L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, alla precedente e alla successiva.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Che la poesia si nutra, oltre che di vita materiale, anche di pensiero e sapienza è un dato quasi ovvio, ma così ovvio non è che questa sia una vera e propria necessità del suo essere poesia: come sostanza di scrittura e di conoscenza. A quale tipo di sapienza poi attinga nel suo farsi, dipende dal poeta e dai suoi paradigmi culturali.
Nel caso di Stefania Roncari la sapienza che informa e conforma il suo pensiero poetico è di tipo esoterico, più precisamente alchemico. Ma ciò non significa che i versi si nutrano di inattualità prescientifiche, piuttosto è nel tono evocativo che si manifesta l’oscurità e “la materia si fa densa”.
Già il titolo della raccolta “Movimento in quiete” è un evidente ossimoro che rimanda all’ambiguità del discorso poetico, che, nel caso specifico, si traduce in un andamento di lenta turbolenza, di oscillazione tra il buio e la luce. E infatti in quasi tutte le poesie troviamo termini quali:
luce, buio, bianco, nero, ombra, fuoco, in un’apparente assenza di un soggetto portante principale fra luce e buio.
Significativi a tal proposito i versi: “la luce vuole essere/intensamente rarefatta/chiara oscurata”. Ma leggendo più in profondità si ha l’im- pressione che la sapienza raccolta nel testo riguardi metaforicamente la poesia stessa, quando “la parola intatta/attraversa il silenzio/ acque sorgenti/nella voce tutte le lingue/desiderate immaginate/cadute instancabili/ nella notte innominata”. E questo con una lingua che è un vortice, senza furia, di pause e di aperture in cui non si riconosce la direzione di elevazione o di caduta, ma si sa che “capovolta la luce sparisce/.../è curva gioiosa/che non finisce/.../” e, proprio come la poesia e la vita nel suo scriversi in poesia, alla fine è una voce “/.../gonfia/di tutto l’indicibile”.
Testi poetici
*
non c’è luce nell’attimo oscuro
nella terra il seme
alchimia del nero
si alza esplode
nel calore del principio
non c’è bellezza senza caduta
s’inabissa s’oscura
è vertigine di nascita
è salto che rischia
vuoto desiderato
nel silenzio accade tutto
come il bianco è memoria
**
luce che raccoglie
polvere d’ombra
abbaglio di densità
s’inonda sparisce
nasce senza traccia
se solo avesse corpo
sceglierebbe il fragore
dell’istante senza dimora
pulsanti attimi sulle cose
il pensiero si fa anima
la parola fuoco
sul bordo estremo
l’abisso si fa curvo
incerto sigillo
Stefania Roncari (1963) vive a Milano . E’ diplomata in lingue straniere e in arte drammatica presso la scuola Paolo Grassi di Milano. Ha partecipato a diversi concorsi letterari con esiti positivi, e pubblicato in alcune riviste letterarie. Ha vinto il Premio S. Cipriano al Naviglio con la poesia ‘Excelsium’. Ha partecipato alla Biennale Anterem di Poesia nel 2006 e 2007.
Nota critica di Giorgio Bonacini
L’arte della musica è una componente fondamentale di ogni forma di poesia: nel senso che anche la poesia è ritmo e suono, e tutto quanto da essi si sviluppi nella composizione ed esecuzione del testo, anche come sola voce mentale. La raccolta di Cecilia Rofena è, in tal senso, di una coerenza assoluta: sia in superficie (la titolazione, generale e specifica, si richiama ad aspetti musicali tecnici ed espressivi), sia nella sua struttura profonda, dove la gestualità sonora interagisce alle fondamenta dei significati che il verso genera.
Tutti i testi sono intessuti da un linguaggio ricchissimo di rime, allitterazioni, consonanze e dissonanze che ne fanno una vera e propria partitura. Tanti sarebbero gli esempi, ma questa poesia, intitolata In atto (ellittica) che cito per intero, nella sua brevità è esemplare: Attratto/ traguardo/il limite/astratto/azzardo/cui riesco,/pensiero/come/dardo. Ed è anche, e forse più, significativa per andare oltre la musica verso un pensiero poetico di esuberanza emotiva, mai ingenua, dove si coglie il senso del lavoro che l’autrice scava in sé: “Mi volto e cerco il volto/che sorprende e comprende/che il caso sospende/.../” Una versificazione, dunque, dove tutto concorre a fondere un’idea di poesia in un’idea di vita: “contro la solitudine/si spinge il verso/.../contro la sete/versa il verso/.../contro la morte/diverso verso/.../contro e accanto/.../sostare nel canto.”
Ecco la caratteristica portante di questa raccolta poetica: attraversare con la parola la sua stessa superficie sonora, dandole un rilievo che la porta a far emergere dal presente umano i temi di un soggetto profondamente addensato nella creazione in versi: “essere in versi/lentamente essere/limpidamente vivere.” Una dichiarazione, come si vede, di limpidezza assoluta e di forte naturalezza.
Testi poetici
Allemanda
Ogni errore conserva il sapore
amaro il danno, forte il rumore
delle parole avare, copre il suono
di verità afferrate, scoprendo
il passo di realtà poco mature
per scolpire un destino,
forse d’avvenire già sature.
Satire amare della corsa a vivere
furiosa aria alla finestra
si affaccia uno sguardo:
strada maestra, nuova via
dove non perdere, dove vedere
le sere promettere fedeli, e via
ritornare precoci e sapute
infinite nascite e morti,
infine morti e rinascite.
Mentalmente o par coeur
Avere a mente volti
veri scopi, corpi esatti
ansie leggere d’istanti
predetti i moti e voci
di un ritmo di attimo
in attimo più prossimo
a perfezioni
del minimo battito
tenere a mente
teneramente.
Cecilia Rofena (La Spezia, 1973) si è laureata in filosofia con Remo Bodei e Aldo Giorgio Gargani presso l’università di Pisa. E’ autrice di contributi su riviste filosofiche. Sue poesie sono comprese in antologie, tra cui Altramarea, poesia come cosa viva (Campanotto, 2006).
Nota critica di Flavio Ermini
In Cantata profana, l’intenzione di Edgardo Donelli è quella di raggiungere il senso degli accadimenti seguendo strade minori e impervie. L’articolazione della frase si fonda su elementi verbali che possono sembrare secondari – in quanto appartenenti alle voci del limite e del confine –, mentre sono precisi attestati di riconoscibilità: «scabra muda», «sterpi e marruche», «corona di gabelle», «fratta», «balcone di botro e sfagno», «vanni»…
Donelli sa scegliere quel punto di osservazione da cui sia possibile posare per un momento lo sguardo sull’essenza delle cose. Un gesto, un atteggiamento, un’ostentazione – forme di un vasto rituale – vengono catturati da Donelli e trasformati in pagine poetiche limpidissime, dense di minuziosità, penetranti come un bulino. Sono pagine ampie, il cui campo semantico non include mai elementi esornativi che possano far deviare la nostra attenzione.
Voci dotte, antiche, poetiche, rare o semplicemente desuete: Donelli bada a conservare nella sua opera la massima concentrazione descrittiva attraverso la massima ricercatezza lessicale. Richiede che il nostro occhio sia divorato dal primo piano. Avviene infatti un fenomeno di appropriazione che assomiglia a una totale immersione da parte del lettore nella pagina poetica.
Ogni pagina è polarizzata da dettagli verbali che secondo il poeta possiedono specifici elementi esplicativi e definitori, ovvero è «consapevole di un fine». Questo minimo appiglio serve a generare la scintilla del senso. Ed è rivelazione, spiraglio di molti suggerimenti, luogo per una verità che preferisce sporgersi sul «disperso verziere» del quotidiano piuttosto che affacciarsi ai grandi balconi dell’essere.
È palese in queste pagine la vocazione a una ricerca di tipo proustiano. Nella quale la passione e l’idolatria per quegli indizi che escono dalle pieghe di una comune parvenza, dal «minuto raggio … mattutino» e dal riecheggiare di una vicenda «al primo annuncio del vento», inducono a pensare che i veri portatori dell’identificazione siano il collaterale, l’adombrato, l’inevidente.
Donelli ci fa comprendere efficacemente che solo i dati fuggevoli, liminari sanno avvicinarci alla scoperta di acute risposte a molte delle domande che andiamo formulando nel maturare della nostra esperienza.
Testi poetici
I.
Nel giorno che primi i colori
senza veli sboccino al blu notte,
dalle imposte quel poco socchiuse
voce di altro sentire al mare
di case reciti comando
cui non trasgredire, un la
unisono d’avemaria, ironica
orchestra punteggi il dialogo
a due lungo i banchi d’uso
in avvento; un cielo
senza gioia a minuscole biche
riparo, le devozioni lascito
gentile: il libro da messa
qualche santino, le monete
di quei viaggi, cingolo di un credo
innato al soffrire. Da finestre
letti mai vuoti per turni di pietà
grigio tepore remoto l’oggi,
altri di casa ala dolente
rintocco la nera ombra
sollievo la pur breve visita.
Guai alla stagione sola,
i giorni alterni il soffio
modifichi il presente
la rotta il sole a picco,
lettere a caso la creatura
cosmica bizzarria, a volte
pericope di non facile
traduzione; non tema
la notte di libeccio lo spirare
dimentico il patto
cedimento il respiro, da poco
mantello la tenebra
accenni la storia curiosa
l’ospite. Un credito di sterpi
e ceppaie, nota passione
lungo l’argine incolto
sveli un possesso geloso
vuoto dominio al vento.
Edgardo Donelli (1937) vive a Milano. Ha pubblicato: Dictamen (Scheiwiller, 1970), Athema (Scheiwiller, 1979), Fogli di Stanze e Bagatelle (Anterem, 2003).
Nota critica di Giorgio Bonacini
Biobibliografia di Giorgio Bonacini
“La tempesta che porta il cielo ha coperto sapessi il mondo di linguaggi senza poesia”. Può iniziare da queste parole un’analisi, pur sintetica, delle pagine di Giorgio Bona, da questa consapevolezza: il mondo e la sua lingua muoiono perché in essi vi parlano linguaggi dove la poesia è esclusa. Ciò nonostante quello che leggiamo in questi testi non è solo un’invettiva contro le cose che miseramente sono, ma, nella distensione lirica della pagina, vi è un nitido atto d’amore per un mondo personale (ma non individualistico) vissuto e trasfigurato in poesia.
Venti capitoli senza punteggiatura e senza versi, un flusso interiore di vastità tale da pensarlo incontenibile. Formalmente non si direbbero poesie, ma l’esteriorità inganna: la poesia è nella tensione profonda del discorso che Bona invoca con tantissimi oh di esclamazione, stranianti per il loro essere così desueti nel linguaggio poetico contemporaneo. E qui il paesaggio interiore si sviluppa e si concretizza, incessante, in biografia e in una figura d’amore, iperletteraria, ma nello stresso tempo viva e reale, di nome Felicita.
Ma in questo modo di scrittura è ben presente anche il lavoro del poeta: un “piacere del testo” nel suo farsi, dove si trova il “piacere di dover dire la lingua” e dirla in tutte le sue diramazioni: pensanti/fisiche (“...il modo dei corpi di star compatti il mio ritmo la lingua nuda furba sveglia...”); biografiche/emotive (“Come batte il cuore se muove...il nome di un verso una lingua accesa turbamento d’anima...”); sociali/vissute (“...sopra la marea la vecchia onda della rivoluzione il quarto stato di Pelizza da Volpedo...”).
E in tutto questo sono grandi la capacità e lo sforzo che la mente del poeta deve fare per aprire dei varchi, a volte molto stretti, ma pur sempre aperture per dare un senso originario al reale in cui siamo immersi, e che alle volte ci devasta: “...fin dove arriva il respiro c’è un verbo che significa remare a ritroso c’è nella prigione un’eco che ripete i richiami dei passanti ovunque...”
Testo poetico
Sette
Ciao a te che hai trovato la mia isola gira al largo come un branco di tonni ti ho vista partire e mi mancava il cuore la sua corrente è il tuo spasmo non lasciare dentro la testa perchè uguale la questione del sapere ciò che sai mi fa star zitto qui sono vivo ma allora il filo rosso il labirinto che dire mia cara chi ha orecchio ascolti chi può leggere per te conoscere se chiudi tutto ciò davanti a te è aperto a proposito si può lo rivela l’amore il tuo bel cuore che si mostra e allora non sapere senza limite per guardare all’interno dobbiamo essere lucidi come dice la maga nessuno ha mai detto sì o no apri i tuoi bei sentimenti mostrami il tono con i mille desideri ponte che mette insieme i bei discorsi è diverso se il grande poeta russo fosse ancora vivo cosa direbbe stiamo attenti mica eravamo fuori dalla storia chi è comodo come un pensiero senza soggetto il dolore ha un principio qui lei dice che buono è da scrivere ah aperti alimenti del mondo passi che spingono dall’interno fino a sentire la tua bella voce il tuo bel viso incorniciato come una Madonna ah apis floraris dorsata un corpo nell’atto di dire arrivederci non risponde la lingua effetto della musica è là che lavora o parla o sta zitta fai modo che nessuno abbia ragione eh sì è aperta e qui a me no o me oh tapis troculant sei sempre uguale materia che passa in mezzo alla materia rimango qui a pezzi mandami per posta il tuo respiro quando apri i tuoi occhi un’invocazione uguale a te.
Giorgio Bona (1956) vive a Frascaro (Al). Suoi testi sono apparsi in numerose riviste e antologie. Ha pubblicato Newton (poesie, 1992), Omaggio il tempo (poesie, 2002), Ciao, Trotzkij (racconti, 2003), Erano voci (romanzo, 2006), La lingua dimenticata della cometa (romanzo, 2007).
Nota critica di Giorgio Bonacini
La difficile (se non impossibile) traduzione in parola di un’esperienza fisica, perché sempre manchevole nei suoi elementi concreti, offre al poeta la possibilità di una vera e propria prova: riuscire a imprimere (più che esprimere) la significatività del fare e dell’essere in forma di scrittura. E la forza poetica di Guantini è proprio la capacità di dare senso e forma a una estesa sensorialità; riuscire, cioè, a rendere leggibili le percezioni dei cinque sensi, mentre si svolge il cammino tra gli oggetti naturali: luce, erba,aria, bosco, monti, ecc., fino allo “smarrimento dell’orma” che è configurabile, crediamo, nel percepirsi confusi e fusi completamente nel paesaggio.
C’è una tracimazione lessicale che ricrea i movimenti, gli sguardi, i respiri e le connessioni emotive e mentali che si svolgono nel teatro di una natura vera dove “decanta la delizia del mirto nella lucida esposizione della selva...”.
Ma questo muoversi reale, fisico, completamente immerso in una sensibilità d’attrito e nella ricca fatica di una totalità percettiva (il piede, l’inclinazione dell’occhio, il freddo, il bacio artico, l’olfatto, il palato, la palpebra), è una esperienza talmente avvolgente da portare l’in-terpretazione di ciò che si vive a sregolarsi; ma con lucidità, in una elencazione paradigmatica dove il soggetto pensante (il poeta/cammi- natore-ascoltatore) quasi scompare. Anzi, si diffonde in ogni particella sintattica, fino allo “stermino del verbo”, che è “senso, argine nella consuetudine del verde...”.
Una poesia, dunque, dove l’immersione e la percettività sono, nel magma di una scrittura tesa, il ribollire di un percorso di dura, aspra, ma anche felice concretezza.
Testi poetici
I.
E che cade: e come, ora, come cieco risiede e incauto avvede, che rivela una minima scansione, il piede, la parentela, l’inclinazione dell’occhio, la percezione cede al di fuori dell’ascendenza; l’assenza nell’incarcerazione della stanza, il plagio della parte sotto la polvere esatta, l’ordine intona il freddo, il bacio artico, l’arte: la circostanza – la riesumazione della luce, la coscienza della perdita, scivola nel comune olfatto la contraffazione del lutto, la luce scende in gradi di cenere, la scena cade nell’acume del palato, la glottide apre, la palpebra imita, l’equilibrio del pudore, senza fermarne il profilo
assiduo, caduco male: colline metallifere, il velluto concede vaioli, screziature in diverse canizie, il precetto della creanza nella contrazione del paesaggio, fertile rinunzia: simulazione di luce, consuetudine in timide putredini, imita; tritone che arride all’escursione consueta, sei costellazioni nella convenzione del bianco, intona distonia sul battente sinistro: il germoglio e il pregio, il silenzio velato, l’apparenza il pregio, l’indugio, appunto, novella coscienza intona la consuetudine del verde, ne diano senso: il cielo, l’ecchimosi, voci di anime, rovi intendi, breve corame – senso, che diano le voci, ad una; l’esibizione madornale nel verde, il padre – la ramificazione, l’orientamento
Ermanno Guantini (1973) vive a Livorno. ha pubblicato: Variazioni (Cierre, 2003), Aperto a inverni (D’if, 2004). E’ presente nell’antologia “Nodo sottile” 4, (Crocetti, 2004).
Nota critica di Ranieri Teti
In poesia può accadere una perfetta alchimia: che il senso di un’opera si rifletta pienamente nella sua forma. E’ quanto avviene in Ouverture al rancore di Maurizio Solimine.
Sin dal titolo l’autore coniuga due forze che convivono in contrasto: il momento poetico dell’ouverture, con i suoi rimandi musicali, e quello più strettamente psicologico del rancore. I rimandi musicali sono inizialmente evidenziati da una forma molto sonora. La tensione è resa da una scrittura che sembra metrica e che continuamente spiazza il suo stesso ordinamento con i leggeri, quasi impercettibili, spostamenti sillabici di alcune rime, che immettono nel testo un effetto noise: “fresca” e “fosca”, “imbriglia” e “spoglia”, “confini” e “sublimi” per citarne alcuni.
Queste rime volutamente imperfette si succedono a rime invece esatte. A rendere ancora più forte la tensione intervengono continui cambi di ritmo.
Alcuni versi non hanno contraltare rimato, rimangono sospesi sul vuoto. Soprattutto nella prima parte, dove la struttura metrica è più compatta, Solimine talvolta rimane esposto, e ci sospende, nei luoghi più impervi: succede “sul greto della strada”, che è “peste di passaggi”, succede “all’ombra della luce”.
La struttura di questo poemetto è funzionale allo svolgersi del testo, che si dipana in un dolente viaggio attraverso un’Italia “superba e latente”: “Qui (...) / giunge debole l’eco, quasi pesto / e arcano, d’un remoto richiamo / la cui voce non è che stentoreo / silenzio”. In questo percorso si incontrano la poetica dei luoghi, con la loro antica bellezza, e il rimando a una possibile filosofia civile che già racchiude il senso di nostalgia per un’alternativa sfuggita: “rovine macilente / sono la mia ricchezza: dove men rado / il mondo non mi è che vivo riflesso / d’un’elegia perduta”.
Riuscirà la poesia a restituire il senso di un’elegia perduta nei luoghi di “questa terra di livore”, nelle aporie della storia e della politica?
Rifiutando l’happy end, la poesia non chiuderà il cerchio né sarà consolatoria: “Ho trasformato come un ossesso / questa lieve, piccola sfumatura / in una tela da buttare, in un’altra / patetica mia ouverture al rancore”.
Testi poetici
*
Accorata e spersa in questa fresca
giornata d’agosto, più imbelle
ai ruvidi lineamenti, alla fosca
luce che mutila il senso, il ribelle
clamore sopito nell’aria assente
della festa, della domenicale
allegria – la traccia della vita mente
dove più indietro il corso proietta.
E dalla vita svetta dolcemente
l’imberbe testimonianza infetta
che essa, all’ombra della sua luce,
muoia lentamente. Sospetta
d’eresia, o di sibilline, mordaci
impressioni, questa mia aria di famiglia
così mesta, cos’ vicina alle audaci
fenditure, all’ira fonda che imbriglia
la gola a un Munch, o più fonda
del terreo dorare dell’estate, spoglia
di orpelli e spezzati gore di gronda,
questa mia ouverture al rancore
sprofonda in sé, nell’immonda
mondità delle cose. Albicatura
di un’esistenza oltremodo violenta,
pure vedo in queste livide more
sparute le mie passioni lente
rovesciarsi sul greto della strada
peste di passaggi; rovine macilente
sono la mia ricchezza: dove men rado
il mondo non mi è che vivo riflesso
d’un’elegia perduta, come rado
lampeggiare che più chiaramente
s’oscura e oscurando muta.
Maurizio Solimine (1985) vive a Roma dove è laureando in Filosofia. Già menzionato al premio Lorenzo Montano, è inedito in volume.