I poeti che presentiamo sono stati scelti tra i partecipanti alle ultime edizioni del Premio Lorenzo Montano e delle ultime Biennali Anterem di Poesia. Ci offrono l’occasione di rivisitare opere che hanno tessuto la storia recente del “Montano”, ci indicano le loro nuove ricerche e soprattutto ci guidano nelle ragioni della loro poesia, attraverso puntualissime riflessioni teoriche.
Giovanni Turra Zan è nato nel 1964 a Vicenza, e risiede a Dueville (VI). Laureato in Psicologia dell’Educazione e diplomato al Conservatorio Musicale di Vicenza, lavora da diversi anni nei servizi sociali e come counselor professionale, facilitando anche gruppi di mutuo aiuto al lutto.
Vincitore nel 2005 del concorso “Poeti per Posta”, promosso dalla trasmissione radiofonica di Rai Radio 2 “Caterpillar” e da Poste Italiane, è stato menzionato al premio “L. Montano 2006” e segnalato nell’edizione 2007 dello stesso premio. Nel 2005 ha pubblicato la sua opera prima “Senza” (Agorà Factory), con prefazione di Stefano Guglielmin. Con la silloge “Il lavoro del luogo”, ha vinto la VI edizione del concorso “Pubblica con Noi 2007”, indetto da FARA Editore che l’ha successivamente pubblicata. Una sua lirica è stata selezionata per l’antologia “Il corpo segreto”, di prossima pubblicazione con le edizioni Lieto Colle. La sua nuova raccolta, “Stanze del viaggiatore virale” sarà pubblicata nel prossimo maggio dalle edizioni L’Arcolaio di Forlì.
In “Finders Keepers” (“Chi lo trova se lo tiene”, mia traduzione) Seamus Heaney ci offre un cocente resoconto di un attacco d’ansia di cui egli fece esperienza quando, per la prima volta, incontrò la poesia di T.S. Eliot. Ciò avvenne negli anni ’50, in un tempo in cui Eliot era considerato, dai poeti anglo-americani, la Luce e la Via: un nome sinonimo della stessa poesia moderna. Ad Heaney fu consegnata a scuola una raccolta di poesie di Eliot “come fosse un pacco di cibo”, e tuttavia, invece di procurargli un piacere tanto atteso, gli causò qualcosa di più simile ad un attacco di panico. I versi di Eliot viaggiavano ad una lunghezza d’onda così inaudita per Heaney, da sembrargli lo stridio di un pipistrello. I sintomi fisici che Heaney provò (un crescente nodo alla gola, l’irrigidirsi del diaframma, ecc.) non si attenuarono in seguito alle letture successive del testo eliotiano. Al contrario, e per anni, “Eliot mi faceva paura, mi imbarazzava e mi faceva sentire minuscolo; mi faceva venire voglia di invocare la Madre dei Lettori, affinché venisse presto e avesse pietà di me, e mi offrisse la pacificazione di un significato parafrasabile e di una struttura ferma e riconoscibile”. Stava esagerando? Non credo. Nello stesso momento in cui egli ci invita ad identificarci con la triste condizione dello scolaro, Heaney ci dice anche che l’acuta ansia che sta descrivendo non è la semplice reazione di un giovane studente di letteratura. O non solamente questo. Noi tutti apprendiamo da Eliot, così come da altri autori, che una poesia non può mai portarci completamente oltre la sua lingua, in un luogo limpido e precisamente a fuoco, come se la sua “oscurità” fosse acqua torbida che una razionale ed intelligente lettura ed interpretazione potesse rendere trasparente e chiara. “Una poesia deve resistere con successo alla razionalità” è l’affermazione schietta, e abbastanza facile da accettare, di Wallace Stevens. Ma ciò che per me è così attraente in Heaney è la franchezza con cui ammette l’ansia causata dal non comprendere. Quando W. Stevens scrive: “Un uomo e una donna/ sono uno”, lo possiamo capire senza difficoltà. Ma quando scrive: “Un uomo e una donna e un merlo/ sono uno”, questo può sconcertare il lettore. Ci incamminiamo qui in un sentiero fragile, nell’ansiosa speranza di arrivare presto o tardi ad un principale, inequivocabile significato della poesia che includa il merlo. Ma forse, perdere l’orientamento è una parte fondamentale del processo. Il campo da gioco in cui si pone il titolo della raccolta di prose di Heaney, “Finders Keepers”, ha come controparte lo smarrimento, la perdita di qualcosa.
Una dichiarazione, che Heaney fa in un capitolo successivo, riesamina la mia immagine del percorso: “La poesia è più una soglia che un sentiero, qualcosa da cui costantemente ci si allontana e a cui continuamente ci si avvicina, e presso la quale lo scrittore ed il lettore si sottopongono, in modi differenti, all’esperienza di essere allo stesso tempo rilasciati e convocati”. Forse è stata l’immagine dello spazio della soglia, così come il tema dell’ansia e della perdita, che mi ha fatto venire voglia di ridare un’occhiata alla storia, raccontata da S. Freud in “Al di là del principio del piacere”, del bambino e del gioco del rocchetto. Il bimbo, nel tentativo di far fronte alla sofferenza causata dall’allarmante abilità della madre di scomparire spesso per ore dalla sua vista, inscenava un gioco ripetitivo: tenendo in mano lo spago, scagliava con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse. Contemporaneamente emetteva un suo caratteristico suono, che Freud aveva intuito avere il significato di “via!”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “eccolo!”. Questo gioco così ossessivo rappresentava la presenza e l’assenza della madre. Così almeno ci racconta Freud. Parte dell’attrazione che ha per me questo racconto, viene dall’identificazione che mi piace fare di tale bimbo con la figura del poeta. E’ quindi l’idea che il desiderio della presenza e l’effetto dell’assenza sono interdipendenti, si coinvolgono, si implicano e stimolano vicendevolmente ed in modo continuo. Il gioco del “via!” e del “eccolo!” è un gioco giocato dal poeta nel piccolo teatro che è ogni suo verso. Con la Madre dei Lettori a tenere la mano del poeta, le parole giocano i loro ruoli familiari con una logica rassicurante e consolatoria: lì c’è uno statico sostantivo, là il verbo attivo, più in là ancora gli spazi e le prospettive aperte dalle preposizioni, ecc.. E soprattutto, da questa parte, c’è la rigida dualità e la separazione dei soggetti e degli oggetti. Nei fatti poi, la necessaria grammatica della frase predispone il mondo ad un ordinamento da cui dipende quotidianamente la nostra salute mentale. Questo, direbbe Yeats, è “il linguaggio della sala da tè”. Improvvisamente però, nel flusso rassicurante delle frasi, si creano degli elementi di disturbo. Le parole vengono organizzate in linee, le linee in versi, la sintassi viene aggirata, con inversioni e iperbati, epifrasi a formare pattern di materia fonico-musicale. E questo menzionando solo alcune delle articolazioni possibili, delle “spaccature” che la forma poetica introduce nel linguaggio. La metafora si porta via il senso letterale e la Madre è caduta nella botola, fuori dalla vista. Ci ritroviamo così in una zona paurosa, ma vivida, che Yeats descrisse bene come Phantasmagoria, dove la nostra consapevolezza della soggettività degli oggetti e dell’oggettività dell’emozione soggettiva diviene eccezionalmente possibile. Ed è proprio qui che iniziamo a discernere il senso, ogni volta rifoggiato e ricreato, della poesia.
Da Il Lavoro del luogo, Fara Editore 2007
si preferiscono certo lumi di luce gialla
al ritorno, alla fatica di concorrere
nei tempi: quelli dicevi allora persi.
alzati di buonora il mattino che il mattino è dove
le cose restano fresche nella testa e il cervello ha
la temperatura del caseificio e l’uguale scambio
di materie liquide in idee. non si fa tardi non serve
insistevi che la notte è della morte o dei tralasciati.
un grido, la lingua dei fastidi è saliva
stantia, sputi, stacchi o baci raffermi:
come si fa d’inverno a non vaccinarsi?
con l’umido fai un’immunità e allontani
il sequestro del freddo sotto un piumone;
il convertitore ribalta i chilometri in pianti
tra restare con la casa che si sfa e andarsene
scegli ora, entrambi.
l’origine riflette ogni stasi, l’opera sfuma
e si lascia dietro odore di macero e carta
unta. anche la camera riconta i vuoti.
stai a rivelarci quel giusto mezzo se come sei
procuri maremoti. ricordarti è pena
o si preferisce quella foto in cui stai
in cima ai concimai di fine marzo.
si danno gli ordini, intanto che al macello
ci sono uomini. non so infatti checcazzo
si faccia ora dicevi. ridondano al fine le convinzioni
e non ci sta con la testa, ed è come un vento, oggi.
e c’è la disco-music dietro le carcasse di vacca
e si balla, gesù. si balla come dei matti.
perdona se nel conclave degli orti stavamo
come gentili ad innaffiarci e crescere
mettere radici nei luoghi arresi al pensiero
che non più uno spostamento fosse possibile
una fuga imbranata dal vizio di riaprirsi
comunque considerare che sia spaesarsi
del canto che qui non germoglia. basta il fatto
generato vedi a farci confluire, a catturare
metro su metro la collana dove infilare
le liti. almeno ovunque ne riparleremo
smotteranno cumuli di fango e, cielo, avremo
gli anni dalla nostra.
occorre morire prestino
pensavi, e lasciarti erede del bene
di noi nella storia, tra gli argini dove
libero è il nostro fiume, raccolte le pianure.
prestino, così da permetterti ogni codardia
così che non lasci debiti sul contatore
sullo scatto dei numeri, sul computo
dei registri del pianto e non i figli come
appoggio, ma i nasturzi sul terrazzo,
ed il vecchio galantuomo che sa
di latino e di greco, rimasto a tenerti
le mani.
i contorni formano l’arco dei legni,
il quadrato su cui appoggiare l’ansia
ha la sua rada classificazione
la sistematica
elencazione dei contenuti in un numero
un codice per il prestito della memoria
il cui interno dà sul prato, e se vedi
lampade proiettare l’ombra ti fai serpe
e faina per cancellare il nome dall’elenco
degli esistenti, per lasciare poche tracce
scarseggiando un’asse di risposte sulle leggi
della quiete.
Da “Stanze del viaggiatore virale”
(di prossima pubblicazione con le Edizioni L’Arcolaio di Forlì)
purché sia ragione il volo, siamo noi
ad inquinarne il lampo: o torni o vai,
o lasci l’impero nella rabbia, sfai
le vesciche, gli stomaci e con questi
reggi cornamuse. dove borbotti ora sei
bordone al servizio d’una giga. il calvario:
sul ciglio sosti a raccattare semi e gramigna,
ne fai un erbario che è croce di natura, pannello
di secchezze e mostra aperta ad un incerto orario
la casa frena e sta su lastre di ghiaccio.
all’interno fatiche si posano, appendono
le attese e il sonno sulla stufa a legna
dove la cura del giorno s’incaglia
nei ruggiti dei transistor del dubbio.
cambiano le attitudini, le anime
attive e pare un cantico la vista
del bollito che si affastella sul vassoio
con le bisce a contorno, la scarpa
nella pentola del minestrone, l’ago
da cucito servito sulla trota salmonata,
tuffatosi dal grembiule della sarta.
ci si sta addosso a natale, come
un’ossessione della generazione
che non si estende, che non ha code.
si celebrano qui le indecisioni
le acustiche sibille, gli echi amorfi
nelle miniere. eloquenti saranno
i termini del virus, e il disprezzo.
certo, il virus rimane a riposare
per anni e gramo si rifugia sotto
la parola, nella zona dorsale
di questa: sa il suo anticorpo il libero
radicale. come se la parola
lo accogliesse serpe-in-segno, come se
si dispiegasse nell’antro, sferrasse
l’attacco che diviene tradimento
e cancella le visioni. s’inforna
per posarsi a caldo come vescica
sulla pianura della lingua. il senso
della capitolazione al silenzio.Allì Caracciolo, poeta e regista, è docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l'Università di Macerata. Sue opere, edite e inedite, sono risultate finaliste ai più importanti premi di poesia. Dirige un Teatro di Ricerca a livello professionale. Tra i suoi libri di poesia figurano: Malincòre (una fonologia del vuoto), Amadeus 1996; English cemetery, Edizioni del Leone 2000; La insomiglianza (quattro poemetti), Ripostes 2007.
Da: Allì Caracciolo, Monologhi ripetitivi con la Poesia (pubblicazione in corso).
[1]
Il luogo
Mentre discende come fosse l’ultima
s’aggetta la sera in plumbee nubi
squarciate ove riflette un peltro lucido
lì
si specchiano le cose una nell’altra
alla ricerca della somiglianza
[2]
L’anima canta stanca
mentre tu taci ricordando il canto
e il ricordo è miseria nella pallida sera
ove talora s’accasciano uccelli a riposare
Se soltanto tornare
la tua voce potesse a le occasioni
le perdute ginestre
le feroci pulsioni, riconoscere in esse
la lenta melodia del sangue che in te scorre
anima mia, dir loro, anzi che questo sguardo
di mancate agnizioni
l’aggirarsi casuale dove il vuoto risuona
il tuo passo d’automa trasognato e disforme
il filo delle labbra una catena che apri chiudi apri senza suono
Forse un segnale,
ripeti versi tra le foglie
[3]
Mentre pentita al bordo del villaggio
attacchi il piede indietro a quello avanti
la linea inseguendo o disegnando
che isola il villaggio dallo spazio
ti vidi batterti il petto anche le spalle
-per lo stolto tuo peccato di essere-
-e per esso-
saltellare festante attorno attorno
ridda invasata sulla linea a calce
che in cerchio isola il villaggio
[4]
Forse la sera, quando le cose vanno al loro posto
per convenzione (non ontologicamente, s’intende)
forse la sera per convenzione (per un sentire indotto, cioè, ma motivato)
la sera forse
le parole che si sono scritte (e nel giorno movevano i pensieri)
le parole sono figure che attraversano la sera
[5]
Franz Liszt
«Non chiedermi quello che io stesso ignoro. Il mistero che vuoi penetrare non mi è stato rivelato. Io vengo da un paese lontano, di cui non mi rimane alcun ricordo».
I movimento
Scrivevi che nulla rimane, nella torpida visione. Come un eunuco, come un fanciullo, il misterioso viandante -un ermafrodito o l’Ermes?- rivela la mancata rivelazione.
C’è un sapere nell’assenza.
Era questo il segreto: che nell’ignoranza, nella scienza dell’ignorare, si cela un’antica sapienza, il segreto, quasi, del cosmo.
«La forza che mi spinge è muta e non m’indica la strada» ti dissuade l’enigma che insegui, l’uomo dalle spalle di tempesta, non seguirmi, inutile speranza.
Era muta, diceva e ti descrisse le meraviglie del sogno, l’incomprensibile colore della sera, l’armonia segreta dei venti, la musica la musica
II movimento
Terra lasciata alle spalle estesa nell’animo in lande traversate dal solenne ricordo di un fiume
tutto tutto attende alla musica nella caverna stanca del viaggio
Volgere alla propria terra le spalle per ritornarvi
il cammino segnato dal filo liso della nostalgia
Visitare città con la metafora della provenienza scandita in note battiti difformi
il suono del suo nome amplificato dalla cassa armonica del desiderio
il pellegrinaggio un ritorno reiterante
III movimento
Se quella forza è nemica, perché questi sogni divini?
ti chiedeva il viandante chiedendo a se stesso, Se benevola perché questa pena che mai trova requie?
«Addio» disse e s’allontanava facendoti riaffiorare in te stesso
come il silenzio, inespressivo, come lo sguardo, vuoto, come la pallida fronte della miseria o della conoscenza, la languente armonia l’ineffabile arte
[Vedi la Lettera di F. Liszt al Signor Lambert Massart, Gazette musicale, 2 settembre 1838]
[6]
vicino allo smalto scrostato del bacile ad un coccio spezzato nomepoesia ti taccio le crepe ai muri i pezzi di calcina il letto stridulo ti taccio un rubinetto perde a ritmo l’attimo d’acqua il tuo nome mi spacca vorrei annientare il tempo che ti ha dato crearti quando voglio come la goccia un attimo disperderti spezzare lo stampo in gesso rubare la voce con cui dici io averti infilata in questa crepa come un filo di paglia fra le labbra una cosa qualunque che per anni è lì poi un giorno uno viene getta via nomepoesia e nessuno s’accorge
così di te vorrei
[7]
Lana di ferro il tuo corpetto
all’abbracciarti urti sul petto l’irriti
e il tuo, trafitto, si imprime di incisioni,
piccola asceta da insensato medioevo
che i fianchi ti cinge scandisce le tue ore scava i cibi
mentre affebbrata ogni sonno ignori
gli occhi perenni dalle fosse muovi tuttintorno
e in avanti forando anche la notte con lo sguardo
o con il mite orrore della tua lunga cerca a piedinudi
A volte la poesia è più grassa, la invitano a cena anche i poeti, gli amanti, cultori, ricchi, gli annoiati, chi se ne intende, i fautori, poi gironzola i bar siede ai caffè, sa stare al mondo al mondo accetta, e nutre il bello
Ma tu, pure se taci sei fastidio, lo sguardo smarrito, riempito da guance cave il silenzio, come su schermo di cinema ti scorre addosso la teoria affollata delle facce che in questo istante muore per fame silenzio lo stupro irrisione, sgozza il cannone o che altro, cadi tra gli astanti come la mosca nello champagne, c’è da gettare via tutto quando arrivi
anche le cose
deliziose
Da: Allì Caracciolo, Malincóre (una fonologia del vuoto), Cittadella (PD), Amadeus, 1996.
[8]
tras-figurazioni sublimi per leggere la vita | divinità del dolore-uomo |
plasticità del vizio | amore perduta nobiltà feroce |
tale
vorrei di te – poesia – ( come a promessa ) e renderti divina ma vieni da
( vivi in ) una mí
seria nuda
e ti stendi sul greto stancamente a vendere quel po’ di amore che ti ricava dalle tue cóscescárne
un piatto di minestra
[9]
l’impercettibile vuoto
dove tutte avvenivano
tutte si perdono
le mutazioni
[10]
Prolusione affidata all’oralità
Non parlerò della mia attività di poeta
per coerenza con una biografia intellettuale scandita dal silenzio: quello
imposto /dalla poesia
\da me
e quello imposto da altri
con la differenza sostanziale della violenza
(l’esortazione cioè quotidiana a vivere senza annunciare la qualità definitoria della parola simultaneamente alla sua precarietà
l’imposizione di un cursus in cui essa –la parola- sancisce qualificando gli adepti escludendo gli esclusi)
La sua irrinunciabile diversità –della parola- è il memento del poeta: la parola come il tempo rovina via, precaria ed irripetibile è teatro che vanisce
Non potrà la poesia mai acquisire la sostanza dell’auctoritas poiché questa istituisce il déjà-dit
L’inespresso, tuttavia, non può sostituire/costituire poesia.
L’unico silenzio è una poesia che si destituisce da se stessa.
Cogliere questo istante è il mio (vocazione imperativo identità) mestiere.
Dal Poemetto Abbozzo per Campana. La Insomiglianza, in La Insomiglianza quattro poemetti, Salerno, Ripostes, 2007. [Finale della II parte, III parte]
[11]
II
[…]
stabilire metafore
tutte
ogni possibile metafora
per rintracciarne una sola
essa
quella che ti fa vivere
oppure si cela nella identità di somiglianze
lontane fino allo sradicamento totale
alla inversa sostanza
alla
ínsomiglianza
scrivevi versi sulle foglie
Sibilla stanca
talora attenui il tuo corso
il gemito dell’antro tutto risonante
tempesta di vento o di sospiri
l’urlo
trascina le foglie non la musa assopita
– sognava danze
o
altro –
l’urlo che imbianca le colline
col rovescio argentato delle foglie
sonagli
le serra
la libertà un filo spinato da scavalcare
le distende argentine
garrule sulla cresta dell’onda
la libertà una ruggine
sonagli
le serra risonanti come la catena
le serra il catenaccio
la libertà
una setticemia dell’anima
III
poesia
evanescenza che non torna
Andare andare
e poi
la muta orgia sbranamento furioso
Venga la morte pallida e mi dica
verrà
l’oscura baccante a divorare
l’ingordigia e il silenzio
tutto
fu taciuto
Andare andare
e tu bagliore
Nel dolor d’infinite morti amare
vanenteuridice ferma all’attimo
in cui tendi le braccia ti dilegui
tu
poesia
………
Da Allì Caracciolo, Stampe da manoscritti apocrifi (pubblicazione in corso).
[12]
Teoria del romanzo o altro
. Il rapporto tra i personaggi. la loro qualità : assenti indecifrabili. definiti una sola volta da un segnale di frase.poi perduti per sempre
↓
che non mira a definire alcun personaggio alcuna qualità.solo a sottintendere una parziale memoria·una presunta allucinazione da cui
il senso -l’unico : parziale·presunto-
dell’esistenza.
. L’assenza di pagine : poiché il numero -o il Numero- c’è -quando c’è-
ma è altro. tuttavia
↓
una numerazione scandita attraverso parole che percepiscono il fieri momentaneo è attestata -talvolta- nella precaria situazione di un capolettera o di un precipizio sulle/delle parole:
piuttosto sulla assenza.
. La capacità -qualcosa di occulto- di contenere uomini animali cose si sottrae : l’atto unico consentito al movimento dal quale dipende tutta la successione-simultanea dell’essere nelle sue metamorfosi. la scansione____una lunga linea interminata stabilita dalla necessità di ricondurre la parola ad una qualche permeabilità con lo spazio
poi:
la condizione asituazionale -schermo·paradosso della asensorietà delle cose. della improbabilità del reale-
. Il tempo____una assunzione del predicato necessitato a coniugare se stesso nei framm enti dello specchio : illusorio passato·frammento·falsofuturo_
una negazione riprodotta ad infinitum nel nulla·assenza e -pure-
riflessione-rifrazione di un oggetto inidentificabile nello spazio che lo produce come necessità ultima della propria credibilità (metafora : bubbone stanco sostituitosi alla materia) tuttavia:
(gli squarci della lirica ne individuano -a tratti- i bordi frastagliati l’umore di ferita l’abisso senza fondo della sua profondità cancrena).
. La sapienza -la ignara sostituta della conoscenza- frantumata nelle piccole pieghe di un particolare ostinato a non trasmettersi e a qualificare il reale : o non piuttosto l’esistenza?
. La legittimità -infine. requisito assente dell’origine : la sua assenza
delegittima l’esistenza. o non piuttosto l’essere?
↓
la autodefinizione attraverso la parola
o attraverso
il silenzio
anche il silenzio -invalso idolo-
un esposto sulle scale del tempio.
Italo Testa (1972), vive a Milano. Ha pubblicato per la poesia il concept album «canti ostili» (Lietocolle, Como, 2007), la raccolta «Biometrie» (Manni, Lecce, 2005, premio San Giuliano Terme/Poesia Incivile) e il poemetto «Gli aspri inganni» (Lietocolle, Como, 2004). Ha ottenuto per la raccolta inedita i premi Dario Bellezza e Eugenio Montale. Suoi testi sono apparsi in antologie, tra cui «Chaos and Communication» (Link Diversity, Sarajevo, 2001), «Così non ti chiamo per nome» (Empiria, Roma, 2001), «Nodo Sottile 3» (Crocetti, Milano, 2003), «Parco Poesia» (Guaraldi, Rimini, 2003 e 2004), «Il presente della poesia italiana» (Lietocolle, Como, 2006), «Poesia e natura» (Le lettere, Firenze, 2007), «La joven poesía italiana» (Cuadernos del matemático, Madrid, 2007) e su diverse riviste, tra cui «Portals. A Journal in Comparative Literature», «Gradiva», «El coloquio de los perros», «Atelier», «Almanacco del Ramo d’Oro», «Pelagos», «Nazione Indiana», «Il primo Amore», «Poesia da fare». Ha pubblicato saggi in volume e su riviste, tra cui «aut aut», «L’ospite ingrato», «Il ponte», «Reset», «La Società degli Individui». E’ co-direttore della rivista di poesia «L’Ulisse» e, presso Diabasis, della collana di saggistica «La Ginestra».
Dell’etologia poetica
1.
L'impulso all'espressione, dapprima tensione mimetica ad assimilarsi alle cose, si arresta nella cesura formale, con un colpo all'indietro che lo riporta su se stesso. Solo di qui è possibile un ritorno alle cose, ora prossime perché estranee. Così l'adattamento non è puro conformismo, bensì tensione che trasforma, metamorfosi. In questa direzione la poesia supera la forma tradizionale delle architetture verbali, basata sull'opposizione figura/sfondo, e si riallaccia alla concezione topografica figura/figura: diventa elemento sporgente ma fuso nel terreno dell'esperienza. La figura, mentre si integra nella topografia del luogo, insieme ne deforma il profilo, escrescenza linguistica che genera nuove forme di vita, inedite morfologie linguistiche. Come un un'arte del paesaggio essa s'innesta nel terrain vague, tra i margini inselvatichiti di parole e cose, rinvigorendone gli arbusti e rendendo riconoscibile la silva dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti.
2.
Così, con cura biometrica, l'ars poetica continua la sua tessitura, anche quando le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano. Il grado zero della cultura, che in certi momenti sembra prossimo come non mai, è forse anche un'occasione per la poesia che, come pratica istitutiva, non necessita, nel suo fare paziente, di una legittimazione esterna. In questa prevalenza dell'agire, del fare, la scrittura poetica torna alla sua qualifica di ape operaia, di silenzioso e operoso artigianato che tesse una tela mai pienamente aggiudicabile ideologicamente. Certo, vi e' anche la resistenza dai margini e la salvezza dell'esclusione: ma qui la poesia resiste proprio perche' viene meno il lungo errore dell'appartenenza piena. Quando il tutto che la teneva coesa come pratica culturale si dissolve, la poesia continua a sporgere da quel terreno guasto, facendo segno ad altro. Non piu' sorretto o puntellato da un sistema riconosciuto di valori, questo gesto, acme dell'individuazione, torna a poggiare sull'etologia poetica della specie, ma proprio in questa nudità si osserva dal futuro.
Da Come non torni. Quartetti per la fine del giorno, inedito, 1990-1995
INVITO
Silenzioso il cielo sussurra inviti
ad abbandonare l’arsura, lievi
le vostre voci un cristallo raccolga.
Grumo immemore attende nel tepore
di una calda palude: non ala, battito
che franga lo specchio d’acque oscure
anteriori al giorno.
*
Come non torni, che sgocciola
e fa buio, quasi si leva
dai fossi uno spicco d'urlo,
non sai che in povertà
si consumano bosco e cielo,
un ramo che nella nudità t'incarni,
come non parli, del crollo della vigna,
dove nascosto ancora pregavi,
è vuoto il cesto degli aculei
e tu non torni, la stanza è vuota
di un nulla, un’attesa vigile
che un qualche fuoco arda,
perché non mormori la condanna,
il casolare ormai deserto,
solo ombre quelli che ti cercavano,
quell'ultimo rintocco.
CONGEDO
Come la vita che scorre intatta
e attraversa la notte: la perdita
è paglia e il silenzio è dono.
Da Gli aspri inganni, Lietocolle, Como, 2004
I.
Devi fare attenzione, orientare lo sguardo
in direzione del flusso: è bianco il velo
che lambisce i contorni, che accieca:
tu al bianco devi cedere, muto
aderire all’indifferenza delle cose.
II.
Misura il respiro, lascia aderire
alle forme dell’inganno le membra;
le ossa tenere sfiorano il suolo
a cui il peso dei giorni trattiene
come brocche dai cieli bagnate;
raccogli, lascia variare i silenzi
di cui nel vetro dell’aria t’investi;
tu lascia vibrare ancora i colori:
se al docile buio un’ombra t’inscrive
inarca le spalle, al vuoto confida
il resoconto terrestre, gli aspri
inganni delle forme: tu socchiudi
il passaggio, lenta lascia pulsare
distante la peripezia del tempo.
III.
Se cadi e l’ala non sorregge i passi
che nell’azzurro il corpo in volo traccia,
lascia scorrere l’inganno splendente
ogni cosa fa segno all’estraneo;
se nel velo la pupilla si annoda,
coda di volpe l’incanto assopisce
dal manto del giorno schiuma apparenza;
chi perde il sentiero presto fiorisce,
cadendo nel vuoto il taglio richiude
da cui insanguinato un giorno ti levi;
se al suolo un’ombra serena aderisce,
lascia vibrare ancora i contorni:
la misura si compie, il segno traccia
una nuova voluta nell’aria.
Da Biometrie, Manni, 2005
RETINE
Di ora in ora, appena scatta un allarme
da qualche parte una luce si accende
tra le tende il tuo corpo si nasconde
dalla donna che nella stanza dorme.
Poi dal frigo un sibilo si propaga:
imbevuto di una tinta acida
il quadro luminoso della strada
sovresposto sulla pupilla dilaga.
Se un elicottero verde veleno
sovrasta le insegne della notte
battendo ai vetri, dal decimo piano
manda il tuo segno al profilo alieno
fondi la retina al cerchio radiante
del dio in acciaio metropolitano.
SEPOLTO, ASSOLTO
nel limbo di specchi io mi addoloro
su questa pietra tatuata nel gelo
nell’abbraccio freddo della marea mi verso
se dalla schiuma del vetro riemergo:
vedi dell’oscuro le tracce, i lembi
sfrangi, ammutolito, nel buio:
discanti il gelo, nel taglio di un mondo
la semina dei giorni disperdi:
nel sonno, io, sepolto assolto
dall’evento tendo il profilo
la cornea sull’incavo del giorno:
preso nel laccio non vedi figure
nel fondo del sogno scendi, ricadi
frammenti di specchi:
KARL-MARX ALLEE
1.
niente avrebbe detto, quell’intercalare
fatto di brevi sospiri, soffi
nel ricevitore,
alterne attese, ma non c’era
malignità in quelle parole,
anche se avevano
la durezza di un vetro,
quasi gli uscivano senza volere, niente
a che fare con le minacce,
i ricatti che erano
il tessuto di quei colloqui,
niente era
il suo intercalare, e lì, in quel tic,
potevi leggere la conferma di quello
che pensava, lamentoso
o sprezzante: niente
2.
camminavi con gli occhi chiusi,
o con le palpebre arrossate,
come di chi avesse pianto.
Ma non avevi pianto.
Niente hai detto, non è stato niente
un’increspatura sull’acqua, una spirale
sulla sabbia:
ad occhi chiusi filtrava
la forma vuota delle nostre vite
in attesa
la geometria lineare della Karl–Marx
Allee
nel breve declino d’Agosto
due ombre nella fuga di vetrate
tra la polvere dei cantieri: dal niente
la selva di specchi profilava i tuoi occhi
una notte qualunque a Potsdamer Platz
3.
Inizio dell’estate sotto la nuvolaglia
della Ruhr.
Ti dibatti ancora nell’ora
del falso sentire: in proroga concedi i tuoi
giorni, come se il carico
fosse inesauribile
è ai doveri verso te stesso cui sfuggi
perché di te stesso disperi.
Ti allontani, vorresti uscire dal sentiero
per incamminarti nel folto:
detriti di stelle
osano ricoprirti, come artigli
si configgono
Da Canti ostili, Lietocolle, Como, 2007
DISARMATI
ostili, sì, alla vita
sbandiamo sulla traccia
illuminata a giorno
intorno si dirada
il folto della macchia
sull'altopiano arioso
ad altro è inteso il chiodo
puntato sulla tempia
nell'ora che si sfalda
e rapinoso un volto
rimanda svelto un cenno
che al mondo ci disarma
IMPLACATO
il sangue che non hai versato
alla battuta d’armi
sui calanchi franosi: sbanda nella luce, gira e cade
ma la neve, dice, la neve…
l’amore che non ha dato
frutto alla terra
in gesti netti e operosi:
è il 24 aprile, ma cade, cade…
la paura che non vi ha stretto
addossati ai muri
sotto i colpi esplosi: così al campo, che ha arato
offre le labbra e confida
II
qui, nei vostri poderi,
ricalcando i passi
dove la storia ha fissato
una tranquilla dimora,
prendiamo possesso, noi
di un tempo che frana,
per una traccia andiamo
che a voi ci riconduca:
e fiutiamo, se il vento gira,
con le narici umide di brina
un sangue, implacato, nella neve: ma canta il dolore che accomuna
e una lepre, in fuga, sotto i gelsi
(Monte Falcone)
SARAJEVO TAPES
VI [16 luglio, spalato: h. 9]
un bagno d’ocra, di rocce, di scaglie t’accoglie
muri a secco e alle fermate d’autobus
murales stinti con bottiglie di pepsi
per vie d’acqua, confluendo la macchia verde
si penetra all’interno
il perimetro del mare ritaglia in occhi verdi
laghi cinesi, una cartolina dal mondo:
lasciati invadere dall’inganno dei colori
lascia scorrere i profili
gli occhi degli uomini furono fatti
per guardare: e lasciateli guardare
***
VII [per mostar: h. 16]
mi dicono che i tuoi occhi sono vuoti
mi dicono che i tuoi occhi sono stupefatti
segui lo sventolio dei drappi
il rosso, il bianco, il blu
distesi tra le rocce, sulle case
in costruzione a fianco della strada
mi dicono che i tuoi occhi non vedono prati
mi dicono che i tuoi occhi s’incantano
conta, ad uno ad uno,
i parallelepipedi bianchi
le bianche distese, da ogni lato
l’abbraccio del paesaggio
fitto di cippi, giallo di luce
mi dicono che i tuoi occhi si dissipano
mi dicono che i tuoi occhi, i tuoi occhi
a seguire le cave di sabbia sul fiume
dopo mostar, i mucchi di sabbia e di terra
scavati, nella luce, senza ombra,
per ogni gruppo di case una distesa
di pietre bianche, erette, immobili
Maria Paola Svampa è una laureanda in Letteratura e Filologia Moderna e Contemporanea dell’Università di Macerata. Si interessa di poesia di lingua inglese ed italiana del 19° e 20° secolo, scrittura delle donne, e di studi comparatistici. È in programmazione l’uscita di un articolo sul Sublime kantiano nella poesia di Letitia Landon, presso Literature Compass (Blackwell Publishing). Attualmente si sta occupando dei rapporti ideologici ed editoriali del Rinascimento Americano con la poesia Vittoriana.
Solvitur Ambulando. La poesia come incontro.
Io non ho un programma, squadrato in bianco e nero, piegato netto in tasca, da squadernare a piacimento. Al massimo – passeggio – leggo, e prendo appunti. E tra i miei appunti – tre punti mi stanno a cuore – il corpo, la performatività, e l’incontro.
Doppia chiave
Che la scrittura delle donne sia una scrittura del corpo non vengo certo a dirvelo io. La “questione” sta semmai in come questa chiave (di lettura, e legatura) venga usata, ed abusata. Come tutte le chiavi, la si infila per aprire, ma anche per chiudere.
La porta della mia stanza è una di quelle vecchie porte a doppia chiusura, con chiave e chiavistello non comunicanti. Un chiave esterna serra e disserra a capriccio la stanza – e all’interno tiene un chiavistello, che stringe la stanza da dentro, e si schiude solo per scelta. È questa incomunicabilità, di chiusure ed aperture, che genera la relazione. Con una sola chiave, con una sola serratura, non si dà tensione, ma rapporto di potere – dentro, fuori – non si dà comunicazione.
La parola del corpo ha avuto il merito di schiudere l’ingresso al laboratorio dell’esperienza poetica. L’errore sta nell’usare poi questa parola del corpo come serratura singola ed inerme, da aprire – e soprattutto da chiudere – a chiave, da fuori, senza considerare la controparte interna. Far riferimento sempre, comunque, ed acriticamente al linguaggio del corpo quando si parla di scrittura delle donne è una seduzione macchiata di cattiva coscienza. Non fa che perpetrare l’antica equazione “donna uguale corpo”. L’insidia sta nel fatto che essa seduce la stessa parola delle donne, spegnendone il carattere. L’adulazione programmatica e normativa della “specificità” della nostra parola ci incasella – la chiave ci chiude in cella, ancora ed ancora ed ancora: fine dei giochi. Se la parola delle donne è automaticamente una parola del corpo, allora c’è poco d’altro che essa possa dire. Come se la “mente” esistesse fuori dalla carne, e come se anche gli uomini non pensassero da “dentro”.
L’errore sta nel pensare che la scrittura delle donne parli semplicemente del corpo – e come tutti sappiamo, ogni brava donna se ne sta prima di tutto dentro al suo corpo, a fare l’amante, la mamma, la vergine. Questo rende la parola delle donne irrimediabilmente e costitutivamente isterica, e ne stronca la portata trans-gender.
Le donne non parlano del corpo – parlano dal corpo. Parliamo da un luogo ineludibile ed incancellabile, con la consapevolezza che quando si parla – o si legge – non si è mai originariamente illibati, intoccati dall’esperienza, e che quest’esperienza avviene solo nel corpo. Il corpo non è solo il corpo femminile – ma è la modalità dell’esistenza e della riflessione umana. Il corpo non è una chiave di lettura, ma la carne ineludibile e calda dell’esistenza, ed anche dell’esistenza del testo. Il corpo non è uno strumento critico, ma dato fattuale e pulsante. “My body is not your battle-ground”, dice Mohja Kahf nelle sue E-mails from Scheherazad. E non va trattato come tale. Nè sulla pagina, né sulla piazza.
La parola delle donne ha il merito di aver aperto e reso centrale l’essere materialmente “locato” del soggetto parlante. A chi legge non spetta una preoccupazione definitoria e circoscrivente, non l’uso arbitrario e rassicurante di una chiave. Chi legge è tenuto, è chiamato ad oltrepassare la porta, a scoprire il proprio pensiero come irredimibilmente locato nel proprio corpo. La novità della poesia delle donne, semmai, sta nel “pro-vocare” il lettore a ri-conoscersi come soggetto incarnato.
Prendere la parola
Una parola che nasca consapevolmente ed intenzionalmente dal corpo impone per coerenza una riflessione sulla stessa sul fenomeno della produzione linguistica. La parola poetica, e forse non solo essa, non nasce come parola astratta, come puro pensiero tradotto su supporto materiale. La parola poetica è di natura fisica già nell’istante del concepimento. Il verso nasce come pensiero in ritmo, e cioè come spostamento sonoro, e quindi fisico, sensoriale, attraverso il cronotopo.
Ma un verso, per realizzarsi come tale, deve ovviamente essere fruito, e riconosciuto come tale. La lista di personaggi da scomodare in materia è infinita, e passa per Sartre e Marziale. Un verso allora, se nasce come unità ritmica, come nodo indistricabile di carne pensiero ed azione, e se si compie solo attraverso la fruizione, può essere valorizzato dalla performatività.
Ma con performatività non si intende solamente “l’offrire pubblica lettura di un testo poetico”, attività peraltro utilissima ai fini di riattivare il rapporto con il pubblico. La performatività è una struttura profonda del testo poetico. La parola, ed in particolare la parola poetica, nominandole, chiama le cose all’essere. Questa è la natura prima e costitutiva della performatività del linguaggio poetico (e non solo). La parola poetica nasce come stringa ritmica il cui movimento sonoro attraverso lo spazio ed il tempo costituisce elemento fondante della significazione.
È a questo punto piuttosto difficile immaginare un testo poetico che “non funzioni” nella performance, o un autore che “non sappia” leggere se stesso. Quando questo accade, siamo di fronte ad una mancanza. Una mancanza che può essere intenzionale, e che quindi diventa strategia (anti)comunicativa, rientrando così nell’ambito della performatività; ma che spesso, purtroppo, è solamente una mancanza inconsapevole.
Pensare alla lettura, e perché no, anche alla lettura a voce alta, e alla lettura reiterata come avvicinamento al testo non significa solamente prendere atto della natura del testo poetico come pensiero materico. Significa anche aprirsi al fruitore sin dall’inizio, sin dall’atto creativo, ammettere alla coscienza che la creazione è un atto sociale, liberandosi così dalle mitologie solipsistiche.
La poesia in cammino
La parola è un’arte impura – e sporca è la poesia. La parola sarà anche ombra di un’idea – ma porta addosso l’odore del mondo e di ogni luogo in cui è stata. La poesia s’impasta fango d’albero e sputo di seppia, asciugato dalla polvere della via, perché tutto – è – materia. Soprattutto in poesia, fatta di ragioni, misure, metri, piedi...
La “ragione” di un testo poetico è nel suo libro conti, elenco bruto, economico, ponderato, valutato, misurato. Nel libro di conti s’incontrano calcolo e materia; la sua misura sana la frattura (tutta immaginaria) tra l’astratto ed il concreto, tra un passato di cui dar conto ed un futuro da programmare – proprio come avviene nel testo poetico. Il libro conti possiede tutta l’oggettività d’uso che gli viene concessa da chi lo usa, da chi lo interpreta. Il libro conti non sta a sé ma, legato alla “realtà”, lega chi lo redige e chi lo legge.
La poesia è fatta di misura. È fatta di movimento – scorre, s’impunta, ristagna, procede a salti, si sustanzia solamente nello spazio e nel tempo. La misura è un palmo di strada, uno dopo l’altro, scopo, ragione e mezzo costituente del viaggio. È la misura fa il viaggio – e la poesia, che si fa viaggio. La misura è una curva percorsa, la misura è carne numerica, la misura ci fa, e ne disfa il senso.
La scrittura dunque innesca un incontro tra pari, in cui chi legge conta tanto quanto chi scrive, chi dispone del testo conta tanto quanto chi lo propone; essa genera una democrazia della differenza, della donazione di senso, dell’ascolto, della costruzione. Il testo è una strada, ed è su questa strada, in questo viaggio, che avviene l’incontro, o meglio molti incontri. Incontri combinati, a volte; a volte appuntamenti al buio.
Se mettersi attorno al testo – leggerlo, scriverlo, parlarne, anche solo osservarlo – significa mettersi in strada, allora tutto ciò che possiamo sapere del testo non è che conoscenza di viaggio, o meglio, conoscenza in viaggio. Non possiamo parlare di viaggio (fisico o meno che sia) dal centro di una fissità, senza aver accumulato miglia e miglia nei piedi e nella mente, senza accettarne il carattere precipuo di incontro in movimento. E se la poesia è un viaggio, non possiamo accostarci ad essa muniti di concetti “incellophanati”: per andarle incontro dobbiamo essere disposti ad intraprendere ogni volta un viaggio, con tutti i rischi e le rivoluzioni che esso comporta. Perché un viaggio interroga le origini, e talvolta le modifica. E così se la teoria legge la poesia, oggi la poesia usa la teoria, la piega, la celebra e la sbeffeggia – le getta il guanto di sfida. Oggi, sta a noi lettori raccoglierlo.
Non si tratta di abbandonarsi all’impressione fuggevole di una “esperienza” passeggera, ma di mettersi, ogni volta, in umile ascolto del testo. “Rimanere presso il lavoro” diceva Cézanne. Io sto dalla parte del lettore. Avvicinandoci al testo non siamo mai vergini. Né possiamo “uscire” da noi stessi, spogliandoci della carne del nostro vissuto e delle nostre conoscenze. Ma non possiamo limitarci a leggere il testo come uno specchio entro il quale troviamo conferma delle nostre teorie e delle nostre conoscenze acquisite. Un testo è una chiamata ad un incontro – sta a noi metterci in cammino, e intraprendere il dialogo. Un testo si scioglie solo percorrendolo.
I testi che seguono sono delle missive, degli appunti di viaggio, ponti caracollanti, dialoghi forse impossibili tra i soggetti, ma tentati – tra il testo e il lettore. Le miglia marine e terrestri sono il segno di una distanza incolmabile eppure cercata, ribadita come autoaffermazione, esuberante o ripiegata. Tipi e generi di una tradizione (auto)ironicamente usurpata e miscelata in fondante ambiguità non hanno il valore di un compiaciuto capriccio combinatorio. Questo è un tentativo, seppur barbarico, di rimettere in moto nel testo le tradizioni, i generi, i pensieri, le parole, la carne, così come essi sono simultaneamente all’opera nel reale.
Testi poetici
la selvaggia sul ponte
Distesa coll’odore appena amaro • che amo incassato in faccia • io - sono - Berthe • Berthe dai begli occhi - Berthe la fraintesa - Berthe la disprezzata - Berthe bambina cattiva • che non ha mai scritto a te • Berthe rotonda e nera - tranne che al sole • bestia di questa terra • di sera - di nodi di lana verde • spighe e rivoli di fuoco - orlati di spighe ancora - spighe e fuoco • dentro e intorno agli occhi • Berthe che abita il mare • quel mare che per te era vacanza per me era l’unica via • e mentre tu giocavi con le vele - io mi aggiustavo gli alamari spianavo la mia giacca blu e consunta• come tintinnano dorati • i miei crini d’Achille - le mie ciglia bionde • Berthe piccina e nera - rotonda e nera • m’avvio lungo il molo • per saluto una risata • perché solo legata • al grande albero di pino bianco • Dio com’è bianco - d’alabastro diritto polito e mio • mia ancora - mio arpione - mio rostro in ogni senso • soprattutto in quello che non sai – capire – carpire • perché Berthe da piccola era Greta • e sosteneva che fosse già morta • ma era solo una scusa per non comportarmi bene • per tagliare quadrati di mare • e dare la colpa al gatto - si sa che ogni nave ne ha bisogno prima o poi • Berthe o forse Bertha • che porta il fuoco nei sogni • considerate le parole che inseguo - presto più presto • trafiggile con una freccia – la mia freccia d’ebano e calda • prima che s’acquattino nel buio – sotto la luna • le mie perle le mie - collane di perle • che da sola tendo tutt’intorno - alle impurità del mondo - a non ferirmi la carne • e non sono le vostre collane • angelo ninfa e musa no grazie • a me • lasciate • il desiderio • ad essere una pagina bianca – e nera • non mi sono ancora • arresa • Berthe la malappresa - Berthe rotonda e nera • nena • Berthe l’ispanica – dai capelli rossi • Berthe che ha come sempre • troppo sole spalmato addosso • e ne brucia l’aria d’intorno • finché non s’affievolisce il fiato • e allora ride – mistero superiore • di sé – di te – e di tutto il resto
Poesie inedite
Luigi Trucillo è nato a Napoli nel 1955. Ha pubblicato Navicelle, Cronopio, 1995, Carta mediterranea, Donzelli, 1997, Polveri, Cronopio, 1998, Le amorose, Quodlibet, 2004, Lezione di tenebra, Cronopio, 2007. Una scelta delle sue poesie è apparsa in Germania, sulla rivista Akzente.
Sono sempre stato attratto dalla sintesi, il repentino processo attraverso cui il mondo ci si dà. Così mi è sembrato naturale tentare di creare con i miei versi una più complessa sintesi derivata dalla contrapposizione dell'elemento percettivo con quello analogico e astratto.
All'inizio della mia ricerca poetica, quando cercavo uno spessore allusivo della singola parola che attraverso la precisione arricchisse di significati l'essenzialità del verso, mi sono imbattuto in una definizione di Ezra Pound dell'Imagismo che per me è stata fondamentale. "Un'immagine - diceva - è ciò che rappresenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo." La fulmineità del potere evocativo della parola poetica adombrata in questa frase, e l'istantanea liberazione dalle barriere spazio-temporali ad essa inerente mi sono subito balzate agli occhi, convogliando i miei sforzi sull'elaborazione di un'immagine non astratta, immediata e frutto dell'intuizione. E quindi, per deduzione, su un'immagine attraversata dall'irradiamento preciso della brevità.
Con coerenza intellettuale, inseguendo una forma visiva e immediata in cui un oggetto esteriore riuscisse a saettare in un movimento soggettivo, Pound si era avvicinato alla "poesia di una sola immagine" dell'haiku orientale, e cioè a quella cristallizzazione di sintesi sensibili che tanto mi affascinava anche da un punto di vista epistemologico. Ciò mi ha inevitabilmente condotto a uno studio dell'ideogramma cinese. Val la pena di ricordare che i primi ideogrammi nacquero come imitazione dei segni che comparivano sui gusci di tartaruga. L'ideogramma veniva quindi immaginato come il prodotto dell'autoscrittura di un cosmo che si rivelava in figure. Nasce così l'dea della scrittura come calligrafia: il poeta deve immedesimarsi nel soffio nascosto delle cose, essere in consonanza con la vibrazione invisibile che le sostiene, per manifestare poi questo contatto in una calligrafia che non rappresenti il soffio stesso, ma direttamente lo divenga. Ciò crea una parola-figura che coglie l'istante in cui significante, significato e referente sono tutt'uno. Il senso ultimo di questa parola-figura non va individuato nel contenuto, ma coincide con la materia significante (il col,ore dell'inchiostro, per esempio, o lo specifico tratto calligrafico: istanti in cui il cosmo si rivela segno di se stesso).
Qui si può solo accennare come la nascita del nostro alfabeto occidentale, quello greco che sviluppava il sillabario fenicio, isolò le vocali per trascrivere meglio la poesia epica (fondata proprio sulla scansione delle vocali) che veniva vista come voce della verità. In Occidente la scrittura appare subito, quindi, come trascrizione di una verità che si manifesta al di fuori della scrittura stessa. Da ciò deriva che la scrittura si manifesta come un sistema di differenze tra la verità e il discorso dove non è mai possibile una coincidenza tra il soggetto pensante e l'oggetto pensato. In poche parole, come un'interpretazione deviata.
Queste le coordinate. Poetare la sensazione e non il termine astratto: ecco il suggerimento di un ideogramma che anche in Occidente può essere riformulato attraverso delle nuove sintesi sensibili. È facile comprendere quanto la strada orientale aperta da Pound nella sua fase imagista contenesse già in sé la poetica germinale dell'stante creativo poi sviluppata, ad esempio, da René Char. L'ipotesi di un'immagine non stazionaria che smuovesse la centralità dell'io lirico ha convogliato la mia ricerca poetica facendola sfociare nei paradigmi della tradizione orientale: l'irradiazione, la condensazione, la ricerca dell'implicito, il contrappunto con il vuoto, la risonanza sensibile, l'immanenza sorgiva. E soprattutto la brevità.
Una poetica in cui "lo spirito aderisca all'atto nel momento del suo presentarsi" (Char) è necessariamente fondata sulla brevità. Che potrei definire come una formulazione direttamente pensata dalla lingua. Ma è anche basata sulla sensibilità, intesa come spazio della risonanza tra significato e significante, tastiera invisibile che attraverso lo stimolo delle allusioni decifra ed evoca l'inarticolato. Nella stesura dei miei versi è sempre presente il fantasma di un ascolto, proprio perché considero la sensibilità uno stato di percezione linguistica rivolta ad afferrare nel ritardo (penso al ritmo di Barthes) un'esperienza vissuta dei segni.
Attraverso la propria potenza di spostamento la brevità focalizza: restringe cioè il campo d'azione del linguaggio in un dettaglio istantaneo carico di aura che condensa l'eccedenza dei significati rispetto al singolo significante. Il tentativo di alludere a questa zona "bianca", all'irradiazione delle potenzialità non ancora formulate del linguaggio, si esprime con evidenza nei miei primi tre libri. La ricerca tuttavia di una versificazione più ampia a partire da Le amorose non coincide con l'abbandono di una tematica della brevità, convinto, come ho scritto, che "breve è ciò che, staccato, rivela una lunghezza." E cioè che la forza abbreviativa possiede una propria intrinseca autonomia. Attraverso l'essenzialità ho voluto rivelare come anche nel formularsi della rappresentazione si annidino cellule e schegge linguistiche capaci di isolarsi in un processo di autocondensazione. Anche nel fitto di un tessuto più disteso la singola parola può alludere a uno spostamento che apre un passaggio verso una presenza cognitiva primaria, l'apparizione di una risonanza sensibile che dilata il proprio effetto.
Sestante
Come un nume esiliato
Qui
nasce dall'angolo
stellato.
Avanzamento
Nuvole,
come un esempio di passi
ventosi.
Lo straniero
Un favo trasparente
carico di api
e miele.
Jaipur, monaco su un torrione
Cercava con lo sguardo
il giaciglio dei venti,
là dove si deposita
l'intuito.
Napoli, molo di Mergellina
Celeste la dieta
di chi impara
a cibarsi di mare
come un alga.
Palermo, bambino che sbeffeggia
L'asprezza
di una mora
su un fiocco
di bambagia.
Donna dall'ortolano
Nel folto dell'aria
la sua espressione incerta
e il rosmarino
profumano
come un unico
mestiere.
I sandali
Aperti
come i freschi sconcerti
infantili.
La bitta
Sui vecchi moli
con che puntiglio trattiene
zitta zitta
l'orizzonte sbiadito,
il celeste che slitta.
Vienna, giardini dello Steinhof
Preziosa è l'immagine
di un cane
quando dei denti
azzannano.
Heimat
Soffio
d'embrione,
la mia Atlantide
in punta di piedi.La responsabilità della scrittura
Quando incominciamo a scrivere cerchiamo una voce che ci assomiglia; parole che abbiamo sentito e dalle quali vogliamo ricominciare. Questo è il primo contatto con i maestri, nella vicinanza o nella distanza dai loro scritti e dal loro insegnamento: distanza attraverso i libri, vicinanza nel sogno che ricostruisce e trasforma le parole in altri sogni.
Fare poesia, dunque, è l'atto collettivo del percepire e dell'essere percepiti, del
chiedere e del dare conto; ricompensa o abiura non importa. E' la parola come sacrificio, cioè tramite del rendere possibile; dell'alzare il velo dell'apparenza che abitiamo.
Se la poesia è, in fondo, un dialogo col Nulla, con la natura deperibile delle parole e delle cose, essa deve prima attraversare l’umanità tutta, non c’è scampo. Forse è in questo attraversamento che si logora e nello stesso tempo si rende necessaria. Da questo punto di vista, dunque, non si scrive per narcisismo - è pura illusione - ma per attraversarsi. Attraversare il mondo.
Sento sempre di più questa necessità del ricevere attestazione e conferma; scrivere poesie presuppone il gesto della consegna, che è dono nella gratuità, e investe il lettore di un compito. Il lettore è colui che prende visione dei segni incisi, graffiati - questo vuol dire letteratura nella sua accezione etimologica - e se ne fa carico. Egli, tradendo il testo, consegna la tradizione del testo; ne permette il passaggio, il giudizio, nei tribunali della Storia. Il testo si fa giudicare.
La letteratura desidera ritornare a una sua concretezza. Desidera le cose reali, consegnate ai segni, all’immagine astratta dei segni. Questo desiderio non è più, s’intende, materia e carne delle cose, ma il nostos, la nostalgia di un ritorno impossibile. La condizione più naturale della scrittura, dunque, non è la scrivania, il salotto buono, e neanche il computer. La scrittura è ancora atto del graffiare sulla materia sensibile, dello sporcarsi le mani nei segni e disegni incisi nel grande libro dove la foglia è il foglio sono la stessa cosa.
La scrittura è transeunte: permette il passaggio e non rimane, ma rivive, nell'urgenza del nostro tempo, del nostro essere qui, ora.
Se è vero che ogni cosa, mentre vive contemporaneamente muore, la poesia non si sottrae a questo tragico destino e accetta di essere traccia cancellabile e labile. Ma non può rinunciare alla sua necessità, alla sua ineluttabilità: che non è ricerca di nuovo senso – sempre le foglie, noiosamente, cadono e rinascono – ma necessità del suo ruolo.
Ecco perché, a un certo punto, non servono più i maestri, non serve più la letteratura. Scrivere poesie è un gesto che improvvisamente ci lascia soli, nudi di fronte alle cose, agli altri, a noi stessi. Davanti al compito del dire senza gioco, inganno, ma con gli occhi puntati addosso.
Ho scritto libri senza necessariamente pensare a questo. Ma per presagio. Poi ho capito questo dalla lettura che gli altri hanno fatto dei miei libri. Lettore, ipocrita lettore, fratello.
Da La tua voce, inedito
All’insaputa della notte
quel fumo rappreso sul davanzale
portava i canti delle falene morte
il masso sospeso sulle teste
a ricordargli della fine
il primo villaggio
lo strato più intimo sotto
il taglio del lago.
Tu non conosci la pietra
e il segno di quella mano che
rovina nell’attesa.
Dietro le nostre sere, di
una piazza scolpita nelle parole
scivolata ancora più lontana
acerba nei ricordi dei poeti
- perché non sono mai stato come voi
perché non vi ho mai conosciuti
perché non mi siete mai appartenuti -.
Viscida, schifosa nella luce
mostrata veramente come la cena
della sera, qui, nel cerchio, e
consolato dalla durezza
estraggono a sorte, spaventano una
voce aprendola alla Storia.
Così disse, così rivide quello che
non aveva mai veduto, il ramo del
pianto, secco, l’indurita sentenza dei
poeti, questo sei tu, luce
inappagata, ombra rifranta.
Da Giornata, La Vita felice 2003
Tu non ridere di questo sconforto,
della pazienza persa, dei visi che mi
guardano e se ne vanno. Numi tutelari
hanno tracciato strade verso un silenzio
di ritorno, verso un niente che ritaglia gli occhi.
Non voglio più scrivere poesie;
da queste parole in vedetta
ci sarà il tempo di perdere tutto
il resto, tutto il niente che
non abbiamo ancora visto, tutto il
niente che non abbiamo ancora detto.
*
Terra incominciata, sei apparsa verso
sera in mezzo alle parole ed è finito
il mare. Il viaggio si ritrae per altri
anni, ma ora dobbiamo stare, finire il
lavoro che abbiamo incominciato.
Voglio parole in me, senza la musa
oscura che mi ha generato, senza la luce
dell'angelo. Omettere quell'oscuro presagio:
sulla soglia della casa ti perderai.
*
Esiste un ordine e un tempo,
cerco questo in questo tempo:
macerie all'inizio della Storia
un bambino prima di essere bambino.
Guarda cos'è stato il giorno
nelle ore della pioggia: qualcosa è
accaduto e ci siamo già dimenticati.
Esiste il finire di un luogo
l'imparare a morire come all'inizio.
*
Perdonami, non sono all’altezza,
non so dove andare.
Eppure devi restare
devi sorgere dalle lenzuola
devi capire, nell’amaranto delle fragole,
il sangue del crocifisso che ci schizzò in faccia,
ricordi? in quella scena dell’infanzia.
Avremmo dovuto distruggerlo per quella nostra
promessa, trapassare i suoi occhi come nei sogni
fondare una parola che dicesse il dolore
che valesse per sempre.
Ma ora dobbiamo restare
ora che la distanza è netta
ora che ci giudicano e
non accettiamo il giudizio
non vogliamo essere degli altri
come gli altri.
*
Allora qualcuno capisce che tutto è sbagliato
che le parole ci hanno ingannati,
uscendo da una gora
o forse semplicemente volevano dire
che non ci apparteniamo.
Sulla carta il pensiero è violento
calma simulata
fiato trattenuto per non ingoiare il mondo
contenuto, è ingannato dalle forme
per dirle ci separa, ci fa scannare.
*
Scrivo nel lampo che il fiore imprime in me
preceduto dal respiro e dalla calligrafia.
Allora è il vento che mi respira , fratello,
incredulo di un ascolto che a tratti mi governa.
Non c’è più tempo per l’armamentario di
me e della vita mia.
*
NERO SEPPIA
In questo paesaggio
rimangono due mani che vangano la terra
un albero gira ed è tutta la preghiera.
Vorrei essere semplice nel dire
come questo tuo parlare senza colore
l’inizio del segno, o solo la sua conclusione.
Gli uomini sono nel mezzo.
Qualcuno si è allontanato e
ci ha lasciati soli
i poeti rimangono in un cappotto
sono attenti, nella distanza delle mani.
Chi è necessario dice ciò che resta
e non vuole niente.
*
Occhi appena detti nella veglia
liberarsi dall’incanto della neve
delle figure che tornano e pretendono.
Non c’è niente che ci renda felici
non esiste un canto per onorare tutti:
i morti che ci hanno preceduti
i vivi che ci hanno accompagnati.
Chiudere le porte. Ora basta.
Ma i bambini, i bambini in un’aula dove
un mondo è possibile, dove i debiti
saranno rimessi, i bambini che insorgono e
ci chiedono di spiegare il dolore del mondo!
*
Di questo non voglio niente
della casa e del rito degli affetti
delle contese e della storia in un luogo
dove tutti vivono
della chiarezza che pago a peso d’oro.
Costruisco ogni volta un senso coi bambini
li porto a guardare
ciò che saranno e in parte accetteranno:
sciocchezze, riti dello stare e del perdersi.
Di questo non voglio niente
il mondo si ferma e ride di me
o in un sogno reciproco ci desideriamo.
*
Ora sei il poema di me
vita finalmente libera
sei questo pensiero che ho sognato in segreto
il più debole e puro
che non ho realizzato:
essere prova di sé
nell’inganno del mondo
o nella sua salvezza
nei corpi che chiedono ristoro
nelle menti che desiderano una cosa.
Ma questo non sarà possibile
e niente sarà privo di dolore.
“Qui ingannati si sta bene” *
ma un po’ lontano io resto
in una casa protetta dal contegno
mura coatte, distacco e pavimento
un po’ in voi e un po’ ancora
in questa terra dove fallire è una vittoria.
*
Ma una parola nuova è solo una promessa
sospetto un inizio senza conclusioni
per lento soffocamento della parola,
una visione che a malapena prende forma.
Né sguardo, né bellezza
ma solo un vento che cancella e poi ritorna.
*
Io sono felice nell’estate forte
senza respiro
senza visione delle cose
senza il tempo della fatica
che chiede di essere onorata.
Un fermo confine
mostra la separazione
per preparare la preghiera.
Dio della voce ora calmaci
calmaci e custodiscici
dal vero nemico celato nelle parole.
Potenza delle azioni
che liberano e ci salvano:
“non voglio essere amato
voglio amare”.
*
Sei adesso
quello che nessuno dice e non ricordi.
Un baule di poesie sarà lanciato in un pozzo
verso una luce contraria.
Il viaggio è duro e finisce con un’asta
appartenuti a carne trattenuta
(neanche nostra).
Ci attende un fallimento
e le parole ci bruciano
una mano le sotterra
i versi anelano a una prosa chiara e limpida
ma è ciò che chiamiamo
"lotta dura e persa".
Appartenere:
solo questo ha senso
solo a questo passaggio senza senso.
*
Io non voglio niente
di tutto questo non voglio niente.
Nella casa l’odore dei gatti e di una cena
distante il cuore, è più forte ciò che preme.
Ma occorre imparare che
sono quello che non credono e non perdonano
sono una mente sotterrata e palpitante.
Da Dolore della casa, Il ponte del sale 2006
Ma questo sarà detto e
giustificato davanti al tuo dio
nell’incedere del tempo.
Queste parole che consumiamo
saranno pesate e disperate
e daranno tempo per tempo
pezzi di carne per un nuovo universo.
Ci sarà ancora il dolore
ci sarà l’attesa e un forte risentimento
le anime di nuovo dietro tutte le nostre parole.
*
UNA SERA HO PRESO LA BELLEZZA
Ora finalmente ti devo lasciare
devo imparare a dire
da questo distacco della
terra — il sole è giallo.
Nella mia carne ti riconosco e saluto
la bellezza che appassisce, ti
sacrifico le mie ultime parole e
non ti servo.
Muore chi deve morire
uccidimi, se vuoi, nell’ora dei vivi
colpiscimi con forza sul punto più alto
della testa, fallo nella piena luce
senza l’ombra delle parole
rinuncio a qualsiasi salvezza
a qualsiasi perdizione.
*
OLTRE IL GIARDINO
Tutto duro, di qua o di là
da una preghiera tra lo steccato e il
pane — movimento di un muro
crollerà l’universo sulle mie ossa e
rideranno di me questi piccoli capi
asserviti al potere di una scrivania.
Cerca il senso dove c’è stupore, e onore
impara che la morte è promessa
nel destino di tutti gli occhi. E allora
non temere le insegne del potere
e quando ti dicono: rinuncia
scendi a patti, accetta la perdita
dell’innocenza, abiura l’ingenuità
non fare l’offeso
accetta questo mondo o vattene.
*
AVVISAGLIE
Ma tu sei questo, questo soltanto
osso ben piantato nel cuore del mondo
e nella mia testa, nella visione di un mondo.
Accetta il colpire per dovere
- l’essere colpiti per dovere.
Ripeterò nella testa ciò che è taciuto
sotterrerò la pietà dei vivi per necessità.
Fuori: attesa e respiro
il racconto del mondo.
*
TI SARAI SVEGLIATO
Mettersi gli occhiali, guardare bene
per non sprecare le parole.
Ma il male è nelle parole che
vogliono dire il mondo e lo confondono
nelle parole che colmano una voce
sottratta per forza alla sua calma.
Accetta, allora, una breve bellezza
non cercata, sguardo indifferente
nelle cose incustodite.
Custodiscile finché non avranno
timore, indica la strada della loro
disillusione quando le luci, infine, verranno
accese e saremo liberati dal sonno.
*
CITTA’ NOTTURNE
Ti guardo e non parlo.
Era il dolore nei sogni antichi
erano i paesaggi notturni
del mio brancolare senza ali
altezza della fatica
nei pensieri segreti.
Erano città notturne incustodite e
vive, lasciate dagli uomini
assenti, in un altro luogo.
Una luce, questo ricordo
un battesimo di stelle che
chiedono l’ascolto di una voce.
Se scrivo di me, per me, è per tutti
perché non vi conosco, perché non
mi conoscete, come in tutti.
*
PICCOLA TREGUA
I
Ecco, ora hai finito di scrivere, hai ritagliato un
senso, scagionandolo da queste menti
c’è un tempo che sa accoglierci, più mansueto.
Poche immagini per dire ancora: casa
giardino, steccato. O per fermarti
difenderti dalle nuove migrazioni.
Alberi frontali, sentinelle di un cielo
sereno hanno una giustizia per tutti.
Qui siamo al sicuro
il vento di ponente non passerà.
II
Léggere, senza dolore, le immagini degli
alberi, le pietre miliari, le infinite
partizioni. I visi ci precedono nella corsa dei
fiumi — cammino nella campagna, appena
toccato dall’acqua scura.
Parlavi del nulla, delle parole sottratte al
timore delle foglie; guarda, sono calme
dicevi, la tempesta non si alzerà
gli argini sono alti, serrati.Reset (doppio set di sette settine) è in parte già edito in rebis.periferiche (Old Europa Cafe, Pordenone, 2005) libro con allegato cd reset del musicista e ingegnere del suono Bad Sector. Il nucleo di testi si inserisce in un programma più vasto: due libri-oggetto pluriversi (leggibili indifferentemente in diverse direzioni) periferiche/terminali e emulazioni/appercezioni. Tra le motivazioni di questi testi c’è il piacere di un lavorio artigianale con le parole, imprescindibile dalla natura iconica, tipografica, del testo; una volontà di trattare i materiali verbali, assemblare le sillabe come cose per ottenere artefatti retorici, al contempo bizzarri e algidamente neoclassici. Nelle intenzioni agisce un gioco formale - esplicitato negli acrostici-omaggio - racchiuso nella struttura della “settina” di settenari. Una feticistica passione per il catalogo entomologico, la miniaturizzazione fermodellistica, l’agonistico sfoggio atletico della muscolatura del metro, l’ibridazione e la mescolanza di stili, la campionatura di quanto è reputato notevole all’interno del repertorio della letteratura universale. Un costruttivo impegno critico verso il linguaggio stesso, per ottenere uno stile, un meccanismo funzionante con regole interne coerenti e conformi. Vi agisce la necessità di assemblare citazioni dalla tradizione, lessico tecnico e letterario, situazioni reali - quotidiane e esperite - insieme a fantasie immaginarie, allucinate, frammenti mnestici e lacerti abrupti. Mappatura, disegno, alessandrina ecfrasi che spazia dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, passando attraverso molteplici soglie: dalle galassie alle strutture subatomiche, dal paesaggio all’interno domestico, dallo schermo televisivo, al chip al silicio, alla carne dell’individuo. La recitazione del testo pone in risalto l’aspetto multiversale dell’artefatto, in quanto dovrebbe risultare coerente - ugualmente significante e insignificante - la lettura sia dalla fine che dall’inizio, o da un qualsiasi punto intermedio. Il macrotesto, infatti, dovrebbe costituire un grande calligramma mandalico, disposto in cerchio, come un ouroborus, (e così sarà, non appena verranno acquisite le necessarie competenze di grafica vettoriale). Reset si propone quale miniatura documentaristica del medioevo digitale dell’inizio del nuovo millennio, sospesa – apparentemente senza storia - tra imminente catastrofe ed eterna rigenerazione. Ricetta o istruzioni per l’uso, queste note non intendono esaurire il senso potenziale dei testi: non è l’unico modo di scrivere, neppure il migliore (ne sono consapevole; mantengo infatti attive molte scrivanie, altri opifici letterari, per creare testi anche molto diversi da questi) ma è sicuramente un modo demiurgico per ricreare altre possibilità, una diversa cosmografia.
(lunedì 25 febbraio 2008, mattina)