In “Finders Keepers” (“Chi lo trova se lo tiene”, mia traduzione) Seamus Heaney ci offre un cocente resoconto di un attacco d’ansia di cui egli fece esperienza quando, per la prima volta, incontrò la poesia di T.S. Eliot. Ciò avvenne negli anni ’50, in un tempo in cui Eliot era considerato, dai poeti anglo-americani, la Luce e la Via: un nome sinonimo della stessa poesia moderna. Ad Heaney fu consegnata a scuola una raccolta di poesie di Eliot “come fosse un pacco di cibo”, e tuttavia, invece di procurargli un piacere tanto atteso, gli causò qualcosa di più simile ad un attacco di panico. I versi di Eliot viaggiavano ad una lunghezza d’onda così inaudita per Heaney, da sembrargli lo stridio di un pipistrello. I sintomi fisici che Heaney provò (un crescente nodo alla gola, l’irrigidirsi del diaframma, ecc.) non si attenuarono in seguito alle letture successive del testo eliotiano. Al contrario, e per anni, “Eliot mi faceva paura, mi imbarazzava e mi faceva sentire minuscolo; mi faceva venire voglia di invocare la Madre dei Lettori, affinché venisse presto e avesse pietà di me, e mi offrisse la pacificazione di un significato parafrasabile e di una struttura ferma e riconoscibile”. Stava esagerando? Non credo. Nello stesso momento in cui egli ci invita ad identificarci con la triste condizione dello scolaro, Heaney ci dice anche che l’acuta ansia che sta descrivendo non è la semplice reazione di un giovane studente di letteratura. O non solamente questo. Noi tutti apprendiamo da Eliot, così come da altri autori, che una poesia non può mai portarci completamente oltre la sua lingua, in un luogo limpido e precisamente a fuoco, come se la sua “oscurità” fosse acqua torbida che una razionale ed intelligente lettura ed interpretazione potesse rendere trasparente e chiara. “Una poesia deve resistere con successo alla razionalità” è l’affermazione schietta, e abbastanza facile da accettare, di Wallace Stevens. Ma ciò che per me è così attraente in Heaney è la franchezza con cui ammette l’ansia causata dal non comprendere. Quando W. Stevens scrive: “Un uomo e una donna/ sono uno”, lo possiamo capire senza difficoltà. Ma quando scrive: “Un uomo e una donna e un merlo/ sono uno”, questo può sconcertare il lettore. Ci incamminiamo qui in un sentiero fragile, nell’ansiosa speranza di arrivare presto o tardi ad un principale, inequivocabile significato della poesia che includa il merlo. Ma forse, perdere l’orientamento è una parte fondamentale del processo. Il campo da gioco in cui si pone il titolo della raccolta di prose di Heaney, “Finders Keepers”, ha come controparte lo smarrimento, la perdita di qualcosa.
Una dichiarazione, che Heaney fa in un capitolo successivo, riesamina la mia immagine del percorso: “La poesia è più una soglia che un sentiero, qualcosa da cui costantemente ci si allontana e a cui continuamente ci si avvicina, e presso la quale lo scrittore ed il lettore si sottopongono, in modi differenti, all’esperienza di essere allo stesso tempo rilasciati e convocati”. Forse è stata l’immagine dello spazio della soglia, così come il tema dell’ansia e della perdita, che mi ha fatto venire voglia di ridare un’occhiata alla storia, raccontata da S. Freud in “Al di là del principio del piacere”, del bambino e del gioco del rocchetto. Il bimbo, nel tentativo di far fronte alla sofferenza causata dall’allarmante abilità della madre di scomparire spesso per ore dalla sua vista, inscenava un gioco ripetitivo: tenendo in mano lo spago, scagliava con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse. Contemporaneamente emetteva un suo caratteristico suono, che Freud aveva intuito avere il significato di “via!”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “eccolo!”. Questo gioco così ossessivo rappresentava la presenza e l’assenza della madre. Così almeno ci racconta Freud. Parte dell’attrazione che ha per me questo racconto, viene dall’identificazione che mi piace fare di tale bimbo con la figura del poeta. E’ quindi l’idea che il desiderio della presenza e l’effetto dell’assenza sono interdipendenti, si coinvolgono, si implicano e stimolano vicendevolmente ed in modo continuo. Il gioco del “via!” e del “eccolo!” è un gioco giocato dal poeta nel piccolo teatro che è ogni suo verso. Con la Madre dei Lettori a tenere la mano del poeta, le parole giocano i loro ruoli familiari con una logica rassicurante e consolatoria: lì c’è uno statico sostantivo, là il verbo attivo, più in là ancora gli spazi e le prospettive aperte dalle preposizioni, ecc.. E soprattutto, da questa parte, c’è la rigida dualità e la separazione dei soggetti e degli oggetti. Nei fatti poi, la necessaria grammatica della frase predispone il mondo ad un ordinamento da cui dipende quotidianamente la nostra salute mentale. Questo, direbbe Yeats, è “il linguaggio della sala da tè”. Improvvisamente però, nel flusso rassicurante delle frasi, si creano degli elementi di disturbo. Le parole vengono organizzate in linee, le linee in versi, la sintassi viene aggirata, con inversioni e iperbati, epifrasi a formare pattern di materia fonico-musicale. E questo menzionando solo alcune delle articolazioni possibili, delle “spaccature” che la forma poetica introduce nel linguaggio. La metafora si porta via il senso letterale e la Madre è caduta nella botola, fuori dalla vista. Ci ritroviamo così in una zona paurosa, ma vivida, che Yeats descrisse bene come Phantasmagoria, dove la nostra consapevolezza della soggettività degli oggetti e dell’oggettività dell’emozione soggettiva diviene eccezionalmente possibile. Ed è proprio qui che iniziamo a discernere il senso, ogni volta rifoggiato e ricreato, della poesia.
Da Il Lavoro del luogo, Fara Editore 2007
si preferiscono certo lumi di luce gialla
al ritorno, alla fatica di concorrere
nei tempi: quelli dicevi allora persi.
alzati di buonora il mattino che il mattino è dove
le cose restano fresche nella testa e il cervello ha
la temperatura del caseificio e l’uguale scambio
di materie liquide in idee. non si fa tardi non serve
insistevi che la notte è della morte o dei tralasciati.
un grido, la lingua dei fastidi è saliva
stantia, sputi, stacchi o baci raffermi:
come si fa d’inverno a non vaccinarsi?
con l’umido fai un’immunità e allontani
il sequestro del freddo sotto un piumone;
il convertitore ribalta i chilometri in pianti
tra restare con la casa che si sfa e andarsene
scegli ora, entrambi.
l’origine riflette ogni stasi, l’opera sfuma
e si lascia dietro odore di macero e carta
unta. anche la camera riconta i vuoti.
stai a rivelarci quel giusto mezzo se come sei
procuri maremoti. ricordarti è pena
o si preferisce quella foto in cui stai
in cima ai concimai di fine marzo.
si danno gli ordini, intanto che al macello
ci sono uomini. non so infatti checcazzo
si faccia ora dicevi. ridondano al fine le convinzioni
e non ci sta con la testa, ed è come un vento, oggi.
e c’è la disco-music dietro le carcasse di vacca
e si balla, gesù. si balla come dei matti.
perdona se nel conclave degli orti stavamo
come gentili ad innaffiarci e crescere
mettere radici nei luoghi arresi al pensiero
che non più uno spostamento fosse possibile
una fuga imbranata dal vizio di riaprirsi
comunque considerare che sia spaesarsi
del canto che qui non germoglia. basta il fatto
generato vedi a farci confluire, a catturare
metro su metro la collana dove infilare
le liti. almeno ovunque ne riparleremo
smotteranno cumuli di fango e, cielo, avremo
gli anni dalla nostra.
occorre morire prestino
pensavi, e lasciarti erede del bene
di noi nella storia, tra gli argini dove
libero è il nostro fiume, raccolte le pianure.
prestino, così da permetterti ogni codardia
così che non lasci debiti sul contatore
sullo scatto dei numeri, sul computo
dei registri del pianto e non i figli come
appoggio, ma i nasturzi sul terrazzo,
ed il vecchio galantuomo che sa
di latino e di greco, rimasto a tenerti
le mani.
i contorni formano l’arco dei legni,
il quadrato su cui appoggiare l’ansia
ha la sua rada classificazione
la sistematica
elencazione dei contenuti in un numero
un codice per il prestito della memoria
il cui interno dà sul prato, e se vedi
lampade proiettare l’ombra ti fai serpe
e faina per cancellare il nome dall’elenco
degli esistenti, per lasciare poche tracce
scarseggiando un’asse di risposte sulle leggi
della quiete.
Da “Stanze del viaggiatore virale”
(di prossima pubblicazione con le Edizioni L’Arcolaio di Forlì)
purché sia ragione il volo, siamo noi
ad inquinarne il lampo: o torni o vai,
o lasci l’impero nella rabbia, sfai
le vesciche, gli stomaci e con questi
reggi cornamuse. dove borbotti ora sei
bordone al servizio d’una giga. il calvario:
sul ciglio sosti a raccattare semi e gramigna,
ne fai un erbario che è croce di natura, pannello
di secchezze e mostra aperta ad un incerto orario
la casa frena e sta su lastre di ghiaccio.
all’interno fatiche si posano, appendono
le attese e il sonno sulla stufa a legna
dove la cura del giorno s’incaglia
nei ruggiti dei transistor del dubbio.
cambiano le attitudini, le anime
attive e pare un cantico la vista
del bollito che si affastella sul vassoio
con le bisce a contorno, la scarpa
nella pentola del minestrone, l’ago
da cucito servito sulla trota salmonata,
tuffatosi dal grembiule della sarta.
ci si sta addosso a natale, come
un’ossessione della generazione
che non si estende, che non ha code.
si celebrano qui le indecisioni
le acustiche sibille, gli echi amorfi
nelle miniere. eloquenti saranno
i termini del virus, e il disprezzo.
certo, il virus rimane a riposare
per anni e gramo si rifugia sotto
la parola, nella zona dorsale
di questa: sa il suo anticorpo il libero
radicale. come se la parola
lo accogliesse serpe-in-segno, come se
si dispiegasse nell’antro, sferrasse
l’attacco che diviene tradimento
e cancella le visioni. s’inforna
per posarsi a caldo come vescica
sulla pianura della lingua. il senso
della capitolazione al silenzio.