogenei materiali al fine di presentarli e abbandonarli alle loro automatiche interazioni, nonché dal rifugiarsi in fallaci speranze opponendo una pur generosa offerta di sé quale dolente, sterile, testimonianza, il Nostro, dicevo, di fronte ai suddetti guasti metropolitani, propone originali scelte poetiche quali possibilità di salvifici percorsi a partire da chiare consapevolezze, frutto di acute riflessioni sull’ umano destino.
Non è tanto l’ implicazione sociale in senso stretto, sebbene avvertita come rilevante, a interessare il poeta, è, piuttosto, la precisa cognizione dell’ inadeguatezza dei quotidiani usi linguistici a costituire, per lui, stimolo: si parla sempre di più, dicendo sempre di meno e la perdita di spessore, d’ incisività, conduce a tediosi appiattimenti che immiseriscono, assieme all’ idioma, l’ esistenza medesima.
Non troppo incline all’ invettiva, Cara svolge la sua versificazione con misurata passionalità, affidando spesso agli aggettivi il compito di riferire su circostanze per nulla serene: ma, se l’ottimismo è bandito, non si assiste a capitolazione.
“E noi attraversiamo dentro fossati una linea / degli enigmi, dove l’ immanenza si fonde al disperso” paiono versi indicativi: non superiamo l’ enigma, non lo sciogliamo, piuttosto lo “attraversiamo dentro fossati”, ossia ne siamo parte, ci confondiamo con esso.
Siffatta consapevolezza può vincere lo sconforto e indurre a continuare: non fittizie illusioni potranno aiutarci, ma perspicue prese d’ atto in grado di favorire l’ emergere di opportuni atteggiamenti.
Con originali, ritmici tocchi consoni a un progetto di grande respiro, abile nel proporre immagini secondo cadenze suggerite da una dovizia di pensieri i cui sbocchi, sulla pagina, risultano sottoposti ad assiduo vaglio, insomma, con la mano ferma e l’ occhio vigile di chi sa come distillare precise indicazioni, Domenico Cara offre un peculiare esempio di zelo poetico, volto, in ultima analisi, a promuovere possibilità di condurre più degne esistenze.
Consci “giorni instabili”, davvero.
(Domenico Cara, “Interni d’ immolazione”, Edizioni I MUTAMENTI DEL GIALLO, Roma-Milano, 2007)
Passionali oggetti
Con “Lo spostamento degli oggetti”, Alessandro De Francesco sorprende per una spiccata attenzione verso gli oggetti (e i fatti) quotidiani: non si tratta di mero intento denotativo, né di atteggiamento di gusto pop più o meno impegnato, né di surrealismo di maniera (mentre una genuina vena richiamante le idee bretoniane fa capolino qua e là), si tratta, davvero, di (poetica) riflessione sulla vita e sulla morte.
Richiamato Wittgenstein (“Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni”), con citazione posta in corrispondenza della sezione intitolata come l’ intera raccolta, svolgendo, sicuro, suggestive sequenze di elementi diversi concatenati in una sorta di, talvolta spiazzante, eterogenea omogeneità, il Nostro intende mostrare (e vi riesce) che oggetti siamo anche noi, ossia che tra uomini e mondo esistono interscambi continui, incessanti, non rigidi confini:
“ ti cercherò nelle aperture della materia / nelle bolle che s’ incanalano tra gli attimi / mi costruirò la tua presenza”.
Ma, quanto costituisce (enigmatica) vita richiama inevitabilmente il suo termine:
“la fuoriuscita imprevista / dell’ idea di morte quella mattina davanti allo specchio”.
Nemmeno poi tanto “imprevista”, poiché:
“cos’ è la morte ci sono sempre gli oggetti a ricordarcelo”.
Questa poesia constata, prende atto di uno stato di cose e il dato affettivo, pur manifesto, si presenta non nelle tipiche forme di argomento esterno, bensì quale entità tendente a confondersi con lo stesso discorso.
Ne scaturisce, così, un fecondo esempio di come una versificazione attenta e perfino succinta, priva di sbavature, possa giungere a esiti di alta concentrazione emotiva in virtù di propensioni d’ affetto riferite agli stessi oggetti in quanto osservati e vissuti da un io partecipe, a tratti sofferente.
Oltre le frontiere della vita stessa, certo, non ci si può avventurare e tale assoluta invalicabilità suscita sensazioni e parole intense, non tenui: ebbene, De Francesco riesce a rendere testimonianza del comune, estremo, limite per via di vigili, controllate, scansioni in cui nondimeno l’ apatia, per originali vie interne alla lingua, risulta senza riserve bandita.
Gli oggetti, davvero, dicono: il poeta sa ascoltarli.
(Alessandro De Francesco, “Lo spostamento degli oggetti”, Opera prima, Cierre Grafica, Verona, 2008)
Obliquo oboe
Conscio dell’ ambiguità insita nella comunicazione linguistica, nonché dell’ umana attitudine allo scambio idiomatico, Vincenzo Di Oronzo, con “Mimi e sonnambuli”, offre una raccolta di versi in cui vividi impulsi verbali ispirano pronunce rigorose e calibrate, quasi a contenere (suggestive) fughe dal senso presenti, con evidenza, nello stesso accostamento delle parole (“Abiti vuoti si accoppiano in ottagoni blu”).
Né mancano laconici richiami allo svolgersi di azioni in apparenza quotidiane (“Questo scorrere di cani bianchi al guinzaglio”), toni di stampo espressionista (per esempio il martellante ripetersi, nella poesia che inizia con il verso appena ricordato, dell’ aggettivo dimostrativo “Questo”), cortocircuiti linguistici tali da rivelare inclinazioni a definire, chiarire, un urgere intenso, non represso, destinato a rimanere entro enigmatici àmbiti (“I visitatori seduti/ Sulle panchine barocche”), tratti di liricità vivace, mai debordante, dagli esiti addirittura denotativi (“Bagliori di sandali/ Le ragazze oscillanti nella sera”), echi di fenomeni naturali riportati sulla pagina con evocativi, affascinanti, effetti (“Vuoti di vento”).
Il tutto a mezzo tocchi decisi, eleganti, capaci di suggerire la presenza di una ineffabile entità, ìndici di ostinate scelte espressive nel dipanarsi di esistenze in cui “Dentro” e “Fuori” risultano distinti quanto fusi e “Un oboe obliquo” è “la mente”.
Di allusiva leggiadrìa l’ immagine proposta in copertina da Bruno Conte.
(Vincenzo Di Oronzo, “Mimi e sonnambuli”, Edizioni Empirìa, Roma, 2007)
Vitali soffi
Avvertibile, “vitale il soffio” spira assiduo sulle intense pagine della raccolta “attraverso interni” di Daniela Cabrini, le cui nitide scansioni, frutto di attenta, appassionata ricerca, inducono davvero a (pregnante) riflettere.
Se non si possono violare certe estreme frontiere idiomatiche, si può essere in grado, tuttavia, di offrire un linguaggio proprio, diverso, capace di meglio riferirsi a vividi impulsi non assoggettabili a esegèsi, ma, almeno, suscettibili di evocazione secondo specifiche modalità disposte ad accettare un senso differente, promuovendo quella peculiare specie di rapporto comunicativo tipico della poesia.
Consapevole di ciò, la nostra poetessa, lungi dal rinunciare al dire, confida senza riserve nell’espressione verbale, tanto da proporne una qualità del tutto inedita: non si rassegna, insomma, di fronte agli eventi massimi e minimi del quotidiano stare al mondo e, quasi ingaggiando con essi linguistiche battaglie, evita di affidarsi a ulteriori inelastici modelli, presentando, sicura, eleganti opzioni aperte, tali da mostrare come la lingua possa ben differire da viete concatenazioni.
C’è una risposta, una via percorribile.
Se “così io parlo e tu rispondi ma le parole / pedine di due distinte scacchiere a caso / si fondono in un gioco senza significato” e se “troppo presto rincorrere una voce / male udita è troppo facile”, non certo l’ indifferenza e il pessimismo dovranno prevalere, poiché una via di scampo esiste: è il gesto creativo capace di avvicinare poeti, artisti e scienziati agli altri individui, in quanto inaugura una condizione specifica non aliena dal legare, anche con persistenza, tutti coloro i quali si trovano a essere, a qualunque titolo, coinvolti.
Con accenti limpidi, tali da offrire, risoluta e precisa, sorprendenti combinazioni verbali senza mai deflettere dal rivolgersi a un quid avvertito come assiduo e ineffabile, fiduciosa in un gesto poetico teso a rendere testimonianza e, nel contempo, a mostrare una direzione lungo cui procedere, Daniela Cabrini, accostando, spontanea, immagini del tutto quotidiane (“caffè tra noi”) ad altre, per così dire astratte, ricche di suggestiva incisività poetica (“il tempo mescola cerchi concentrici”), Daniela, dicevo, induce a seguire affascinanti itinerari nel cui inconfondibile àmbito l'atto del conoscere risulta più prossimo al gesto, al modo di essere, che al discorso raziocinante.
Esiste miglior maniera, per “chi vive”, di sopravvivere “allo spavento”?
(Daniela Cabrini, “attraverso interni”, Lieto Colle, 2007)
Pensarsi liquidi
Con “Il bene della vista”, Mauro Ferrari presenta una strutturata, ma fluida, raccolta nel cui àmbito l’itinerario realtà – poesia è percorso, nel contempo, in tutti e due i sensi, secondo un’idea di versificazione non disgiunta dalle comuni modalità dell’esistere, bensì alle medesime connessa in maniera indissolubile.
Un intento come il suo, mirante, per empatia, a rendere maggiormente partecipi e consapevoli, non può non muovere da origini di vera e propria passione civile: spetta alla lingua poetica denotare, soffermarsi e, con i suoi slanci, con le sue pregnanti immagini, porre meglio l’ accento su quanto avviene, su quanto ci circonda, ossia sulla nostra stessa vita.
Un vita che, intesa, senza riserve, quale unitaria oltre ogni schema, ogni paradigma o concetto, emerge sempre, anzi nemmeno emerge, è già.
Il mezzo espressivo adatto a questi scopi deve uscire dai modelli d’uso comune, spesso ridotti a meccaniche sequele prive di originalità e incapaci di suscitare interesse, deve, cioè, mettersi in condizione di rendere perspicuo quanto ci circonda, ciò in cui siamo immersi, aiutandoci a capire quello che siamo: non occorre (nessuno, nemmeno il poeta, lo potrebbe) sciogliere l’enigma, ma renderne chiara testimonianza, così da sapersi meglio muovere in e con esso, procedendo nella nostra umana condizione.
Occorre, come il Nostro, pensarsi, sentirsi, liquidi, fluidi, sciolti nell’esistenza per coglierne gli aspetti anche meno evidenti o, meglio, per illuminarli con i raggi repentini e persistenti di un divenire poetico in grado di farci scoprire, alla fine, che quelle sembianze non erano poi tanto celate, ma si trovavano lì, disponibili a essere oggetto di uno sguardo più penetrante.
Con versi ordinati e vivaci, attenti a quanto è minuto come a quanto costituisce avvenimento di notevole rilevanza storica, sapienti nel rendere conto di ambedue le dimensioni senza mai cadere in retoriche di tipo crepuscolare o meramente celebrativo, svolgendo, coerente, una poesia tale da offrirsi al lettore senza mai cedere nulla quanto a precipua originalità, insomma con il (risoluto) riguardo tipico di chi, sicuro, non sente la necessità di ricorrere ad alcun artificio, Mauro Ferrari convince per la propensione a rendere sulla pagina dimensioni individuali e collettive non dissociate, coese proprio a partire dagli infiniti elementi che le costituiscono.
Furono, davvero, umani versi.
(Mauro Ferrari, “Il bene della vista”, Edizioni Joker, Novi Ligure, 2006)
Quantum Poem
“Quantum Poem”, di Shigeru Matsui, si presenta già a prima vista quale linguaggio: i segmenti, uniti o meno, formanti, talora, strane figure geometriche, disposti secondo un andamento simile a moti ondosi scomposti in schemi lineari, inducono a pensare a un idioma.
Un linguaggio, dunque: ma non veicolante significato nel senso comune del termine.
La lingua quotidiana, certo, nulla pare possedere di arcano: tutto sembra filare via liscio nell’àmbito di normali processi comunicativi condivisi da una comunità attenta al rispetto di regole.
Ma, a chiedersi come questo complesso reticolato si sia andato formando, come taluni impulsi ne provochino l’assiduo uso, quale sia la sua, non soltanto storica, origine, cioè quale energia induca ogni parlante a rompere, più o meno spesso, il silenzio – a porsi, dicevo, tali (e altri) quesiti, compaiono in risposta vivide entità del tutto enigmatiche.
Troviamo tali entità alle radici del gesto di Shigeru Matsui?
La risposta è positiva.
Non si tratta, nel caso in esame, di successioni originate da un autocompiacimento fine a sé medesimo o, peggio, della caduta in sterili intenti decorativi, bensì della messa in atto, della costruzione secondo fattezze non certo ordinarie, di espressioni articolate.
L’ esclusivo uso di tratti (segmenti rettilinei), dissimili soltanto nelle dimensioni, rende lecito pensare a elementi costitutivi non casuali, frutto di precise scelte tese a porre in essere griglie idiomatiche complesse e unitarie, capaci di attrarre proprio in virtù delle loro affascinanti strategie compositive.
La nostra comunità, senza dubbio, non parla quella lingua, ma questa è caratteristica che accomuna tutta la poesia: il poeta opera sempre uno scarto, la cui mancanza annullerebbe la versificazione stessa.
Quanto, poi, ai 347 testi, risulta impossibile resistere alla tentazione di osservarli concentrandosi su ciascuno o anche scorrendoli velocemente, di seguirli secondo l’ ordine numerico o per salti, come sollecitando i meccanismi di uno strumento poco conosciuto per verificare se sia affidabile.
Un’ affidabilità che, alla fine, scaturisce proprio dall’ avere così operato, ossia dall’ essere divenuti consapevoli di un’ originale consistenza espressiva, familiarizzando con essa.
Ancora una volta, insomma, un artista della parola e del tratto, un vero cultore della visual poetry, riesce a sorprendere e a indurre a riflettere: thank you, poet.
(Shigeru Matsui, “Quantum Poem”, Aloalo International, Tokyo, 2007)