A commento della poesia “Bellezza” di Maria Luisa Vezzali
Di Giulia Bottaro, Alessandro Soave, Andrea Zemignani
Liceo “Cotta, Legnago (Vr), classe III A s, insegnante Cristina Ferrazza
Ogni individuo, dotato di fantasia, ha sognato almeno una volta di possedere un paio d’ali per spiccare il volo su terre sconosciute, incontaminate, libere dalla guerra e da qualsiasi disgrazia. Per poterne ammirare la pura e dolce bellezza naturale...
Per poter vedere con i propri occhi luoghi visitati solo nei sogni...
Per antonomasia, quando si pensa a volare, si pensa immediatamente all’aquila reale, il più nobile volatile della terra, un animale in grado di solcare le onde, i monti e le pianure.
Le ali dell’aquila raggiungono luoghi che nessun altro essere può raggiungere e i suoi occhi possono perforare le barriere dettate dalle distanze. Essa infatti possiede una vista telescopica, ma è allo stesso modo incapace di cogliere ciò che un uomo può invece contemplare. La capacità di un uomo di leggere il viso e il comportamento di un altro, per rilevarne le caratteristiche più profonde, è unica di quel genere di persone che vedono attraverso gli occhi.
Occhi e ali d’aquila, e sensibilità umana: il connubio migliore. Questa poesia parla dell’infinità del mondo, della molteplicità degli ambienti e delle più diverse esperienze che si vivono nella vita.
Le brevi strofe, scritte in versi liberi e lasciate sistematicamente in sospeso, spronano il lettore a perseverare nella lettura. Le continue immagini evocate dalla Vezzali alimentano ad arte il clima della poesia: la suggestione è alta, tanto che attraverso la lirica risulta più facilmente comprensibile il sentimento di fondo che l’autrice vuole trasmettere.
Il lettore sembra quasi “trasportato” nel mondo della scrittrice. La poesia è in grado di attanagliare il lettore, proiettandolo verso nuovi orizzonti, verso i mondi nei quali ognuno, nei propri sogni, vorrebbe vivere.
Sorvolandoli con ali d’aquila, osservandoli però con occhi di uomo.
Di Alessandro Adda e Ilaria Miglioranzi, 5^ F
Quando la morale incontra la scienza
Leggendo le poesie di Giorgio Celli, abbiamo avuto l’impressione di sederci spettatori di fronte allo spettacolo maestoso della vita. Ci parla con metafore sceniche, con un linguaggio tecnico ma fortemente emozionale, ci fa gioire con la natura e soffrire con lei.
La lode al DNA ci ha esaltati aprendo innanzi al nostro sguardo un sipario sul mondo in evoluzione, una coordinazione quanto mai armoniosa tra la scienza e le attività vitali dell’universo, in quanto è il DNA stesso, eterna guida degli eventi, a condurre tutto verso il suo destino.
E così l’uomo si sente debitore nei suoi confronti, sente che tutto ciò che gli sta intorno non è nato per caso, ma è da ricondurre inevitabilmente allo stesso eterno principio, lo stesso che, dice Celli, “ha piantato nei mitocondri d’Eva il seme di senape della nostra umanità”.
L’impressione che abbiamo ricevuto ci ha ricordato la ciclicità dell’esistenza, il dinamismo della natura nel suo perenne dualismo: da un lato, amica e “madre”, dall’altro impetuosa e vendicatrice, come l’acqua, elemento che troviamo nel creato, nel nostro interno così come all’esterno, forza vitale che circola nel nostro organismo e dinamica quando precipita nelle cascate mostrando tutta la sua potenza.
La poetica di Celli coordina armoniosamente natura, filosofia, scienza, matematica, come parti inscindibili di uno stesso sistema grandioso, geniale, ma esprime contemporaneamente la preoccupazione per il destino del mondo, manipolato indebitamente dall’uomo “senza ragione”, dai “servi dell’atomo”, e l’abbiamo apprezzata per l’immediatezza delle immagini che propone e per le sensazioni che trasmette, da cui traspare la volontà di fornire un quadro intenso del mondo fisico rapportato con l’uomo, con l’animale, con l’elemento, come parti di un insieme “vivo” che è la Terra.
Di Alessio Graldi, 4^ H
Giorgio Celli, irriverente demiurgo
Nuova “collana di perle” la raccolta “Percorsi” di Giorgio Celli, in cui l’indiscussa bravura di questo scienziato-artista crea una poesia concettualmente legata ad un mondo naturalistico, tuttavia formalmente amalgamata con espressioni e modalità della poesia classica e contemporanea.
Celli, docente all’Istituto di Entomologia “Guido Grandi”, presso l’università di Bologna, svolge da molti anni, oltre ad una carriera politica di elevato spessore (egli è infatti parlamentare europeo dal 1999) anche una brillante attività scientifica, con notevoli partecipazioni in gruppi e ricerche ambientaliste. Svolge inoltre anche un intenso e significativo lavoro letterario, correlato ad ambiti naturalistici e di grande interesse sociale. Vale la pena ricordare la sua partecipazione per cinque anni al Gruppo 63’, e il suo nutrito curricolo che annovera un premio Luigi Pirandello nel 1975 con l’opera “Le tentazioni del professor Faust” e diverse messe in scena delle sue piecè teatrali al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Nei suoi “Percorsi”, noi giovani riconosciamo il linguaggio della nostra epoca, la nostra esperienza quotidiana.
Giorgio Celli, è per noi un“irriverente Demiurgo” perché capace di plasmare una materia arida e spigolosa come la scienza, abile nel fondere, con precipua originalità, elementi di due materie differenti, sia in composizioni poetiche sia nella vita di tutti i giorni;
Giorgio Celli, è per noi un “mirabile alchimista” perché coniuga una matrice oggettiva, quasi di stampo naturalista, con una rivelazione poetica di elevato spessore.
Ci è piaciuta tanto questa raccolta di poesie che trasmette la passione del poeta per il mondo in cui vive, un mondo teso al progresso, ma strettamente legato alla sua natura madre.
L’immenso infinito fra le sudate carte
Una riflessione sui testi di Gilberto Isella
Di Roshan Youssefian, 4^ H
La musica è arte. La pittura è arte. La poesia è arte.
Ecco, proprio la poesia, finestra di emozioni e pozzo di sentimenti, arte senza inizio e senza fine. Una espressione che permette al lettore non solo di poter concepire le potenti folate di pensiero che essa trasmette, ma anche di aggrapparsi a mondi e concetti sovrasensibili e ultraterreni.
L’arte è indubbiamente una scala che porta al cielo, ma come possiamo compiere questo cammino, salire scalino per scalino, senza che in questa arte non ci sia una vera sensazione spirituale? Continuiamo a ripeterlo: “Ma in che mondo stiamo vivendo?”, “Non ci sono più valori”, “La gente non si eleva più da discorsi inutili”. Eppure c’è chi ci prova:
In una vetrina di psicofarmaci
svolazzano tafani e mosche,
giunti lì per cunicoli a essi solo noti.
I loro umori battono le ali
e si confondono con gli altri umori
vaporanti dai barattoli,
sollevano precipitati, attirano molecole
con sottilissime antenne
e calamite.
Oh, come pulsa la vita
tra larve meccaniche e vetro
mentre aliene minuzie si accoppiano
e ritmi primaverili intrecciano
ronzando intorno a un “sì, bé” molle
che alla follia in sordina dice
”vade retro”.
G. Isella
In questa poesia, Gilberto Isella cerca di innalzarsi, come un aereo che decolla, verso un sentimento elevato, un concetto più chiaro. Purtroppo questa pista è piena di sporcizia che impedisce a questo pensiero di prendere il volo: il materialismo, le inquietudini dell’uomo, le ingiustizie, gli umori ansiosi come un frenetico battito di ali. Percorrere la scalinata dell’arte è impossibile, finché non ci si distacca completamente da ogni inutilità mondana. Certo, l’espressione poetica può anche essere la trasmissione di sentimenti strazianti o semplicemente di pensieri momentanei, ma la vera sensazione di compiacimento la si trova solo quando arrivi all’ultimo scalino, non a metà della rampa. La mescolanza di cose apparentemente molto materiali, come gli psicofarmaci, assieme ad un concetto spirituale, quale la voglia di vivere creano un grande divario che il lettore stenta a capire. Questo continuo sbalzo, tra sole e terra, luce e buio, aria e fango, non aiuta il nostro sentimento a decollare verso un vero e soddisfatto completamento morale della nostra anima.
Di Scala Mattia, IV H
Gilberto Isella: "Corridoio Polare"
Gilberto Isella, nato a Lugano il 25 giugno 1943, ha studiato lettere e filosofia all' università di Ginevra. Dal 1974 insegna lettere al liceo di Lugano 1 e alla SUPSI.
Nel 1979 è stato promotore di una rivista culturale, chiamata "Bloc Notes",di cui ora è coredattore. é anche saggista e ha dedicato molti studi su autori del passato, come Dante, Boccaccio o Ariosto, o contemporanei, ma ha analizzato soprattutto poeti.
Ha seguito un antologia di Mario Marioni, scrive articoli di critica letteratria al 'Giornale del Popolo' e partecipa ad attività culturali dell' "Associazione Alice".
Dal 1989 ha pubblicato molte opere poetiche: "Le vigilie incustodite"(1989), "Leonessa"(1992), "Discordio"(1993), "Apoteca"(1996),"Baltica"(1999), "I Boschi intorno a Sils-Maria"(2000), "Lichene o terra"(2000), "Nominare il caos"(2001), "In bocca al vento"(2005), "Autoantologia"(2006) e infine "Corridoio Polare"(2006).
In questo suo ultimo libro, il poeta inscena una sorta di dramma poetico-filosofico, in cui abbiamo in primo piano il suo alter-ego che cerca di ritrovare la sua identità in un mondo di contraddizioni. Isella trova semplicità, che a volte sembra coincidere con l'ordine geometrico delle cose oppure con la visione della realtà naturale, e follia, che opponendosi gli impediscono di vivere liberamente. Il poeta è dunque prigioniero della necessità, che diventa un ossessione nella vita quotidiana. "Si era messo in salvo oltre il corridoio polare ionico"è il primo verso dell' opera, in cui Isella ci fa capire che attraverso questo corridoio, lui ricerca libertà e serenità.
"Corridoio polare" è dunque un poema governato dall' impari lotta tra follia e semplicità, tra armonia e disarmonia in cui il poeta affronta un percorso di gelo, di solitudine e di follia.
Le poesie presentate nell' opera sono difficilmente accessibili e ricche di metafore e immagini, che ci aiutano a comprendere l' idea del poeta, ma non ci trasmettono, a mio vedere, lo stato d' animo e i sentimenti dell' autore.Nota critica III classificata
Di Giulio Bogoni, Leonardo Cazzadori, Lorenza Cristanini Mion, Prisca Saporiti, Enrico Zucchi, Classe 3^ C
Due viaggiatori solitari camminano nel cuore della notte, inconsapevoli della presenza dell’altro. La donna completamente avvolta nelle spire, negli grovigli insondati della città; osserva incuriosita, cercando di capire il perché degli avvenimenti, ritrovandosi a scrutarli dall’interno. Alcune immagini l’accompagnano nel suo viaggio attraverso la riva asciutta dei viali: s’immerge fra donne belle e schiave, distributori di benzina, ossa di biciclette, oasi di parcheggi, accompagnata dal canto delle cicale, in uno spazio sordo; le appaiono donne-pesce, mostri millenari che riaffiorano dalle ombre, non più dagli abissi del mare, dove un tempo, un’altra notte, forse, rapivano con il loro canto i marinai. Una notte infinita, popolata da mille personaggi nascosti che vivono all’interno di grandi automi spenti, tra mura di fumo e di sassi.
Seduto ai margini di questa città, come fosse sospeso sul precipizio delle stelle, l’altro, lontano, freddo, distaccato, osserva i vari fenomeni e i gesti della quotidianità con un sorriso critico e con la semplice voglia di rimanere fermo a guardare, nonostante talvolta la malinconia, rassegnata e dolce, sfumi la sua prospettiva fin troppo lucida spingendolo a lasciare libero sfogo ai ricordi. La parola è misura, per quanto affollata, che può servire a soppesare, demistificare, chiarire. La scrittura è un viaggio attraverso la vita. Ma lo distrae dal disincanto e dalle riflessioni la comparsa della donna, non ancora al termine del suo cammino, che lo induce a parlare così.
GIORGIO: non mi aspettavo di incontrarti, sembri apparsa d’improvviso. Ma devo dirti una cosa, non so perché. Non sento la mancanza di cosmo, ovunque è il cosmo; tu invece vuoi raccontare le fantasie della tua anima. Il corpo è un museo di storia naturale, e i nostri atomi non sono piccoli figli di Dio, ma piccole parti di noi. Parti del cosmo! Il corpo è una macchina, sta sempre sullo spirito come un ragno sulla mosca, ma non piangere, stirpe di Adamo ed Eva; il tuo pensiero è orribile, sopprimilo!
MARIA LUISA: il mio pensiero è fragile, incerto, ma non lo ucciderò, non so ancora dove sfocerà, e così è anche la mia voce, si fa trascinare, lo ammetto, da brevi immagini, senza una precisa dimostrazione da disegnare e raggiungere o dalla quale partire con sicurezza, con ironia. La sicurezza a volte è stucchevole. Vedi, la mia città non è lontana, mi avvolge come un sudario, mi travolge come un corso d’acqua, e non riesco a liberarmene, forse è ancora presto per me...
Maria Luisa Vezzali e Giorgio Celli, due sguardi diversi sulla realtà, una diversa poesia. Lineamadre, un flusso continuo, con creste di onde, viaggio tortuoso che si biforca non si sa se per riunirsi, che cerca una strada, che fatica a farsi comprimere nel letto del fiume poetico, indisciplinato più per natura che per volontà, un cumulo di quesiti irrisolti che si accavallano e si sprofondano l’un l’altro, elementi che si compenetrano, che si fanno strada allentandosi e riavvicinandosi in una deriva, cercando ognuno un proprio spazio, una propria identità, dispersi e salvati nell’universo caotico che è il cosmo, in cui la parola senza freno si fa padrona del poeta, in cui il poeta si lascia portare sulle strade sconosciute della parola per una notte non destinata a sparire, finché ciò che è resta è il fiore del regno.
Su Giorgio Celli, Lode al Dna
La poesia “Lode al DNA” è unica nel suo genere in quanto unisce in sé due tipi di linguaggio diametralmente opposti: quello della poesia e quello della scienza. Anche se l’accostamento può sembrare azzardato, Celli potrebbe essere collegato a Catullo, per come usa un linguaggio diverso da quello poetico. Come Catullo mescolava linguaggio alto e il “sermo plebeius”, Celli mescola quello poetico con quello scientifico. Il poeta però, non ha inserito la scienza nella poesia solo usandone i termini specifici ma, come ha detto, utilizzando anche metafore che, allo stesso tempo, hanno creato questa “varietas” e hanno mantenuto in trasparenza le origini etimologiche dei termini. La poesia risulta di difficile comprensione non per il modo con cui viene espressa la lode al Dna, ma per i termini usati, così specifici da non essere accessibili a tutti.
Il testo presenta una struttura poetica molto semplice e atipica rispetto alla poesia classica. L’uso delle strutture poetiche tradizionali è limitatissimo; infatti non vi sono rime e i versi sono liberi; ampio invece l’uso delle metafore presenti in grande numero. In che cosa consiste, allora, l’aspetto poetico? Per rispondere dobbiamo scrollarci di dosso la visione romantica della poesia: non serve la commozione per cogliere la bellezza di immagini come “pallottoliere di noumeni” o “hai sognato di me, di me nell’ameba” ( a proposito, qui c’è un’anafora), ma si può rimanere colpiti dall’arditezza di questi accostamenti logici. Dove abbiamo trovato questo modo di poetare? La risposta, per noi studenti di terza liceo scientifico, è facile: in Dante, in quello del viaggio di Ulisse, dove si descrive la poesia della ragione.
Riflessioni su “Lode al DNA” di Giorgio Celli
di Matteo Azzini, Alessia Fedrizzi, Luca Aloisi e Nicola Salvagno
Si possono conciliare scienza e poesia? Giorgio Celli, poeta (ha fatto parte del “Gruppo 63”, caposcuola dell’avanguardia poetica degli anni Sessanta in Italia, cercando nuovi linguaggi per la poesia del suo e nostro tempo), e etologo-naturalista, a questa domanda risponderebbe di sì. Anzi risponde con il recente volume intitolato “Percorsi”.
Ma come si conciliano in Celli scienza e poesia? Per rispondere a questa domanda analizziamo quella che riteniamo la più significativa delle sue poesie “Lode al Dna”. In questo testo, alcune immagini sono molto significative per spiegare questo accordo.
Ad esempio, il dna “che fa danzare l’ape nel suo bugno” è particolarmente efficace, poiché l’accostamento di termini scientifici con l’immagine stilisticamente raffinata dell’ape che danza, crea toni molto suggestivi. Ma questo testo non va letto come una poesia del “cuore” e non va interpretato in chiave romantica, ma come “poesia della ragione”.
In questo componimento, Celli mette in evidenza il ruolo del dna, nella nascita, nell’evoluzione, nell’intelligenza dell’uomo. E ci dice tutto questo usando termini scientifici, lontani dal linguaggio poetico romantico. Del resto, anche Dante nella Divina commedia introduce il linguaggio teologico, e Catullo, ancora prima, ha messo nelle sue poesie d’amore termini del linguaggio dell’economia ed espressioni del sermo cotidianus. Insomma, un lessico apparentemente anti-poetico. Così come Celli fa poesie sulla scienza con il linguaggio della scienza. In questo sta il talento del poeta.
In “Lode al Dna” troviamo espressioni come “Algoritmo della vita”, “Spartito del carbonio” e “Pallottoliere di noumeni”, ma anche termini come echinodermi, eone, pterodattili, anomia, inferenza, entropia.
Una parola come echinodermi può entrare in un testo poetico? Celli ci mostra che è possibile, e noi scopriamo che si può, perché questo lessico nelle poesie serve come evocazione, come richiamo. Cosa c’è di più lontano dalla poesia del lessico scientifico? Niente, avremo risposto prima di leggere le poesie di Celli. Ma, dopo aver conosciuto i suoi testi, abbiamo scoperto che qualsiasi termine scientifico può diventare poetico.
Gilberto Isella: Nell’era glaciale, l’atomo della salvezza
Di Michele Mauroner, Riccardo Meglioranzi, Carlo Solimani e Damiano Zampieri
Di Valeria Nanci e Laura Girolomoni
Alcuni giorni non sono solo giorni, ma restano per sempre. Io li chiamo ricordi.
Quei passi, quelle mani e quel sorriso riempivano il silenzio che accarezzava le nostre labbra imbarazzate, coloravano il buio di luci senza durata, mettevano a fuoco soltanto noi in quella foto indelebile che ci distaccava dal resto del quadro.
Soli, ma insieme, riuscivamo a riscaldare la fredda indifferenza di quello che accadeva intorno a noi e tutto ciò con la minima consapevolezza del forte nodo che ci stava legando.
O forse ne eravamo consapevoli.
Avevo paura … paura del silenzio, paura di parlare. Avevo paura di te, di noi, di me e della mia fragilità. O forse non avevo nemmeno il tempo di chiedermelo.
Non avevo bisogno di altro: né di domande o di risposte, o dubbi o certezze … ma soltanto di te!
Ricordo tenerezza, timidezza, innocenza. Ricordo quel senso di serenità, quel silenzio … il tuo silenzio!
Ricordo quei respiri … quei sospiri!
Ero felice? Sì, lo ero!
Ma cosa è rimasto di quella felicità?
Una foto sfocata … un prezioso, ma ormai lontano ricordo … l’attimo fuggente di una felicità sbiadita dal tempo.
Dedichiamo questo nostro testo a Manuel
1 settembre 2007