Italo Testa (1972), vive a Milano. Ha pubblicato per la poesia il concept album «canti ostili» (Lietocolle, Como, 2007), la raccolta «Biometrie» (Manni, Lecce, 2005, premio San Giuliano Terme/Poesia Incivile) e il poemetto «Gli aspri inganni» (Lietocolle, Como, 2004). Ha ottenuto per la raccolta inedita i premi Dario Bellezza e Eugenio Montale. Suoi testi sono apparsi in antologie, tra cui «Chaos and Communication» (Link Diversity, Sarajevo, 2001), «Così non ti chiamo per nome» (Empiria, Roma, 2001), «Nodo Sottile 3» (Crocetti, Milano, 2003), «Parco Poesia» (Guaraldi, Rimini, 2003 e 2004), «Il presente della poesia italiana» (Lietocolle, Como, 2006), «Poesia e natura» (Le lettere, Firenze, 2007), «La joven poesía italiana» (Cuadernos del matemático, Madrid, 2007) e su diverse riviste, tra cui «Portals. A Journal in Comparative Literature», «Gradiva», «El coloquio de los perros», «Atelier», «Almanacco del Ramo d’Oro», «Pelagos», «Nazione Indiana», «Il primo Amore», «Poesia da fare». Ha pubblicato saggi in volume e su riviste, tra cui «aut aut», «L’ospite ingrato», «Il ponte», «Reset», «La Società degli Individui». E’ co-direttore della rivista di poesia «L’Ulisse» e, presso Diabasis, della collana di saggistica «La Ginestra».
Dell’etologia poetica
1.
L'impulso all'espressione, dapprima tensione mimetica ad assimilarsi alle cose, si arresta nella cesura formale, con un colpo all'indietro che lo riporta su se stesso. Solo di qui è possibile un ritorno alle cose, ora prossime perché estranee. Così l'adattamento non è puro conformismo, bensì tensione che trasforma, metamorfosi. In questa direzione la poesia supera la forma tradizionale delle architetture verbali, basata sull'opposizione figura/sfondo, e si riallaccia alla concezione topografica figura/figura: diventa elemento sporgente ma fuso nel terreno dell'esperienza. La figura, mentre si integra nella topografia del luogo, insieme ne deforma il profilo, escrescenza linguistica che genera nuove forme di vita, inedite morfologie linguistiche. Come un un'arte del paesaggio essa s'innesta nel terrain vague, tra i margini inselvatichiti di parole e cose, rinvigorendone gli arbusti e rendendo riconoscibile la silva dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti.
2.
Così, con cura biometrica, l'ars poetica continua la sua tessitura, anche quando le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano. Il grado zero della cultura, che in certi momenti sembra prossimo come non mai, è forse anche un'occasione per la poesia che, come pratica istitutiva, non necessita, nel suo fare paziente, di una legittimazione esterna. In questa prevalenza dell'agire, del fare, la scrittura poetica torna alla sua qualifica di ape operaia, di silenzioso e operoso artigianato che tesse una tela mai pienamente aggiudicabile ideologicamente. Certo, vi e' anche la resistenza dai margini e la salvezza dell'esclusione: ma qui la poesia resiste proprio perche' viene meno il lungo errore dell'appartenenza piena. Quando il tutto che la teneva coesa come pratica culturale si dissolve, la poesia continua a sporgere da quel terreno guasto, facendo segno ad altro. Non piu' sorretto o puntellato da un sistema riconosciuto di valori, questo gesto, acme dell'individuazione, torna a poggiare sull'etologia poetica della specie, ma proprio in questa nudità si osserva dal futuro.
Da Come non torni. Quartetti per la fine del giorno, inedito, 1990-1995
INVITO
Silenzioso il cielo sussurra inviti
ad abbandonare l’arsura, lievi
le vostre voci un cristallo raccolga.
Grumo immemore attende nel tepore
di una calda palude: non ala, battito
che franga lo specchio d’acque oscure
anteriori al giorno.
*
Come non torni, che sgocciola
e fa buio, quasi si leva
dai fossi uno spicco d'urlo,
non sai che in povertà
si consumano bosco e cielo,
un ramo che nella nudità t'incarni,
come non parli, del crollo della vigna,
dove nascosto ancora pregavi,
è vuoto il cesto degli aculei
e tu non torni, la stanza è vuota
di un nulla, un’attesa vigile
che un qualche fuoco arda,
perché non mormori la condanna,
il casolare ormai deserto,
solo ombre quelli che ti cercavano,
quell'ultimo rintocco.
CONGEDO
Come la vita che scorre intatta
e attraversa la notte: la perdita
è paglia e il silenzio è dono.
Da Gli aspri inganni, Lietocolle, Como, 2004
I.
Devi fare attenzione, orientare lo sguardo
in direzione del flusso: è bianco il velo
che lambisce i contorni, che accieca:
tu al bianco devi cedere, muto
aderire all’indifferenza delle cose.
II.
Misura il respiro, lascia aderire
alle forme dell’inganno le membra;
le ossa tenere sfiorano il suolo
a cui il peso dei giorni trattiene
come brocche dai cieli bagnate;
raccogli, lascia variare i silenzi
di cui nel vetro dell’aria t’investi;
tu lascia vibrare ancora i colori:
se al docile buio un’ombra t’inscrive
inarca le spalle, al vuoto confida
il resoconto terrestre, gli aspri
inganni delle forme: tu socchiudi
il passaggio, lenta lascia pulsare
distante la peripezia del tempo.
III.
Se cadi e l’ala non sorregge i passi
che nell’azzurro il corpo in volo traccia,
lascia scorrere l’inganno splendente
ogni cosa fa segno all’estraneo;
se nel velo la pupilla si annoda,
coda di volpe l’incanto assopisce
dal manto del giorno schiuma apparenza;
chi perde il sentiero presto fiorisce,
cadendo nel vuoto il taglio richiude
da cui insanguinato un giorno ti levi;
se al suolo un’ombra serena aderisce,
lascia vibrare ancora i contorni:
la misura si compie, il segno traccia
una nuova voluta nell’aria.
Da Biometrie, Manni, 2005
RETINE
Di ora in ora, appena scatta un allarme
da qualche parte una luce si accende
tra le tende il tuo corpo si nasconde
dalla donna che nella stanza dorme.
Poi dal frigo un sibilo si propaga:
imbevuto di una tinta acida
il quadro luminoso della strada
sovresposto sulla pupilla dilaga.
Se un elicottero verde veleno
sovrasta le insegne della notte
battendo ai vetri, dal decimo piano
manda il tuo segno al profilo alieno
fondi la retina al cerchio radiante
del dio in acciaio metropolitano.
SEPOLTO, ASSOLTO
nel limbo di specchi io mi addoloro
su questa pietra tatuata nel gelo
nell’abbraccio freddo della marea mi verso
se dalla schiuma del vetro riemergo:
vedi dell’oscuro le tracce, i lembi
sfrangi, ammutolito, nel buio:
discanti il gelo, nel taglio di un mondo
la semina dei giorni disperdi:
nel sonno, io, sepolto assolto
dall’evento tendo il profilo
la cornea sull’incavo del giorno:
preso nel laccio non vedi figure
nel fondo del sogno scendi, ricadi
frammenti di specchi:
KARL-MARX ALLEE
1.
niente avrebbe detto, quell’intercalare
fatto di brevi sospiri, soffi
nel ricevitore,
alterne attese, ma non c’era
malignità in quelle parole,
anche se avevano
la durezza di un vetro,
quasi gli uscivano senza volere, niente
a che fare con le minacce,
i ricatti che erano
il tessuto di quei colloqui,
niente era
il suo intercalare, e lì, in quel tic,
potevi leggere la conferma di quello
che pensava, lamentoso
o sprezzante: niente
2.
camminavi con gli occhi chiusi,
o con le palpebre arrossate,
come di chi avesse pianto.
Ma non avevi pianto.
Niente hai detto, non è stato niente
un’increspatura sull’acqua, una spirale
sulla sabbia:
ad occhi chiusi filtrava
la forma vuota delle nostre vite
in attesa
la geometria lineare della Karl–Marx
Allee
nel breve declino d’Agosto
due ombre nella fuga di vetrate
tra la polvere dei cantieri: dal niente
la selva di specchi profilava i tuoi occhi
una notte qualunque a Potsdamer Platz
3.
Inizio dell’estate sotto la nuvolaglia
della Ruhr.
Ti dibatti ancora nell’ora
del falso sentire: in proroga concedi i tuoi
giorni, come se il carico
fosse inesauribile
è ai doveri verso te stesso cui sfuggi
perché di te stesso disperi.
Ti allontani, vorresti uscire dal sentiero
per incamminarti nel folto:
detriti di stelle
osano ricoprirti, come artigli
si configgono
Da Canti ostili, Lietocolle, Como, 2007
DISARMATI
ostili, sì, alla vita
sbandiamo sulla traccia
illuminata a giorno
intorno si dirada
il folto della macchia
sull'altopiano arioso
ad altro è inteso il chiodo
puntato sulla tempia
nell'ora che si sfalda
e rapinoso un volto
rimanda svelto un cenno
che al mondo ci disarma
IMPLACATO
il sangue che non hai versato
alla battuta d’armi
sui calanchi franosi: sbanda nella luce, gira e cade
ma la neve, dice, la neve…
l’amore che non ha dato
frutto alla terra
in gesti netti e operosi:
è il 24 aprile, ma cade, cade…
la paura che non vi ha stretto
addossati ai muri
sotto i colpi esplosi: così al campo, che ha arato
offre le labbra e confida
II
qui, nei vostri poderi,
ricalcando i passi
dove la storia ha fissato
una tranquilla dimora,
prendiamo possesso, noi
di un tempo che frana,
per una traccia andiamo
che a voi ci riconduca:
e fiutiamo, se il vento gira,
con le narici umide di brina
un sangue, implacato, nella neve: ma canta il dolore che accomuna
e una lepre, in fuga, sotto i gelsi
(Monte Falcone)
SARAJEVO TAPES
VI [16 luglio, spalato: h. 9]
un bagno d’ocra, di rocce, di scaglie t’accoglie
muri a secco e alle fermate d’autobus
murales stinti con bottiglie di pepsi
per vie d’acqua, confluendo la macchia verde
si penetra all’interno
il perimetro del mare ritaglia in occhi verdi
laghi cinesi, una cartolina dal mondo:
lasciati invadere dall’inganno dei colori
lascia scorrere i profili
gli occhi degli uomini furono fatti
per guardare: e lasciateli guardare
***
VII [per mostar: h. 16]
mi dicono che i tuoi occhi sono vuoti
mi dicono che i tuoi occhi sono stupefatti
segui lo sventolio dei drappi
il rosso, il bianco, il blu
distesi tra le rocce, sulle case
in costruzione a fianco della strada
mi dicono che i tuoi occhi non vedono prati
mi dicono che i tuoi occhi s’incantano
conta, ad uno ad uno,
i parallelepipedi bianchi
le bianche distese, da ogni lato
l’abbraccio del paesaggio
fitto di cippi, giallo di luce
mi dicono che i tuoi occhi si dissipano
mi dicono che i tuoi occhi, i tuoi occhi
a seguire le cave di sabbia sul fiume
dopo mostar, i mucchi di sabbia e di terra
scavati, nella luce, senza ombra,
per ogni gruppo di case una distesa
di pietre bianche, erette, immobili