Nota critica di Marco Furia
Dice, in esordio, Jacopo Ricciardi “ho sentito il sangue cercare/ come fuoco/ la parola” e, in chiusura, "Calmo …/ il poeta”. Le due espressioni, contrastanti, che potrebbero costituire poetica testimonianza di un mutamento, forse di un’ evoluzione, a mio avviso semplicemente convivono: una richiama l’ altra e viceversa. Non siamo in presenza, qui, della storia di una contraddizione, bensì della presa d’ atto di come elementi opposti possano coesistere, soprattutto in un linguaggio rivolto verso l’ aperto, specchio di un io inteso non quale rigido classificatore, ma elastica membrana quasi coincidente, di volta in volta, con gli impulsi che la sollecitano. Furono, insomma, armonie di contrasti.
Non altro
Non altro
che vicino a lui fino a oggi,
ma quando, mentre muore,
per forza d’infinito
con la morte ha fine l’eternità,
ho sentito il sangue cercare
come fuoco
la parola.
Vedo senza tristezza bruciare
l’identità portata
da me senza fatica
con l’anima dura d’universo, qui,
in un fuoco ignoto che la separa.
La morte distrutta nel mondo,
si ferma,
e tutto di me si ferma,
per il tempo della vita,
prima di questo universo
e di questo testo
che lo compone
senza mondo,
e io migro in questa scrittura.
Calmo, nel vuoto dell’universo,
nel vuoto del sole,
il poeta lascia
la poesia
nello spazio di quella luce.
Jacopo Ricciardi (1976) vive a Roma. E’ ideatore e curatore, per gli aeroporti di Roma, del progetto culturale “Playon”. E’ direttore dell’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato un romanzo, Will (Campanotto, 1997), e sei libri di poesie: Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (Exit, 2002), Poesie della non morte (Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006). E’ presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.
Nota critica di Marco Furia
L’ “immedicata ombra” di Adelio Fusé “si spantana”, cioè si disimpaccia, si districa, ma anche, liberandosi, tende a dissolversi. L’ intreccio tiene assieme, implica coesione, emanciparsene significa affrontare profondi mutamenti, trasformazioni spesso non agevoli. Questo il senso dell’ articolata poesia le cui magmatiche sequenze, non prive di efficaci immagini, contribuiscono allo svolgersi di un linguaggio misterioso, affascinante nel suo richiamare un quid ineffabile e avvertibile nel contempo. Una “goccia” “è avventizia” quanto incredibilmente duratura, pare suggerire, per silenziosa allusione, il poeta: ogni cosa, insomma, può pure essere diversa da come è.
Non diramo io da madre o padre
non diramo io da madre o padre
ma da impari immaterica matrice
necessitata carnale purpurea
nel fastoso mercimonio - mattanza
il Tempo
è cornucopia e di teschio il seme
mani non lasche loro almeno
foggia e posa variate
barrano il vano
al numinoso terragno avvinte
in erosi miraggi lacerto tarlato
di concrezioni tritume
lubrichi residui infiocino
è avventizia la goccia?
a trasmodato burbanzoso allaccio
immedicata la mia ombra
si spantana
eternato amnio
Adelio Fusé (1958) vive a Milano dove lavora in editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno, il romanzo North rocks (Campanotto, 2001), due libri di poesia Il boomerang non torna (Book, 2003) e Orizzonti della clessidra distesa (Book, 2005), entrambi segnalati al “Montano”. Suoi testi sono apparsi sulle riviste “Alfabeta”, “Lengua”, “Tratti”, “Atelier”. Ha fatto parte della direzione di “Legenda” (Tranchida 1988-1995).
Nota critica di Marco Furia
Se è vero che “la sottrazione non rende l’ idea”, potrebbe sembrare opportuno chiedersi se l’ addizione ne sia capace. Si tratterebbe di un quesito mal posto. Ambedue, invero, concorrono, nell’ àmbito linguistico, a produrre proficui effetti e la loro contemporanea presenza, se ben calibrata, conduce a esiti tutt’ altro che trascurabili: pare questo il caso della versificazione in parola, in cui suggestivi toni di quieta ansia provocano ricadute di immagini e parole tali da porre in essere quel dinamismo pacato costituente, direi, caratteristica precipua dei versi presentati. Se nulla, nell’ originale idioma di Marcello Angioni, viene sottratto, possono essere consentiti, come in effetti accade, accostamenti giustificati soltanto da esigenze espressive la cui intima coerenza, oltre ogni regola del linguaggio ordinario, risulta capace di conferire quel particolare senso proprio di ogni felice esercizio dell’ arte della parola. E’ necessaria o no, in poesia, la cintura di sicurezza?
Cintura di sicurezza
ecco la coltura del punto
trascrivo la versione attuale
marcando più che retro
comparazione negli antri bui
la sottrazione non rende l’idea
si vuole un moto orientato
verso ordinazione verso posa
qualche prima pietra
anche talun secondo
tutti gli arti si protendono
il disturbo passa come accidente
contrazione infortuita del
centro che è il coso del duolo
come per corsi obbligati
di un sentiero cuneiforme
allure di riposo provvisorio
solo per estroflessione
solo per questo
son fatto venire fin qui
con tutti e tanti carriaggi
affuocare nel frattempo
scegliere un ritmo daffermo
brandeggio di masserizie
nell’alito di quei cosi
gli animali
hanno occhi per la forma
algoritmi per la distanza
mentre cala iperconscia
la palpebra saracinesca
sul racconto del sole
per il muschio
come tante cose
pretese dalla geometria più pallida
non sono forti precostituiti
pretesti di taglio
di vettori
la manovra non è dramma
sofferenza miniaturizzata
ansia azzerata in principio
ecco la marcia assente dei pesi
scavano lo spazio per procura
rodimenti sugli argini dei miti
ritorno logicamente insostenibile
non andiamo in nessun luogo
basta apporre le mani alla roccia
senza acuire
già sempre all’erta
scenario di morte della sibilla
agitazione prestodetta
anche trascurabile la cancellazione
possiamo non volere anche questo
possiamo volere altro ancora
non si cade nè si ristagna
la riuscita è contenuta nell’osservanza
dissoluto silenzio
Marcello Angioni (1939) vive in Lussemburgo, dove è stato traduttore presso la Commissione europea. Sue poesie sono apparse su “Nuova corrente”, “Il Verri”, “Anterem” e altre riviste e antologie. Insieme con Franco Beltrametti ha curato, negli anni ’70, l’edizione della rivista “Abracadabra”. Ha pubblicato Preludiomeni (Geiger, 1975) e Analfabetica (Tam Tam, 1982).
Nota critica di Marco Furia
Il breve componimento proposto da Silvia Comoglio, ricco di evocativi richiami a mondi onirici, o pre-onirici, a fanciulleschi dormiveglia consumati al cospetto di premurose madri, presenta una dimensione linguistica in cui semplici parole e minime sequenze, separate da trattini, sembrano affiorare obbedendo a esigenze biologiche, più che logiche. Una scrittura enigmatica, per nulla dispersiva, racchiusa entro un guscio costruito ad hoc, l’ unico capace di contenerla. Furono (anche) precisi perimetri.
In fa maggiore 1.I (Lullaby)
òmbra a cui vènne – il sògno – ancora chiaro,
io – sono nìnna - che nasce dal mio bimbo,
fòlle nome solo – portàto – sempre ovunque
--> sono - imbròglio nato dove esatto
è il tèmpo di passaggio, il vènto - sèmpre solo stato
in càse – dello scambio, in nòtti – già decise.
sòno – il pàllido tuo corso, l’èlmo - abbandonato
Silvia Comoglio (1969) vive a Verrua Savoia (To). Laureata in Filosofia, ha pubblicato la raccolta Ervinca (Lietocolle, 2005). Attualmente divide la sua attività tra poesia, pittura, e e l’approfondimento dello studio della lingua russa.
Nota critica di Marco Furia
Mediante l’ uso di versi precisi e battenti, Gabriele Pepe mostra quanto una (sapiente) poesia, non ignara delle regole metriche, possa costituire efficace distacco da non soddisfacenti costumi linguistici quotidiani. La tendenza all’ aperto, d’ altronde, come già ebbi occasione di dire, può intendersi non soltanto con riferimento agli aspetti esteriori, poiché qualunque forma, in presenza di consapevole intento, risulta suscettibile di usi proficui. Non sussistono gerarchie tra i linguaggi, tanto meno tra quelli poetici, suggerisce, con elegante gesto, il poeta.
Il tratto è dato
Non muoio a sangue pisto ed ossa rotte
ma a cauti vezzi e vizi di rimpallo
che gaia incuria e vaga strategia
di lampi prodigiosi disadorno
luce inferno nell’occhio mi strabordo
fomento e supponenza di eresia
dei miei santi non valgo il piedistallo
ma drago di mulino e donchisciotte
sui campi di battaglia faccio il morto
ramengo oziando in quieta frenesia
lesto sonnecchio e bradipo sfarfallo
tra simboli fuggenti e lune estorte
tra ombre e luci al chiuso riprodotte
burba tempesta in bolla di cristallo
di vento e di bufera scheggio via
che scorpione mi scodo e capricorno
mi strappo delle corna e a muso inerme
tra le corazze e gli armamenti vago
carcassa appesa al morso della fiera
eunuco consumato a fiamma casta
dal dogma mi distacco per scissione
e sguardo al cielo e membra tra le ortiche
a fior di pelle sbocciano vesciche
all’occhio s’addolora la visione
pupilla allucinata che sovrasta
sovranità dell’iride frontiera:
prisma dell’essere coscienza-imago
che tutto scinde e carne mi prosterne
Gabriele Pepe (1957) vive a Roma. Presente in riviste e antologie, ha pubblicato Parking luna (Arpanet, 2002), Di corpi franti e scampoli d’amore (Lietocolle, 2004), L’ordine bisbetico del caos (Lietocolle, 2007).
Nota critica di Marco Furia
Biobibliografia di Marco Furia
In un suggestivo scenario poetico in cui le parole si susseguono fitte, collegate da nessi allusivi, si svolge, intensa, la scrittura di Giacomo Rossi Precerutti. Attento a similitudini implicite nella lingua, sapiente nell’uso del materiale idiomatico, il poeta accosta e connette elementi, anche non affini, con spiccata propensione a una particolare musicalità interna, quasi trattenuta, tale da conferire alla composizione inconfondibili caratteri. Sulla “soglia/ che può far pietra il pensiero” il Nostro deve aver senza dubbio sostato e, con estrema franchezza, meditato fino a trovare, in un non comune slancio evocativo, scampo a quel letale pericolo di annichilimento. Fu, davvero, specifico consapevole canto.
Salvezza
Guidami come nido che ascende vasto
verso i frantumi innocenti di memorie,
sulle falde che l’anno benevolo lascia
dentro il fondale alto del cuore, altre
urne si aprono su terre già disfatte
dal boato delle fiamme mentre il gesto
vago di una mano feroce elude nudo
la volta del viso quando adombra
il supplizio che si regala il pensiero
negli indugi stremati dalla presenza
di una bruna chioma che nell’assenza
senza remore si spande e d’oblio vive.
E’ vicino l’istante in cui solo ombra
sarà la mia orma ad aprire la porta
breve di speranze che furtive fuggono
dai covi immoti, persi di folle salvezza
la bocca e gli occhi sconvolti da un grido
che dona a chi del giorno è nemico
un passo caldo d’esilio che affiora
nell’abbaglio duro della gloria e ride
della scialba dolcezza di un cuore
affamato di spoglie prose che congeda
lo splendore oscuro del trono del tempo
e la paura baratta con una quieta sedia.
Solo nube che smuove l’assurdo sonno
di un labirinto chiuso nella mia roccia,
così hai risposto nell’immobilità amara
del tuo volto alla sponda arida
offerta dal nascere di versi fecondi.
Non ha la pietra scelto la mutezza,
non alla fiducia di una morte bagnata
d’insonnia s’arrende, ansiosa di gloria
solitaria rubata dal silenzio soltanto
al tuo passo violento e puro s’allarma,
non un’onda che esulta allo squillo
del rosso può ammirare l’alba dell’oro.
Nella luce attonita, sigillo indolente
di steli levàti a donare la tua ferita
al maestoso protrarsi del gesto radioso,
è l’incauto vederti mentre lambisci
il tuo riflesso che rinnova il brivido
inquieto, ogni stupore si adagia privo
d’ardore nella torre del sonno, puniscano
i silenzi in cui scompari nell’estrema
nudità della mente le mie vuote promesse
di dedizione affollata e nera alla soglia
che può far pietra il pensiero e trafiggere
il tuo spettro tra le tenebre calde.
Giacomo Rossi Precerutti (1988) vive a Torino. Nell’ottobre 2006 ha pubblicato la sua prima raccolta poetica, Fuoco d’assenza (Crocetti).