Ultima pagina: Vetrofania di Maria Grazia Martina

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“Omaggio alla Biennale Anterem”
Biennale Anterem: Manifesto selezione poeti
Dentro al manifesto, al limite dell'aria: diaframma al tempo.
Verona, pietra dorata al vespro, riaffiora silenziosa nel riflesso dello sguardo, vetrofania dell'accadere poetico. MGM

Opera edita: poesie dei finalisti e dei vincitori, commenti di Flavio Ermini e Rosa Pierno

Versione stampabilePDF versionL’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma prosegue, nel suo ideale svolgersi, anche nelle due successive.

Francesco Marotta: Per soglie d’increato, Il crocicchio 2006

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Nota critica di Rosa Pierno
Biobibliografia di Rosa Pierno

 

Appena si entra nel testo, una sorta di capovolgimento afferra il lettore e lo rende edotto sulla metamorfosi, anche transustanziazione, che lo attende, nel suo progressivo addentrarsi nel libro: “epifanie di lumi/ rovesciati in ombre”. E, subito, anche, deve fare i conti con l’arbitrarietà del linguaggio, con un nominare che non fonda: “un senso che non dura,/ con l’assenza che si desta/ in palpiti migranti fatti verbo”, eppure resta solo archivio di parole a testimoniare dei passaggi fra le diverse sostanze delle cose, quando non se ne percepiscono nemmeno i confini. Tutto il libro è difatti una delicatissima descrizione di questi passaggi impossibili, lievissimi, tra sostanze materiali e spirituali, visibili solo grazie a intermittenti fasci di luce che perforano l’ombra per un istante, per il tempo brevissimo, eppure sufficiente, affinché il poeta, afferri la volatile immagine e la restituisca con concretissima parola.

Dare la voce a ciò che non ne ha, far parlare ciò che è muto è azione da poeta, qual è Marotta, ed equivale a camminare su un filo sospeso sull’abisso. Poesia non è effimero esercizio. La corda sospesa tra materie inconciliabili, può essere percorsa solo da un esercizio quotidiano che sfida il vuoto e il risultato è un miracolo. Un’epifania. Profezie si rovesciano in avventi. Così come sguardi scientifici trasmutano in sguardi ermetici. E che cos’è un avvento se non un futuro capovolto?

Memoria è ciò che presiede alle arti: “su ritagli di memoria - /tra parole forzate/ in geometriche regole/ di abuso, una musica”. Non c’è distanza nemmeno tra le arti poiché tutto è fuso nella metafora poetica: “ci sono gesti augurali/ che danno corpo e /suoni/ all’invisibile,/ all’increato che migra/ tra due accenti - “.

Forse l’occhio può cogliere più della parola? Eppure, è solo nella restituzione linguistica che il mondo sembra svelarsi. Un’ultima metamorfosi o sarebbe più giusto dire discioglimento – come lo zucchero si liquefa in un liquido caldo – attende il lettore ed è il congiungimento natura/spirito, nel senso di mistero dell’origine, pur accompagnato da precisi riferimenti alla religione cristiana: “e bagna dell’anima il mistero,/ il vago apparire dell’evento,/ le stimmate, l’altezza - “, ma si direbbe che qui è la natura che si scioglie, insieme alla scienza nello spirito: “scienza che germoglia /in ciechi giunchi/ dove si compie l’estasi/ che brilla,/ impossibile/ pupilla del vivente”. Dobbiamo qui sentire un’eco di Pascal che niente altro pone in cima alla scala se non Dio. E allora, questo viaggio dapprima scandito da luce e ombra e poi accompagnato da angeli e da dei, giunge ora nella piena luce già indicata dal viaggio dantesco. Solo ora, “sillabe/ di pietra coprono il sentiero/ fino alla prima stella” e stanno ad indicare che Marotta ha accompagnato il lettore ai limiti dell’umano mondo.

 

Testi poetici

 

*

non tremano le parole
nella grafia invecchiata
delle nostre vite - alcune
si dispongono
in ibridi di carne,
cesellano malìe sui nastri
incisi nella traversata
o tardano
senza risolversi al ritorno
nelle acque rauche
di stagni memoriali,
nella vertigine innevata
di una foto segnata di polvere,
col sole bambino,
le vele distese
come campane al vento
e poche piume d’angelo
irrequieto
disposte in gomitoli di cielo: -

non trema
l’illusione spenta di rime
che curva il sillabario dei pensieri
verso immobili foglie
di sillabe malate -
anche il giorno che indossa
squarci d’acqua
ha occhi franati sotto il peso
di orizzonti troppo calmi,
lacere trasparenze
negli specchi
che mancano alla voce.

a Nanni Cagnone

 

Francesco Marotta (1954) ha compiuto studi classici e si è laureato in Filosofia e in Lettere Moderne. Vive in provincia di Milano, dove insegna Filosofia e Storia nei Licei. Ha tradotto Bachmann, Bonnefoy, Char, Celan, Jabès, Sachs. Suoi testi sono apparsi nelle riviste: “Il Segnale”, “Dismisura”, “Anterem”, “Convergenze”. Tra i suoi libri di poesia: Le Guide del Tramonto (Firenze, 1986), Memoria delle Meridiane (Brindisi, 1988), Alfabeti di Esilio (Torino, 1990), Il Verbo dei Silenzi (Venezia, 1991), Postludium (Verona, 2003 - Premio “Lorenzo Montano”, sezione inediti). Cura il blog di poesia “La dimora del tempo sospeso”.

Giancarlo Pontiggia: Bosco del tempo, Guanda 2005

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Domande insidiano il lettore, fin da subito. Sarà impossibile per lui restare inerte, leggendo “Bosco del tempo”. Già nel titolo gli viene data la chiave di lettura, la lampada per addentrarsi in questo folto testo di citazioni. Il tempo appare qui ramificato, vera e propria selva, labirinto, con enigmi diversamente ritmati, ove persino una cadenza non è oggetto a cui avvicinarsi con consuetudine. Domande che Pontiggia rivolge a entrambi, al lettore e a sé. Domande che nascono già prive di risposte. Poiché nulla può rispondere: né ente, né poeta: “Non cerco altri segni che voi, immoti,/ forti come una rima che si ripete eguale, come/ un nome quasi chiamato, e che ritorna/ salvo, tutelare”, ma solo poesia.

Pontiggia accoglie il lettore, allestisce per lui i suoi ricordi d’infanzia, con stanze scale, ombre, buio e vi si addentra insieme a lui. Sarà questo libro un dialogo incessante con il lettore e con la poesia, come per lui lo è stato il dialogo con i libri degli altri, lui stesso inderogabile lettore. Fa ingresso il tempo in quest’allestimento. Ingresso regale. Sarà suo lo scettro, sarà lui l’oggetto indeclinabile e declinato. Dapprima peso sulla nuca adolescenziale, poi elargitore di stupore. Nomi avranno in quest’ispezione, polverosa e sontuosa insieme, un ruolo ausiliario: “Eppure un cielo era sempre/ cielo/ e il nome della notte/ notte”. E intanto il tempo si dirama: quello che scorre glaciale e inarrestabile e quello delle scoperte: barbagli nel giorno. Ci sono più tempi anche nel presente, il tempo dei sogni, delle proiezioni, delle visioni e il tempo della disillusione, dell’accettazione dello stato attuale. E qui, lettura entra, gran regina. E’ lettura che vivifica il mondo, che gli dona sostanza. E viene anche il momento in cui tutti i diversi stati del tempo vengono a collisione: “Anche oggi, talvolta, ripensandoci,/ provo lo stesso senso docile, stremato/ di una vita sospesa in un suo strano/ suono, in un tempo semplice, inviolato”. Non può restare in questo idillico stato per molto. Disillusione è sempre pronta a cogliere il poeta nel suo stare al mondo. E non sarà solo perché i sogni delle vite degli altri ci lambiscono, ma non ci saziano. Saranno proprio i lettori l’arma a doppio taglio, ciò che è da temere. Sfida non è solo quella lanciata a sé stesso leggendo i grandi poeti. Brucia già solo la presenza di una probabile disfatta che il poeta sempre teme. Poiché la sfida che lui ha accettato è mortale. E se la poesia salva, la poesia distrugge. A tratti, un tentativo di fuga dal destino di poeta teso a raggiungere l’altro, la parte irraggiungibile di sé, quella presentita: “ad altro, che ignoravo,/ mi tendevo: in una buia/ stanza, in un tempo/ straniero”. Accedere a un’altra vita, “più strana, più romita”. Accedere a un tempo senza distinzione, che risale dai secoli, unica garanzia di un perdurare umano, di umane eterne parole: “Bel pastore - gli dicevano - / dì/ le parole d’oro,/ che dalla nera terra/ sorgono, da un tempo che non muore”. Scrivere, sarà allora come risalire il tempo: “giungi/ alla foce del tempo, alle soglie di un fiammeo/ niente”. No, Pontiggia non lascia sopire il lettore nemmeno ora: “Non servivano versi/ tra quei mari; erano loro, i mari/ liquidi e fulgenti, la stupefatta/ poesia del presente”.

 

Testi poetici

 

Tra queste isole, pensavo

Tra queste isole, pensavo,
perirà infine
l’elegiaco imperfetto.
Tutto è caldo, sublime, esatto: una colata
di presente immane,

intatto. Vero era il proposito; giusto
il suo concetto: ma solo chi torna
scrive; già al Pireo cedevo
al molle passato. Non servivano versi
tra quei mari; erano loro, i mari
liquidi e fulgenti, la stupefatta

poesia del presente.

 

Ultima sosta

Chiedo a voi, geni
di un tempo troppo dolce,
chi abiti in quelle
città turrite e sospese.

Rispondete: non voi, non più, lettori
devoti, smarriti: quel mondo
vola via, vedete, in cieli
scuri, innominati, in altre carte

invisibili, segrete.

 

Giancarlo Pontiggia (1952) vive a Milano. Traduce dal francese (Sade, Céline, Mallarmé, Valéry, Supervielle, Bonnefoy) e dalle lingue classiche. Tra i suoi ultimi libri, la raccolta poetica Con parole remote (Guanda, 1998, premio Montale), e il volume di saggi Contro il romanticismo. Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002).

Maria Luisa Vezzali: lineamadre, Donzelli 2007

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Trascrizione dell'intervento di Flavio Ermini alla Biennale Anterem 2007
Biobibliografia di Flavio Ermini

 

Maria Luisa Vezzali, poetessa e traduttrice. Ha pubblicato vari volumi di poesia e come traduttrice si occupa di poesia e narrativa anglosassone. Il suo ultimo libro di poesie è uscito quest'anno con Donzelli e ha per titolo lineamadre.

Per parlarne, iniziamo da una considerazione di ordine generale.

La parola che interroga va dalla realtà del dire alla realtà della natura. E da questa alla prima. Incessantemente e con tutte le intensità possibili.

Proprio tale moto inesauribile - così strettamente connesso con il ciclo vitale - è l'elemento costitutivo della poesia di Maria Luisa Vezzali.

In lineamadre, si svolge un dialogo serrato tra la bocca della natura e la bocca umana.

La prima è espressione della vita e la seconda - la bocca umana - è responsabile dei nomi. Entrambe hanno la consapevolezza che il loro compito è soprattutto quello di preservare e salvare.

Maria Luisa Vezzali sperimenta una lingua da trasmettere a chi nasce e, nascendo, non si senta fin da subito caduto in un mare d'infelicità.

Il dire in questo caso si costituisce come una sorta di "fermo-immagine" nella circolarità della catena biologica. Circolarità nella quale sta raccolto un doppio evento: nascere e dare la vita. È un evento apparentabile alla dolcezza e alla fragilità, ma anche strettamente connesso con il dolore in tutte le sue sfumature.

In lineamadre la parola che interroga, dunque, stringe insieme non solo due realtà (il dire e la natura), ma anche due nature: la tragica linearità dell'esistenza umana e la circolarità del corso naturale.

Entrambe fanno valere l'idea che si debba trasformare l'esperienza dell'«essere al mondo» in una ricerca instancabile. Dove un peso rilevante ce l'ha l'identificazione di una lingua che possa custodire il «mettere al mondo».

In lineamadre ogni frase ci ribadisce che l'essere umano non recita in solitudine.

E infatti queste scritture si costituiscono come possibili luoghi d'incontro per la ricerca della "bellezza".

Dove per "bellezza" (peraltro titolo di una poesia emblematica di lineamadre) Maria Luisa Vezzali intende "cura" e "condivisione".

Ci troviamo di fronte a una vera e propria poetica della rivelazione dell'essere.

Ci troviamo a confrontarci con un pensiero che non indietreggia di fronte al mondo, sia esso rappresentato - come in "sognando semi" letta poco fa da Alessandro Quasimodo - da un bambino «metà animale metà pioggia / di mani e di sorrisi» oppure da un «profilo / forte e fuggente in bianco e nero ... nel monitor» o da impronunciabili «nomi / dei demoni scuri».

 

Testi poetici

 

passano le mani come epoche
tra questi spazi consumati
passando arano le assenze
la forma è contenuta tutta dalle mani

 

bellezza

sulla terra ci sono vie
che nessuno percorre

ci sono regioni
sfiorate solo dalle ali

onde più alte
della vita

altopiani invisibili
freddi diamante

luci che perforano
gli occhi

volti trasparenti
sorrisi di comete interminabili

spazi senza guerra
nella matrice

dei sognatori che dormono
sotto al ghiaccio dei laghi

 

sognando semi

però tu vieni presto
vieni vero come sei vero
come è vero che ti sto
sognando senza avere visto
di te più che un profilo
forte e fuggente in bianco e nero
annegare nel monitor
eppure è a colori che ti sto

sognando arcobaleno
arco-luce su terre ovali
di respiri legati
dal buio alle radici amare
perfetto elementare
vieni allora tu tutto vero
lo so tutto bambino
eppure è più strano che ti sto

sognando dentro al corpo
metà animale metà pioggia
di mani e di sorrisi
amniotici mentre ci porti
l'inizio della fresca
stagione stabile ti sogno
dentro a cerchi concentrici
di vita e mentre sogno intanto

alieno corazzato
tra le sue piume rugginose
l'uccello-re africano
ci veglia sul mobile accanto
e non pronuncia i nomi
dei demoni scuri che chiude
sconfitti ora nel fondo
ligneo engma dell'occhio

 

Maria Luisa Vezzali (1964) vive a Bologna. Come traduttrice ha curato per Crocetti, nel 2000, Cartografie del silenzio, un'antologia della poetessa americana Adrienne Rich, e per i tipi della Donzelli Conoscenza della luce di Lorand Gaspar (2005). Come poeta ha esordito nel 1987 con la raccolta L'altra eternità (Edizioni del Laboratorio). I suoi versi sono stati pubblicati in Germania e in Spagna.

Dino Azzalin: Prove di memoria, Crocetti 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Come rimestare con le parole nella carne. E nella memoria, in cui capelli e ferite sono impastate insieme dal sudore e dai suoni delle voci. Nell’infanzia è forse la messe più ricca di ricordi e di visioni: “Hanno mani colorate e maniche di giacche/ senza stelle e non danno senso alle cadute/ se non per dire “l’Arcangelo è veloce solo coi pastori”” e i desideri non meno violenti e dirompenti. Le liriche parole di Azzalin sanno materializzare legami fortissimi tra cose che non ne hanno; tra cose accadute nell’infanzia e cose accadute da adulto si crea un ponte fino ad un attimo prima inesistente, ma che ha, ora, per il lettore, la robustezza del ferro: “E un giorno il ghiaccio, fece un segno nella nebbia,/ proprio al di là del Baccaglione e le ferite iniziarono a sanguinare, mentre la memoria come una gemma fiorì”. E il libro si costruisce con la saldezza della vita vissuta, vissuta attraverso il ricordo che ne afferma la presentificazione: un ricordo non è forse più vero dell’acqua che beviamo? E non è forse più persistente e più significativo del nostro quotidiano, non fosse altro perché è impiombato da un’associazione, e trascina il presente che l’ha richiamato in vita a fare da zavorra sul fondo a imperituro ricordo. Perché questo è un libro che richiede che niente venga mai disatteso o dimenticato. E’ un libro-vita. E ogni ricordo è: “Midollo e maledizione/ di un bulbo cocciuto, un segno splendido,/ folgorio nuovo, della primavera”. Memoria è anche occasione di meditazione. Ricollegare, cucire, saldare, rivivere, comprendere. E la vita del poeta è, inoltre, un dono guaritore per il lettore, gli fa rivivere la sua propria esistenza, la costringe alla verifica, la assedia, la mette alla prova. Ricordare è ricostruire, riconoscere e ridare valore. E’ atto conoscitivo: “Il suo inevitabile nulla è/ l’incancellabile suono della parola. Spazio che gira/inesausto tra l’uomo/ la sua memoria”. E una lezione di profonda umiltà ci viene, simile a un vento fresco e lieve nella sera dopo una asfittica giornata, dalle poesie di Dino: è l’ascolto: “Ed io non muto, ascolto/ ciò che di te riguarda il tema/ della parola che ci perviene/ nel dio-rifugio o frutto-fessura,/ avvolti nel fiore che ci trattiene”. Non il livido dubbio, non il rigido rifiuto ma l’apertura: segno della grandezza.

 

Testi poetici

 

1954

Si accampa qui il lume delle origini
affila le sue lame, strappa case,
genera radici nella silenziosa
insurrezione dei fiori, prepara
altri fuochi fatui in limine.

 

1965

Laggiù nella distanza celeste che l’occhio
misura arriva e passa la vita al modo santo
della cometa, che di sé racconta il disincanto
immortale, quando tutto prosegue
senza che niente lo sveli come dio o come altro
nume agli abissi del buio infinito.

 

1996

L’impietosa feritoia della doppia misura
nel due che passa e sillaba ogni rosa.
Né tripudio né baratro nel vivere.
Fiero e combattuto per labirintiche
annessioni. Vincitore di stenti.

 

Dino Azzalin (1953) vive a Varese. Ha pubblicato in poesia I disordini del ritmo (Crocetti, 1985) e Deserti (Crocetti, 1994). E’ giornalista pubblicista,collabora con giornali e riviste, ed è presente in varie antologie.

Giovanni Fontana: Frammenti d’ombre e penombre, Fermenti 2005

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Si può costruire a partire solo da un atto distruttivo? O distruggere a partire solo da una forma comunque selezionata. Si può verificare ciò che resta e ciò che varia, ciò che si deforma, ciò che acquista forma diversa dopo aver subito un autoriale processo. Poiché è in questa faglia, frattura che ha frantumato la congruenza, che si pone per Fontana l’unico spazio esperibile. E che questo spazio ospiti linguaggi multimediali non è nemmeno una complicazione, un aumento della complessità, visto che, appunto, si è già nel campo della discontinuità: “l’orrore del riflesso (flesso/ spinge a non riconoscersi”. Che una forma trapassi in un’altra o che serva per introdurre rumore, incespicamento, difficoltà che rompe abitudine e consuetudine e che c’insegni ad essere supremi padroni delle forme, che ci faccia immergere nel brodo aurorale della creazione, quella splendida invenzione umana che è la cultura tutta, senza steccati e pregiudizi, è, a mio avviso, la molla più importante che un lettore possa trovare nelle operazioni di Fontana: “limpide nebule oggi sfoggia l’aere – disse/ :che acque fatali sciacquino zebedei inflazzati/ da cotanta sventura e poca fama”. Il meccanismo è dato insieme all’oggetto culturale, è il giocattolo, l’enigma – e persino il nuovo prodotto museale – che siamo chiamati ad affrontare per le corna: “: ma è l’ordine che sfugge negli oggetti (concetti (che sfugge negli effetti/ che pure sembrano ben fermi al loro posto/ come da sempre immobili”. Fontana non è distante, è generoso accompagnatore: ci offre oggetto e chiave insieme. Se ambiguità è sempre presente (poesia visiva / sonora / tridimensionale), e sfonda le pareti della convenzione dei generi e dei linguaggi artistici, è, però, anche presente una sopraffina conoscenza del fare artistico e, quindi, del suo fondamentale carattere unitario poiché fare arte è anche comunque atto conoscitivo. Se contraddizioni restano sono quelle inerenti alle forme espressive selezionate. Chi non vorrebbe trovare la forma espressiva che coagula l’impossibile osmosi immagine/parola? Ecco, si materializza nel lavoro di Fontana il limite, nel senso che ci si avvicina quanto più è possibile avvicinarci a ciò che è inavvicinabile. E dovrebbe essere possibile inserire una delle immagini di poesia visiva che costellano il libro per visualizzare il concetto qui espresso.

Fontana gioca (nel senso teatrale del termine) per noi, ma non si accontenta di lasciarci spettatori e ci trascina nel vortice della sua vulcanica fucina, mentre con lui ritmiamo “akkade ke riplasmino/ kelle stroboscopie/ i radenti conflitti di kwei flash” fino a una mascherata insensatezza: “step clod clog cob step clump step clump”, verso solo onomatopeico in italiano ma traducibile dall'inglese con “passo zolla zoccolo ronzino / un pesante andare”.

 

Testi poetici

 

*

l’orrore del riflesso [flesso
spinge a non riconoscersi

      [così nel flusso a volte
le voci cieche titiranoltreilbianco [stanco
  dove penombre sorteggiano le luci [braci
  dove per attraversamenti la lingua è sovraesposta [opposta
  dove i sensi sgusciano la tua fragilità [la tua perplessità
dove gli ascolti trafiggono i tuoi versi [dispersi nella scommessa
dove il pattern enumera
      passioni d’immanenza [in cadenza verticale
dove il gioco rimesta le poetiche e il gesto sposta l’azione
  dove il mistero resta
      nascosto nella grazia d’una pasta all’olio
ma dove è vano
  ricercare ulivi
perchè quell’ombra non li riconsegnerà

 

**

(...)
la perdita di quel sentire d’ombre    squarcia il bersaglio del visibile
le pulsioni son chiuse nel pacchetto materico dei suoni
etichettate bene [ruga più ruga meno

 ma la trama sublima il testo nelle corde
 è la morte delle parole che non sanno affacciarsi sui luoghi dell’ascolto

       io sciolgo legami funzionali
     spiango e spiano sotto le voci
       dove s’addensano le ombre
                in piccole croci

 

Giovanni Fontana (Frosinone, 1946), poeta e performer, lega la sua attività di scrittore a ricerche in campo sonoro e visivo. La sua produzione nei settori della poesia sonora e della poesia visiva è particolarmente ampia. Ha teorizzato la “poesia pre-testuale”, forma poetica di scrittura aperta all’interdisciplinarità. È autore di romanzi sonori, dove la prosa è sostenuta da strutture ritmiche particolarmente accentuate. Tra questi si collocano Tarocco Meccanico (Altri termini, 1990) e “Chorus” (Manni, 2000). Ha fatto parte della redazione di “Tam Tam”, la rivista fondata nel 1972 da Adriano Spatola e Giulia Niccolai. Nel 1987 ha fondato la rivista di poetiche intermediali “La Taverna di Auerbach” e successivamente l’audiorivista “Momo”. Ha fatto parte delle redazioni di “Altri Termini” e dell’audiorivista “Baobab” (dopo la morte del suo fondatore Adriano Spatola). Attualmente è redattore delle riviste internazionali “Doc(k)s” (Francia) e “Inter” (Canada). Dirige “Territori”, una rivista di architettura ed altri linguaggi. Ha proposto performance di poesia sonora in festival italiani e stranieri, toccando le più importanti capitali del mondo: da Parigi a New York, da Tokyo a Shanghai. Ha preso parte a numerose rassegne internazionali di poesia visuale, tra le quali XVI Bienal de São Paulo (1981), XI Quadriennale di Roma (1986). Altri volumi pubblicati: Radio/Dramma (Geiger, 1977), Le lamie del labirinto (Dismisuratesti, 1981).

Giovanni Infelìse: L’isola senza desiderio, Stampato in proprio 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Un discorso franto, continuamente interrotto dallo stesso respiro della frase. Quasi come se cambiasse il vento a ogni capoverso. Vento, poiché siamo su una nave e navighiamo per occulti, enigmatici mari: “E tu figlio/ giunto in acque stige/solerte inquisitore/ ti accosti alla mia ira/ col sorriso benevolo”.

Di canto etico, ancor più che epico, qui si tratta. Virtù intesa come dovere si antepone alle passioni. Di tradimento, di solitudine, di amore si canta, non valori presi in assoluto, ma nella loro doppia valenza: positiva e negativa. Infelìse indaga, infatti, la virtù, l’amore, la bellezza anche nei loro aspetti crudeli e orridi. E’ certamente una lettura non consueta e per questo si avvale di forme che mentre affermano, negano.

Anche la profezia, la preveggenza vi hanno un ruolo e non è secondario. L’oracolo può predire quello che è scontato accada: “Ascolta le orribili urla del mare - /rimani in ascolto del canto/ della solitudine il soffio nella bruma/ poiché tutto scorre nella sordità/ e nell’attesa che giunga a noi la morte”.

Il non udire allora può essere “conforto che solleva dal desiderio della virtù”. Al veleno, il suo antidoto: “ti porto l’orribile amore/ il sacrificio stesso/ che più insensato non è/ dell’ebbrezza e del nome amaro/che alla virtù non crede/ più del coraggio crudele”. E’ questo doppio movimento affermazione/doppia negazione a fare del testo di Infelìse un tessuto sballottato da correnti traverse, dove nulla può mai sopirsi. E dove ciascuna parola ha un volto indecidibile. “La coscienza divora/ dovere e passione/ e alla semplicità dell’orrore non sfugge!”. D’altronde, una vita senza contraddizioni è una vita vissuta con noia, senza desideri: “Scendere nell’orrido/tradire il sogno/ questo solo può consolare/ e dall’enigma trarre/ la sofferenza che restituisce dignità”. E, dunque, anche un modo di vivere senza desideri, per quanto liberi dal dolore e dalla disillusione, è, a sua volta, portatore di una vuota esistenza. Se, dunque, per il viaggiatore: “Perdersi è un inizio/ ritornare l’intento arduo”, ciò avviene perché è impossibile uscire da questo anello e si è comunque costretti a percorrerlo, ma bellezza sarà sempre presente, anche quando mostruosa.

 

Testi poetici

 

Tocco quel sole che attanaglia
e come l’oscurità trapassa
e cammina nel tempo
la vita che fa dolce l’attesa.

 

*

Trascina la curiosità il passato
e l’altro ciò che può nasconde
e insinua l’invisibile
la levità della carezza
tra le rovine e l’assenza
che affligge senza posa.

 

**

Scendere nell’orrido
tradire il sogno
questo solo può consolare
e dall’enigma trarre
la sofferenza che restituisce dignità
e così sapere
quale nuova infedeltà ci attende
ignominiosamente nuda -
ciò che lusinga
ha la bellezza di uno stelo
del tempo inutile che intreccia
quel brusire assorto
di un’isola che non è terra.

 

Giovanni Infelìse (1957) vive a Bologna. Laureato in Filosofia, ha pubblicato in poesia Sfero (1987), Zèfiro (1989), Sotto la luna (con Giorgio Bonacini, 1991), Cuora tremula (1992), Canti dell’amarezza (2001), oltre a singoli testi su riviste e quotidiani. Rilevante la sua attività saggistica.

Pietro Spataro: Cercando una città, Manni 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

La scansione dei mestieri di Spataro somiglia più a un ingresso nell’antro del mago, come se certe capacità (avere a che fare con il legno, l’elettricità, l’acqua) fossero date non da una tecnica, ma da un ascolto rivolto al mondo della materia e il saperla maneggiare e rimettere in funzione fosse atto magico: atto legato alla sensazione, non alla ragione. A volte, è però anche una prigione, atti sempre uguali e meccanici che tengono prigioniero un anelito al diverso: “La condizione umana è nel suo sguardo reciso/ nella domanda dura/ che aspetta di trovare/ gli occhi che diano/ l’attesa rotondità/ di un’altra libertà”. Anche soddisfazione: nell’attività del muratore che vede giorno dopo giorno nascere una casa oppure angoscia. Mestiere dopo mestiere vediamo innalzarsi l’enciclopedia degli stati emotivi e dei pensieri che definiscono l’uomo in quanto lavoratore a cui segue l’enciclopedia dei personaggi e degli interpreti. Da un osservatorio senza strumenti, quotidiano e dimesso, Spataro sa rendere di carne tipi definiti da contratto di lavoro o da scenografie sociali (l’immigrato, il senatore, l’infame, l’inquisito). Persino gli indirizzi possono essere oggetto di perlustrazione per rintracciare memorie, per definire oggetti e scenografie che segnano il nostro quotidiano: “il percorso definito, il corposo/ ritrovarsi seduti al freddo scalino/ sorvolare le forme d’identità:/ i nomi, le frasi, le scansioni”. Il tentativo di antropomorfizzazione è evidente in questa cartografia che cerca negli oggetti da recensire, qualità umane, quasi in un tentativo estremo di riconoscimento che l’uomo contemporaneo cerca nelle sue città spersonalizzate: “Il cartello stradale è impreciso/ la via ha troppe buche, le rughe/ dell’asfalto hanno tempi brevissimi”. E geometria non è immune da proiezione fantasmatica: “L’ottagono è città multipolare/ trionfo di culture, di saperi/ incontro di diversi, uguaglianza/curiosa esplorazione/ sinfonia di nomi nuovi/città del sole, liberazione”. Una sorta di istinto, di bagliore intuitivo guida Spataro nella definizione della sua schedatura che a partire da elementi privi di connotazione, quali sono appunto gli elementi geometrici, costruisce un suo libro delle meraviglie, delle visioni, dei sogni e delle predizioni. Non è quasi come leggere i fondi del caffè, guardare ai propri gesti per sapere se si ama o se si odia o sui binari “soprattutto se ci sarà/ una mano a prenderci/ per riportarci dove/ ci eravamo lasciati”. Qui l’interrogazione che investe le cose le sopravanza come un’onda montante e si fa domanda lancinante sul perché della guerra. Si fa interrogazione sul senso della vita: “mentre credevi d’essere un dio/ ti ritrovasti terreno più che mai/con il fango che dipingeva/ l’ultima tua condizione disumana”. Allora, si comprende come per Spataro costituisca un inizio l’indagine sulle cose, un modo di dare ordine, di “Liberarci dal vuoto del potere/ dall’ideologico concorrere violento/ dai tribunali di partito/ dall’erosione”. Se pure potrà poco quest’azione, conta però il compierla: “ho cercato una città che cerco/ ancora oggi che è così misurata/ la passione, smilzo il breviario/ di questo pacato andare in ordine/ senza più lo scarto nemmeno/ di un’avanscoperta sul terreno”.

 

Testi poetici

 

Cogito

Pensando costruisco
l’artificio, il danno
metafora della realtà
o similitudine
O forse trasformo
il pensiero nell’assunto
facendo della realtà
un presunto

 

Gravità

Rotolando all’indietro vedi sottosopra
il cielo in terra, la terra in cielo e il sole
tra due assi paralleli sempre sospeso:
se fosse migliore il mondo alla rovescia
dovremmo inventare un’altra gravità

 

l’ordine delle cose

La cecità è nell’ordine delle cose
l’accaduto non si rivela, spenta
negli occhi invecchiati ogni luce
- come in un arido interno notte -
la nostra pena immutabile scorre
sull’asse meridiano
poi si inabissa lento ogni chiarore
- come in un freddo esterno notte -
Ecco, è un’indicibile perdizione
camminare lungo il buio del giorno
dove nell’assenza tace l’esordio
afasia oppure indeterminatezza

 

Pietro Spataro (1956) vive a Roma. Giornalista, è vicedirettore vicario del quotidiano “l’Unità”. Il suo precedente libro di poesie, Al posto della cometa, è del 2002.

Aldo Ferraris: Danza di nascite, Azimut 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Il mito della creazione raccontato con coppie antinomiche: caos/ordine, grande/piccolo, fuga/ritorno, ma soprattutto qui il mito più che quello della creazione è quello della impossibile coincidenza tra una natura senza limiti e la forma del corpo di donna e tra corpo e mappa. Delimitare è azione tutta umana. E Ferraris molto spende per descrivere il senza limite, ciò che non si coglie con un solo sguardo nel costante, reiterato, tentativo di dare definizioni, di disegnare un mondo che abbia precisi confini e nomi. Il tentativo cogente è quello di riconoscere nelle arcigne forme della natura e delle sue disumane forze, il riconoscibile, l’amabile corpo di donna, solo secondariamente portatore anche della funzione di progenitura. Prima dell’uso, si direbbe che ci sia il riconoscimento, il ricondurre ciò che è sconosciuto a ciò che è familiare: “la parte oscura del capezzolo da cui sgorga il mare”. Vi è intensa la ricerca di tali corrispondenze (terra/corpo/mappa): “L’impronta del tuo largo sonno è valle e sentiero/ filo di desiderio che si srotola come vento dai tuoi fianchi”. La ricerca di tale corrispondenza è punto focale per il poeta: la corrispondenza fonda l’unità della realtà con la poesia. Vi è uno scarto preciso tra una fase in cui ancora manca la parola: “la proteggi dall’odio di un nome non ancora pronunciato/ un nome dalle vocali come aghi di silenzio nella gola” e una fase in cui si aprono le infinite possibilità di nominare. Con la parola si inaugura anche l’illusione e il disinganno: “consapevole dell’inganno di ogni tua singola voce”. Metamorfosi e infiniti stati del possibile confondono le acque, fanno tremare la terra sotto i piedi. Si direbbe che il possibile è un morso nella carne. Se qualunque cosa può essere, siamo di fronte soltanto ad apparenze: “Evoca in me il corpo di chi mi ha vissuto diverso/ la corteccia che ha inciso le mappe delle mie traversate,/ scrivani d’argilla e piume traducono il tempo in forme/ che tu modelli con dita e nomi mai simili a sé”. Un altro tema importante per Ferraris è, infatti, il mutamento. Tutto il testo si trasforma sotto gli occhi del lettore: scrittura come atto metamorfico, che può cogliere ciò che dapprima sembra indefinibile nella sua variabilità. Scrittura si fa duttilissimo strumento che segue e registra. E coinvolto nell’atto metamorfico non è soltanto l’oggetto indagato, quale che sia: “La ferita da te inferta trasuda la pietà dell’arma è ruga incancellabile nella noce dal palato di miele” ma è anche l’autore stesso, che intercettiamo in diversi stati. Anche il poeta ha le sue strategie: “La via dove inseguire una tregua/ e rinunciare per sempre a se stessi”. Oppure una strategia in cui l’uomo si assoggetta alle leggi naturali, diminuendo al massimo la distanza che lo rende diverso da lei: “Ogni minuta presenza che obbedisce/ alla tua dispersa bellezza sa il bisogno/ non la ragione”. Adattarsi al suo ritmo, essere consapevoli che siamo nulla nel tempo illimitato: “Calarsi nell’abisso del nutrimento”…“ è “piegare alla grandezza le stagioni”. L’uomo deve affrontare selve e dirupi e ha ricevuto solo il piacere per lenire le sue ferite. Eppure, l’uomo è dalla natura che viene. Siamo nel tema centrale del libro di Ferraris: il dialogo con la natura : “qualcosa che è tuo e in me si fa esilio”. E tale dialogo, il poeta riesce a trasmutarlo in coincidenza: “Bottone dopo bottone ti svelerai”...”assenza dopo assenza farai l’amore”. Trascinare la natura ad assumere sembianze umane, vorrà dire per il poeta raggiungere la meta: natura a umana misura!

 

Testi poetici

 

*

Il percorso che mi circonda è quello
del seme, il raspare di radici neonate
come rami ai battenti del cuore.
Il percorso che scende nelle vene e sale

nei tronchi del respiro, prossimo
alle nervature di una nascita antica.
La via dove inseguire una tregua
e rinunciare per sempre a sé stessi.

 

**

Scendere è nell’oscurità dell’acqua
nel suo trascinare per mano il pericolo.
Scendere è nello stillare della luce
tra le dita della guida, nella sua nudità.

Calarsi nell’abisso del nutrimento
è scorticarsi la fronte sul cielo
contemplando il corpo delle tenebre,
è piegare alla grandezza le stagioni.

 

***

Volteggia sul paesaggio il tuo mantello di pioggia
disegna anche e spalle di fioriture ingorde ma
l’elsa di ogni goccia nasconde una mano esperta
il pugno senza unghie della tua violenta bellezza.

 

****

Ti ho vista nella notte disporre la scacchiera dei mutamenti
ogni regola indivisibile fasciata nel colore che dovrà subire,
le guide d’ira e malinconia riverse come cani al principio
della via del ritorno, gli occhi a squarciare la gola della luna.

 

Aldo Ferraris (1951) vive a Novara. In poesia ha pubblicato La cattedrale sommersa (Rebellato, 1978), Ventidue mutamenti dell’I KING (Tam Tam, 1987), Mantiche (Anterem, 1990), Codici (Anterem, 1993), Horus, parola improvvisa (nell’antologia: 7 poeti del Premio Montale – Scheiwiller, 1993), Grande corpo (Anterem, 1997), L’orgoglio dell’assenza (All’antico mercato saraceno, 1999), Acini di pioggia (Gazeo, 2002), Nulla sarà perduto (Archivi del ‘900, 2004). Suoi testi sono apparsi sulle riviste “Anterem”, “Atelier”, “Capoverso”, “Galleria”, “Gradiva”, “Hortus”, “La Clessidra”, “Microprovincia”, “Niebo”, “Pagine”, “Pianura”, “Vernice”.

Stefano Guglielmin: La distanza immedicata, Le Voci della Luna 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Potrebbe essere un gioco di posizione tra parole, scambiandole, infatti, cambiano valore. E’ un gioco da farsi solo quando vigono certe condizioni: “non sapere nulla cominciare tuttavia”. Non è un gioco al massacro, ma non se ne è nemmeno così distanti: “insabbiando il corpo in questa melma/ che fa grave l’amore e in te lo eterna/ diluvio/ che sforma laura che la sfalda in tanto vuoto”. E’ chiamata a testimoniare la poesia: in sua rappresentanza Beatrice, Laura, …o Maria.

È quasi un’afasia: “l’esatto del corpo senza mondo e poco giro/ d’aria intorno poco respiro”, ma dotata di una sorta di saldezza tenace: “corsa fatta per noi/ che caliamo a picco nella stessa storia/ saldi al ramo che butta senza pensiero/senza paura”. Penseremmo che poesia basta a poesia: “come da celeste bocca una parola/ che s’involi al caglio degli uomini/ è il pigolo d’anime in ribalta/ quando lei liquida sbraccia/ e crespa/ tira a sé i suoni /lontra”. Di parole sonore allora è fonte, scroscio e valanga. E senso dietro arranca. Poiché senso sempre figlia. Basta pronunciare e spiragli e spicchi d’ombra si aprono per ospitare il lettore in nuovi sonori mondi. E, dunque, convenuti a una medesima tavola si affollano personaggi e lettori: insieme condividono il poema. Vita sembra esistere solo in ieratica pronuncia, in mitica fondazione, in aperte pagine: “e niente pensiero solo trame tante cose /rapide nel volo l’intero mondo leso”. Persino una cosa così importante come la casa “è scritta nella carne, dentro. nel corpo come il volo o l’acqua, come l’amore e i figli. non pensava a tanto. e non per sempre. solo chiudere un libro, aprirne un altro”.

Nel rincorrere, nel farsi rincorrere dalle parole quasi si raggiunge una zona di sospensione: “mentre l’olmo e la rima si sfanno e così la lingua/ nella sera che in quella presa salda vicolo a torre/ la curva dell’umore ala nera morte nera”.

Nella sezione “Dripping”, la capacità di Guglielmin di immergersi nell’azione della pittura è essa stessa pura azione metamorfica. Si direbbe che lui stesso sia pittore: “una masnada di segni per aria/ tutti presi nell’impasto oppure/ di nuovo paesare l’asciutto/ e la fame d’ogni cosa rivolta”. D’altronde, la lingua non è mai lontana, segni stanno sul limitare tra immagine e testo. E il dialogo è talmente serrato che lo si distingue a fatica provenire da due fonti diverse: “giallo come il petto della serpe/ fa la lingua malata e la svolta/ d’ogni cosa che cade”. Musica, naturalmente è di fianco e fa il suo ingresso in maniera del tutto congruente: “e se resiste, lei, è per legati e presti, è per la musica/ messa in rima al corpo”. Il lettore, pienamente investito dallo scroscio, defluisce sulla corrente d’un fiume di cui non percepisce più le sponde.

 

Testi poetici

 

*

se pretendi il salto
e l’elmo o quella forza
che dia il frutto
chiaro della mano
se reclami l’opera e l’intero
se scrivi a caso o spiovi
fino alla pozza o al buio
se incidi ed espelli se sei terra
cioè pane cioè bocca e cieco
t’infuochi se sei palmo
sospeso tra nero e astro punto
se sei punto o covo
io che in me batti e sporgi fuori
e parli e vedi e scampi
al vuoto “dove comincia – chiedi -
dove finisce io dove finisco
se sono salto ed elmo e palmo
se parlo e ovunque muoio?”

 

**

il volo sul ramo che non regge
o la sillaba, che compie il suo mestiere

ma è un diverso stare sulle punte, se poesia
nata dal guscio che si frange, sfanta
al peso delle cose.
   anche la madre
fatica nella gabbia, o ruota
al bar della stazione, ma è un diverso
stare sulle spine, appunto
un salto, che alla palpebra non nuoce

 

Stefano Gugliemin (1961) vive a Schio (VI), dove lavora come insegnante di lettere. Laureato in filosofia, ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del Gruppo Fara, Bergamo 1985, premio “poesia giovane”), Logoshima (Firenze Libri 1988) e Come a beato confine (Book editore, Castelmaggiore 2003, premio Lorenzo Montano per l’edito) e il saggio Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona 2001). Un suo racconto breve è pubblicato su AA.VV., La lente chiara, la lente scura (Empiria, Roma 2002, premio A.M.Ortese). Fitta e interessante è la sua partecipazione a riviste, tra le quali si ricordano: “Atelier”, “YIP. Yale Italian Poetry”, “Il Segnale”, “L’Ulisse”. Cura il blog di poesia “Blanc de ta nuque”.

Gilberto Isella: Corridoio polare, Book 2006

Versione stampabilePDF versionTrascrizione dell'intervento di Flavio Ermini alla Biennale Anterem 2007

 

Gilberto Isella è poeta, saggista e traduttore. Vive a Lugano. Autore di diverse opere poetiche, anche in collaborazione con artisti. È coredattore della rivista "Bloc notes".

Questa sera ci occupiamo del suo libro Corridoio polare, edito lo scorso anno da Book.

Diciamo subito che questa opera poetica è popolata da voci. La loro diversità determina varie forme di linguaggio: dalla poesia tradizionale al verso libero, fino alla prosa poetica. Insieme danno vita a una libera assemblea.

Le voci protagoniste sono tre e prendono corpo un'immaginaria clinica. 

Sono molto differenziate tra loro.

Quella che dice «io» appartiene a una creatura alla ricerca di un orientamento, di un varco - il "corridoio" del titolo - che dovrebbe portarla verso la propria identità, oltre la scissione di cui è prigioniera. 

Nella seconda voce l'«io» diventa un «lui», un paziente da seguire come malato mentale. Tale voce, quasi un coro, si leva dal personale ospedaliero. L'abbiamo appena ascoltata da Alessandro Quasimodo: «"Si era messo in salvo oltre il corridoio polare ionico" / come dietro una coltre ultima, definitiva e illimitata».

La terza voce è quella del poeta e riflette su una questione capitale: i limiti della ragione umana.

Tre protagonisti, dunque. Li differenzia la modalità delle forme a cui si affidano, ma li unisce un denominatore comune: uno sguardo lucidissimo sulla realtà nella quale si trovano ad agire.

Questo sguardo è acuto e indica che è necessario essere impietosi di fronte alla condizione di vuoto interiore in cui l'uomo giace. Impietosi: affinché tutta la negatività, che vive in noi, salga al controllo della coscienza. 

Tra le voci - queste e altre che via via si affacciano alla parola - permane un vuoto.

Ciascuna voce teme il dialogo con quella attigua. 

Ed è proprio questo che caratterizza l'opera: la divisione dello spazio vitale in settori distinti, raramente comunicanti. Ma - diciamolo chiaramente - la lacerazione più profonda si incide tra l'«io» alla ricerca disperata della propria identità e un mondo fondato sul primato crescente del controllo sociale e clinico. 

Ed ecco allora che una voce - quella che si leva dall'«io» - cerca di «mettersi in salvo oltre il corridoio polare ionico» per giungere all'unità originaria.

Ma per far questo, ci dice Isella, è indispensabile riconquistare un tempo albale da cui ripartire e accedere a quella «condizione zero» dell'esistenza, di cui proprio il "corridoio polare" è l'emblema.


 

Testi poetici

 

Guarda impassibile
Armonia e Disarmonia
farsi a vicenda crudeli dispetti
perdere orientamento

Ascolta il fegato di un cane
guaire e torcersi
nel siliceo cilindro
causa esperimento

Sente ogni vita avvitarsi a se stessa

 

*

"Si era messo in salvo oltre il corridoio polare ionico"
come dietro una coltre ultima, definitiva e illimitata

Spiacenti, un corridoio con quei connotati
è un'insensatezza della fisica e se ciononostante
tempo addietro fu visto
da una placca spettrale di ghiaccio
ora ne siamo tanto distanti da risultarne alieni
ma da quella distanza qualcuno ancora
legifera su moncherini geografici o pedane oscure
d'oltremondo per passare inosservati a nuove dimensioni
cavando con dolore imbottitura di tempo
ineguale da immenso orologio di sonno
Forse una nube altissima
e fuori d'ogni norma lunga esiste
ripiena di n e di nn eccetera
ma giammai si scarica in pioggia o grandine
né è raggiungibile per veridificazione di forme
e di sostanze

un dolente destruendo
da qualche conca matrigna, fossile raggio
ionico magari
per pallida congettura scientifica...

eppure lui si era messo nel saldo imballaggio
dei salvati

 

**

Poi ho intravisto il corridoio polare ionico, ora lo vedo, continuamente, instancabilmente lo vedo, lo miro, lo fingo e fingendolo l'attesto, e Lui, la mia dimora,

mi dilata, divarica le tempie dell'anima, mi divora.

C'è la scala. Il formicolìo dei nomi in sonno, dei logaritmi impotenti, cerca una scala, la verticale che salva. La scala ha gradini ma, composti i suoi gradini in serie ascendenti, ne tiene il volume ridottissimo, oppure se li mangia. Li sopprime per essere pura scala, da scalini, suoi inferiori e imperfetti gradi, ripulita. La scala ripiega dunque su se stessa, è a cerchio, moltiplicando un gradino per 3,14 si percepisce il valore, il ritmo, il sussurro, la rotazione ininterrotta della scala. Ma come può succedere questo, se il quadrangolo aborre il cerchio, e se il provvisorio ripiano, il quadrangolo appunto è già cotto, fatto fumo, amputato della sua essenza dalla scala? Eppure la scala c'è, apertura al corridoio, lungo braccio dell'essere...

 

Gilberto Isella (1943) vive e insegna a Lugano (Canton Ticino). Attivo come saggista, con numerosi studi pubblicati in riviste e in miscellanee su autori contemporanei e del passato, soprattutto poeti. E' redattore della rivista di cultura "Bloc notes". Tra le sue opere poetiche: Le vigilie incustodite (1989), Discordo (1993), Apoteca (1996), Nominare il caos (2001), Fondamento dell'arco in cielo (2005), Autoantologia (2006).

Luca Sala: terreni, Zona 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Non è agevole entrare in un testo che tergiversa, costruito sulla scansione di parole che affrontano parole di senso opposto e che non giungono a sopraffarle. Il testo è in lotta e in questo senso riconosciamo che è un “libro politico”. Ma è un politico che riguarda esclusivamente la scrittura: “io faccio il tuo, tu il mio, e ancora, ancora/ non abbiamo mai fatto niente”. Prima coppia di opposti: fare/non fare. L’intero libro si articola intorno a tali coppie. Luce e buio: “è buio, e ci si racconta storie false nel giorno”, quasi come se la luce avesse il potere di far virare il senso delle parole, di renderle altro. La lotta è anche contro la doppia valenza che hanno non solo le parole, ma le cose stesse. Scrivere è lottare per individuare il senso in relazione a sé. Colui che sente è colui che decide il senso, ma Sala è persona delicatissima, che registra le più piccole oscillazioni e variazioni, senza omologarle, senza assolutamente addivenire a unità sistematica. Preziosa, dunque questa sua operazione di registrazione/restituzione di qualcosa che è connaturato nel linguaggio e che proiettiamo sulle cose. Perché alla fine, forse, il lettore, sa bene che è Sala che rende ambigua la realtà. Non si tratta di voler togliere ambiguità alle cose, ma il lavoro di cesello che qui si attua denuncia che è lo scrittore colui che forgia la realtà. E che usa il linguaggio in modo ambiguo.

“io vado, dice, in silenzio quasi appeso/ sulle sue corde della voce, sui fiori”. Voce/silenzio si rincorrono lungo aiuole in un tempo altrettanto scisso. A tratti, la visione delle cose ha un viraggio acido, solo negativo: “ora che cosa vuoi che io ti dica/ che sulle stampe non colava il latte/ della polvere, il caffè aveva il suo odore/ e sapeva del pranzo marcito”. E proseguendo diviene funereo, lugubre “e poi sulle labbra rimbalzano come sulle soglie/ gli alveari, al caldo, e poi si marcisce/ alla fine tutti si marcisce”. Si coglie in Sala anche quasi un’impossibilità di raccontare, mentre racconta. Una consapevolezza dell’irragiungibilità della meta, che lo stesso autore si è posto: “ma forse un frammento, non basta/ e lo scruto ancora”. Lo stridio tra inconciliabili aspetti pretende un prezzo. Tutto si ricompone e si sfalda continuamente nel laboratorio di Sala: “è nella stessa materia mentale, lo spazio di un’occhiata/ anche lenta e misurata”, in cui la stessa mancanza di avvenimenti lo assedia: “la zanzara giaceva morta/ in un terreno neutro./ era sul davanzale”. Quasi un tentativo estremo quello di far collidere gesto e parola. In uno spazio solo mentale, con gesti minimi, Sala ha collezionato la sua raccolta, ma sempre restando aggrappato alle percezioni, quelle relative a minimi accadimenti, appena sulla soglia del percettibile. La difficoltà resta: “io mi adeguo come l’acqua alle sue fondamenta /ma le terre di oggi hanno l’argilla più solida” e Sala si tiene saldo al libro: “recinto folto / in fine su di un orlo di parole”. Parole sono, infatti, comunque ancoraggio.

 

Testi poetici

 

*

sta alla lunga a rimosso di un velo speziato
e ne gioca al perno della fibrillazione,
all’attimo del vento, ne gioca il profumo
a squarci

così pareva di quanto a noi rimasto, a un passo
il gradino della lapide
in una parabola di terreni mossi e argillosi
così pareva a noi rimasti solo a guardarci

 

**

ti avrei per quanto un poco voluta
ad occhi che stanno alti sulle ciglia
a meno di un testamento, scaglie
di minuti che gonfiano i polmoni

e li metterei in fila uno ad uno
per farne i fili, sulle ossa dovute
un poco di più su passi allargati
questi fiori di occhi buttati al cielo

 

***

in corsivo avrei rifilato le unghie su un corpo
e poi la lista degli emendamenti, gli scuri abbassati

non è che si possa rifare una stessa cosa
e poi sulle labbra rimbalzano come sulle soglie
gli alveari, al caldo, e poi si marcisce
alla fine tutti si marcisce

 

Luca Sala (1972), poeta, traduttore dal polacco e musicologo, vive a Cremona.Ha pubblicato la raccolta di versi Stati (Anterem, 1996). E’ presente in antologie e riviste.

Giorgio Celli: Percorsi, Sometti 2006

Versione stampabilePDF versionTrascrizione dell’intervento di Flavio Ermini alla Biennale Anterem 2007

 


Giorgio Celli: poeta e uomo di scienza. Autore di opere poetiche, saggistiche, teatrali e narrative. Un’attività multiforme, la sua. Che si riflette nel suo cammino poetico, ben documentato nel volume di cui ci occupiamo questa sera: Percorsi, edito lo scorso anno da un editore mantovano, Sometti.

Percorsi. Un titolo apparentemente generico. In realtà pochi altri titoli potrebbero meglio definire questo lavoro poetico: un lavoro che riunisce in ordine cronologico poesie composte dal 1969 a oggi. 

Cosa emerge dall’opera? Proprio una serie di “percorsi” – come dice il titolo – passaggi, movimenti, che obbediscono a un preciso progetto, che l’autore molto lucidamente così enuncia in una sua poesia: «… sciogliere il coagulo nero della storia / … / costruire nuovi imponderabili universi». 

Giorgio Celli sa che il dire ha inizio con un viaggio interminabile negli strati interiori dell’essere umano. Per cogliere qualche segreto della vita.

E qui si pone il problema dei problemi: come dire la vita? come trasmetterla? come dirla senza rappresentarla?

Celli ci mostra un essere umano che vive in un mondo che sta diventando a lui estraneo.

Ci parla del nostro “precipitare” al di fuori della natura umana.

Ci parla precisamente della devastazione che subiamo ogni giorno, schiavi come siamo ormai delle forze produttive.

E ci indica che questo segno negativo è destinato a perpetuarsi in modo indefinito se non abbandoneremo la nostra passività.

È esplicito Celli in questa denuncia. Tanto che in una poesia dedicata al figlio il tono diventa addirittura imperativo: «riprenditi il tuo pianeta / e perdona al nostro secolo / che ti lascia in eredità / una fogna e una bomba».

È innegabile il carattere antitotalitario e antiidolatrico della lingua di Celli.

Una lingua che chiama la parola poetica al massimo di responsabilità. Tanto che in questo libro ogni verità raggiunta è un incitamento a proseguire oltre.

Queste scritture hanno la proprietà della leggerezza e sono proiettate verso il continuo rimando ad altri saperi: della scienza, in modo particolare, ma poi anche dell’arte, del teatro...

Ci troviamo di fronte a una poesia “critica” che, come la filosofia, riflette sulle condizioni della sua conoscenza. E si dà come compito quello di indagare la vita: questa nostra vita, compresa tra due rive silenziose e destinate a restare inaccessibili.

 

Testi poetici

 

Da Impotenza della poesia

1.
con le parole vorrei sciogliere il coagulo nero della storia
erigo i polsi delle apocopi contro le nuvole in compluvio
scivolo fuori sulle dieresi nel giardino le comete sono basse
tento di arginare con la metrica le foci del diluvio
un accento tonico può fermare il vento o la tua rabbia solitaria
mi fabbrico con un niente pieno di voci una nuova memoria

 

8.
la poesia è un’ipotesi che nessuno ha mai verificato
una rivoluzione impossibile di cui ci resta il sospetto
uno spartito musicale su cui il futuro è passato
una proposta senza risposta una efficacia senza effetto
un segno che l’aruspice scopre nelle viscere di un fossile
una condanna all’ergastolo per una simulazione di reato

 

Da Il pesce gotico

6.
in principio era solo l’ascesi biologica
il microbo nel sangue e il virus dentro il microbo
l’autotrofo-eterotrofo l’erbivoro-carnivoro
i quanti la valenza la relazione trofica
la soria nel tellurico ritmo dei bradisismi
nelle cariocinesi dei fellogeni arborei
nelle vene che irrigano i tessuti corporei
corsi e ricorsi storici gli ana-e-i-catabolismi

morfologie dell’essere dal plasma originale
alle strutture organiche dall’ameba al neurone
in principio era il drago dopo l’evoluzione
san giorgio cibernetico scimpanzé in verticale
dove bruciava l’estasi del ciclo fisiologico
con la chiusa armonia dei perpetui ritorni
egli il magma del tempo coagulava in giorni
le premesse ponendo del divenire storico

l’evoluzione allora si trasforma in progresso
la classe dei mammiferi ascende a umanità
san giorgio fatto uomo ora senza pietà
stermina in tutti gli altri il drago di se stesso

 

Giorgio Celli è docente all' Istituto di Entomologia "Guido Grandi" presso l' Università di Bologna. Accanto al lavoro scientifico ha coltivato una parallela attività letteraria. Ha fatto parte del Gruppo '63 e ha collaborato a numerose riviste. Interessato al teatro e all' arte, nel 1975 ha vinto il premio Luigi Pirandello con l' opera Le tentazioni del professor Faust (Feltrinelli 1976), ha messo in scena diverse sue piéce, (nel 1975 e nel 1977) al Festival dei due Mondi di Spoleto. Nel 1986 ha curato l' audiovisivo "Arte e biologia nel Novecento" per la sezione "Arte e scienza" della Biennale di Venezia. Collabora con "Il Messaggero" e ha una rubrica su "Quattrozampe". E' stato il conduttore della fortunata trasmissione televisiva di RAI 3 "Nel regno degli animali". Dal giugno 1999 è Parlamentare europeo. Altre sue pubblicazioni: Il Parafossile (romanzo, Feltrinelli 1967), Prolegomeni all'uccisione del Minotauro (poema in prosa, Feltrinelli 1972), La scienza del comico (Calderini 1982), Bugie, fossili e farfalle (il Mulino 1991). Per la poesia: Le vite parallele (Mondadori, 1974), Il pesce gotico (Geiger, 1979), Versi verdi (La Corte, 1993).

Lucetta Frisa: Se fossimo immortali, Joker 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Inizia con un elenco: parole che riempiono una scenografia, che provengono dall’infanzia o dalla memoria dei secoli, e che delineano uno spazio in cui potrà essere attualizzato l’evento che si sta richiamando: può bastare “vaso etrusco fratturato che fuori luce è messo/ insieme agli altri nella grande notte/ dei musei bombardati dalle guerre”. Il movimento messo in atto dalle parole rievocate s’ingrossa, diviene onda ed è, allora, un cascata d’immagini colorate da aggettivi che danno ai sostantivi una qualità personale, designano l’autrice, le donano sostanza, ma di una tale miracolosa pesca è necessario avere cura e per renderla eterna ci vuole misura. E qui, siamo, forse, nel nucleo incandescente dell’attività poetica. D’altronde, strappare le parole alle cose “è cosa che dura da trecento milioni di anni”; l’azione di “strapparci i nomi in una sola pelle/ radure aride che furono altomare/ ora ossa schegge fossili fiati interrotti” è azione che ricerca l’affetto in ogni cosa, come fosse una prova d’esistenza che la Frisa chiede al mondo. E allora sillabare, parlare equivale all’atto della semina che porterà inevitabilmente un raccolto: se stessa. “Le parole non arrivano dal mare sono/ nella bocca/ appaiono e scompaiono dall’acqua torbida”. Non ci sono che parole per esistere.

“Se avesse fatto buchi nella materia sorda/ quanto suono/ avrebbe catturato quanta energia/libera dai cedimenti del mondo/ e tutto avrebbe voce…”. Voce che si vorrebbe donare a tutte le cose perché potessero testimoniare e perché dalle parole altre parole potessero fiorire, perché parola avessero anche gli animali e i bambini “che non sanno farsi domande/ hanno corpo e lingua intorpiditi”. Ascolto, questione cruciale dello stare al mondo. “L’ascolto/ chiama il sogno della sordità/ la vista/ il sogno di non vedere”, ma inevitabilmente il nominare porta con sé, inschiodabile, la delusione. Tutto il testo oscilla, infatti, tra polarità: l’integro, il frammento; il conoscibile, l’inconoscibile; il piacere, il dolore; la memoria, il presente.

“Ci sono modi infiniti per dire/ il finito/ tutta la vita ci vuole/ il suo involontario esercizio”. Esercizio della scrittura che illumina la via, unica, da percorrere, nonostante la consapevolezza che tale esercizio non sia sufficiente. Lucetta Frisa non sarà mai paga di disseminare domande mentre elargisce risposte mai esaustive. Allo stesso modo, un’indagine condotta nella follia è una discesa nella materia indagata attraverso le sue immagini, le sue visioni, e, ancora una volta, è la voce che s’incarica di dire la dismisura: “Voce del buio, estrema, sembra unire/ vita a morte. Chi sente quella voce/ non si chiede se è folle non lo sa lui”. Quasi un resto che non si colma. Poiché ciò che ha segno negativo non viene annullato da ciò che ha segno positivo: non esiste pareggio. Lo testimonia anche la serie degli autoritratti che costituiscono un tentativo di disegnare la propria fisionomia con pochi lievissimi tratti, un modo di mangiare una mela o di togliere le pieghe a una coperta, appena degni del titolo di avvenimenti, sensazioni minime, proiezioni o percezioni alterate o partecipazione sublime: tutto serve per dirsi. Per fissare un insopprimibile ritratto di sé, pur nella dismisura di un perenne non-finito.

 

Testi poetici

 

Maestri

Si dice i sogni sono maestri
dal silenzio insegnano a dimenticare il superfluo
ma appena ci svegliamo
parole mortali
dicono il contrario con prepotenza.

Quando non si sogna comanda il buio
i suoi pulviscoli non sono occhi
nessuno guarda da nessun luogo
siamo vivi – pensiamo.

 

Da Persona

Ci sono modi infiniti per dire
il finito
tutta la vita ci vuole
il suo involontario esercizio.
Come distinguere le interferenze
nel vetro dello specchio
la fiamma dal fuoco
il fuoco dall’incendio
l’incendio dal rogo
il rogo dall’assoluto rosso
che genera riflessi cenere storie
legate a polvere e un solo gesto
nel silenzio non scritto
che indica.

La luce
nata così
la sola che abbiamo.

 

Lucetta Frisa è nata e risiede a Genova. E’poeta e traduttrice. Tra i suoi più recenti libri di poesia: La follia dei morti (Campanotto, 1993), Notte alta (Book, 1997), L’altra (Manni, 2001), Disarmare la tristezza (Dialogolibri, 2003), Siamo appena figure (GED, 2003). Ha tradotto Emily Dickinson, Henri Michaux e due libri di Bernard Noêl (Artaud e Paule, 2005, e L’ombra del doppio, 2007), entrambi per la collana “I libri dell’Arca” delle edizioni Joker, di cui è curatrice insieme a Marco Ercolani. In coppia con Ercolani, scrive libri di storie immaginarie e non, come Anime strane (Greco&Greco, 2006). Con i suoi racconti per ragazzi collabora al quotidiano Avvenire. Tra i diversi riconoscimenti, il più recente è il Lerici-Pea del 2005 per l’Inedito.

Alessandro Ghignoli: Fabulosi parlari, Gazebo 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

È subito il calderone, l’immersione nel caldo brodo della cultura, dove da ogni riemersione si hanno fra i denti sfilacci di petti di portoghese, di zampe di spagnolo, conditi da viaggi in mondi solo un po’ più lontani, ma che sanno di ultraterreno, di meta paradisiaca: “fosse somma cosa il tabulare fabuloso insieme de come li poeti deono parlare de l’amistade de i viaggi andati si todo fuera la vita vera del dire sfinita e todavia in questa curva via ancora scriventi ancora cercando una sola una palabra mia”. E in cerca di una parola sua, che sia solo sua, Alessandro Ghignoli si rituffa e con atletica capriola ci serve conditissima minestra. La prepara infiorettando con preludi e saluti, con inchini e sguardi ammirati ad altri libri, ad altri suoni, a inizi impertinenti e a finali rivoltati. E, dimentico del travestimento iniziale, effettivamente si mette in cammino in questo libresco mondo, fatto a sua immagine e somiglianza. Inventa parole che stanno a metà, restando in bilico, fra lingua straniera e lingua madre, fra lingua latina e italiano antico: “le magnificienzie tutte de etade passate e.lle moite antiche scritture similmente volgarizzate in iovine parola in aitra parte in aitra lingua in aitra mormorazione se detenne nella novitate dello canto”. E’ la lingua che unifica il mondo. E, dunque, basta da solo il gioco sulla lingua, dove le parole sono scelte anche per il loro uso comune, quasi consunto dall’uso: “segni si moltiplicano nei gesti alla ricerca tra soggetti e testi in fuga in avanti in infiniti fini vuoti sfumature tra notte giorno cede il sipario le dure vernici la luce morbida sulle figure”. Più che il senso potè il suono nel ricreare il mondo: “interno alla frontiera della memoria il pensiero non è se non parola andante della negazione in equi silenzi dell’idioma l’equilibrio in esilio nell’istante del suono”. Ed è mondo di apparenze, di fantasmagorico movimento. Sarà dai detriti del senso che si potrà ricostruire un nuovo significato. E sarà inevitabile passare per una camera sonora. Quella di “Fabulosi parlari”.

 

Testi poetici

 

*

in questo istante continuo la crisi del pensiero il dato linguistico
i segni della memoria i caratteri del tempo nell’inventario degli
scarti somma e vicinanza al piacere di un’entrata una porta una
parola d’accesso

 

**

(ad Antoni Tàpies)
nei diagrammi del visibile la densità intorno una archi:tectura
di frammenti di pittura su corde su libri sul nero attimo dell’atto
lettere e croci impronte d’olio piegate cavità unica progressiva
fase il margine in folio

 

***

(a Luigi Nono)
suoni vapori di note irradiano mescolanze di grida corde strofe
lancinanti sorde infastidiscono i rumori per farsi silenzi voci in
nastri riavvolti in combinazioni di numeri in timbri di volti il
materiale sonoro s’immette sospeso in tensione lo spazio
inudibile

 

****

(a Emilio Vedova)
tratti scontri gesti come viaggiante in azione i dischi riflessi in
luci i colori neri poi bianchi poi fischi di velluto organizzano
spazi tele lacerazioni miste materiche aperture in espansione
grovigli di segni macchie

 

*****

(a John Cage)
piano forte piano preparato teatro di voci litanie lettere toni
graffiati lasciano segni chiusi in combinazioni di respiri in filtri
del pensiero s’intromette s’estrema per poi fluire nel tempo a
gravare sul nervo

 

Alessandro Ghignoli (1967) ha curato e tradotto una decina di volumi di poeti spagnoli e portoghesi, fra cui: Luìs Garcia Montero, Tempo di camere separate (Le Lettere, 2000), José Hierro, Poesie scelte (Raffaelli, 2004) e l’antologia La notte dell’assedio. Quattro poeti spagnoli contemporanei (Orizzonti Meridionali, 2005). Collabora a numerose riviste italiane e straniere e codirige per le Edizioni Orizzonti Meridionali la collana “Quaderni di poesia europea”. E’ redattore della rivista di letteratura e conoscenza “L’area di Broca”. Ha pubblicato la raccolta di versi La prossima impronta (Gazebo, 1999) e il libro di prosa Silenzio rosso (Via del Vento, 2003). Vive a Madrid.

Tino Di Cicco: Il tempo pieno e il nulla, Moretti&Vitali 2006

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Nota critica di Rosa Pierno

 

Una sorta di rassegna dell’esistenza, di ciò che si sente, di ciò che ci coinvolge, di ciò che ha valore: “questo passaggio di vita ha sollevato/solamente polvere, vento/ per l’apparenza”, a cui subito segue a ruota un fendente giudizio: “gl’infatuati delle pietre luccicanti/ parlavano di valori”. Proiettato, dunque, in un universo morale, ora, il lettore, già reclama di conoscere il sistema etico che sostanzia il libro di Tino Di Cicco. Eppure, una sorpresa, una sospensione impedisce di credere a una così logica sequenziale conclusione: “molti si arrendevano alle favole/ l’ostinata notte dell’astro/guidava il tuo mutismo”. Si dispone, allora, il lettore, all’attesa, segue i passi meditati del poeta, ed è oramai disposto a seguirlo in un percorso non sistemico, in una ricerca che procede per eliminazioni, scarti, diradamenti, rarefazioni e che soprattutto evita illusioni “distruggeva un rifugio/ dopo l’altro” pur senza rinunciare a farsi altro, albero con foglie serene o uomo che non dimentica, alla ricerca della verità che è oltre le cose. La ricerca non tralascia nulla, nessun segno né indizio e non tralascia di “tagliare la gola alle parole”, viste, evidentemente nella loro qualità assertoria e definitrice. Persino la follia o il sogno sono utilizzati quali mezzi per condurre l’incerta l’indagine, incerta non per mancanza di determinazione, ma per la sostanza stessa dell’oggetto cercato. Non sarà la volontà né il linguaggio né un qualsiasi ordinamento a far raggiungere la verità: “vorresti rispondere – azzurro! - /alla tua notte/ ma non puoi”. Non sarà nemmeno ciò che appartiene all’ordine estetico: “la bellezza spalanca voragini/ma non sempre portano al cielo”.

A questo punto del testo, al lettore appare una botola, un percorso non previsto: ” la gioia del cielo ignora ogni volere”.

Esiste un’innominabilità di Dio e della sua sostanza. Una non pensabilità di Dio da parte dell’uomo. E tale innominabilità può anche essere liberazione dell’uomo da se stesso: “dove finalmente io/ sarò libero anche dal nome/ che fu mio”. Intanto il libro si è formato sotto gli occhi di colui che legge, quasi involontariamente. Lingua è comunque strumento per testimoniare. Pur anche con parole rarefatte e scarne, capaci, dunque, di emanare bagliori e di riempire il vuoto fra le righe sul foglio. Si dovrà porre tutta l’attenzione possibile affinché la ricerca vada a buon fine, affinché non sia ancora una volta l’umano a proiettarsi contro il cielo: “come se lo starnutìo dell’uomo/ fosse già tempesta per il cielo”. Ascesi è spoliamento di pensieri e di parole e di desideri. E’ rinuncia. Bisogna saper resistere alla “chiarezza dell’inutile” e essere “docili ai richiami/ solo dell’incomprensibile”. Poesia dunque potrebbe essere strumento troppo affascinante, lussuoso, se non dirottato alla ricerca dell’ineffabile. Difficile, impossibile misura “eppure la bellezza qui/ è memoria profonda/ anche se non sappiamo di cosa”. Prima che Dio sia raggiunto, resta poesia.

 

Testi poetici

 

*

gl’infatuati delle pietre luccicanti
parlavano di valori

molti si arrendevano alle favole

l’ostinata notte dell’astro
guidava il tuo mutismo

 

**

mancavano gli anticorpi del sogno

dai frantumati contenitori del vero
sbucò una bandierina senza appello

sparsamente la seguiva
il borbottio dei matti ed altri
innamorati del cielo

 

***

qualcosa mi diventa libro
involontariamente

come un regalo, un peso
da trascinare fino alla parola.

se tu cerchi la luce
la luce avrai

sta scritto

 

Tino Di Cicco vive a Pescara. Ha pubblicato: In principio era il caos (Rebellato, 1977), La crisi veniale (Bastogi, 1983), Un altro tempo (Vecchio faggio, 1988), Weender Strasse (Tracce, 1994), I castelli del tempo (Tracce, 1998).

Raccolta inedita: poesie dei finalisti e della vincitrice, commenti di Giorgio Bonacini, Flavio Ermini, Ranieri Teti

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L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, alla precedente e alla successiva. 

Stefania Roncari: Movimento in quiete

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Nota critica di Giorgio Bonacini

 

Che la poesia si nutra, oltre che di vita materiale, anche di pensiero e sapienza è un dato quasi ovvio, ma così ovvio non è che questa sia una vera e propria necessità del suo essere poesia: come sostanza di scrittura e di conoscenza. A quale tipo di sapienza poi attinga nel suo farsi, dipende dal poeta e dai suoi paradigmi culturali.

Nel caso di Stefania Roncari la sapienza che informa e conforma il suo pensiero poetico è di tipo esoterico, più precisamente alchemico. Ma ciò non significa che i versi si nutrano di inattualità prescientifiche, piuttosto è nel tono evocativo che si manifesta l’oscurità e “la materia si fa densa”.

Già il titolo della raccolta “Movimento in quiete” è un evidente ossimoro che rimanda all’ambiguità del discorso poetico, che, nel caso specifico, si traduce in un andamento di lenta turbolenza, di oscillazione tra il buio e la luce. E infatti in quasi tutte le poesie troviamo termini quali:

luce, buio, bianco, nero, ombra, fuoco, in un’apparente assenza di un soggetto portante principale fra luce e buio.

Significativi a tal proposito i versi: “la luce vuole essere/intensamente rarefatta/chiara oscurata”. Ma leggendo più in profondità si ha l’im- pressione che la sapienza raccolta nel testo riguardi metaforicamente la poesia stessa, quando “la parola intatta/attraversa il silenzio/ acque sorgenti/nella voce tutte le lingue/desiderate immaginate/cadute instancabili/ nella notte innominata”. E questo con una lingua che è un vortice, senza furia, di pause e di aperture in cui non si riconosce la direzione di elevazione o di caduta, ma si sa che “capovolta la luce sparisce/.../è curva gioiosa/che non finisce/.../” e, proprio come la poesia e la vita nel suo scriversi in poesia, alla fine è una voce “/.../gonfia/di tutto l’indicibile”.

 

Testi poetici

 

*

non c’è luce nell’attimo oscuro
nella terra il seme
alchimia del nero
si alza esplode
nel calore del principio
non c’è bellezza senza caduta
s’inabissa s’oscura
è vertigine di nascita
è salto che rischia
vuoto desiderato
nel silenzio accade tutto
come il bianco è memoria

 

**

luce che raccoglie
polvere d’ombra
abbaglio di densità
s’inonda sparisce
nasce senza traccia
se solo avesse corpo
sceglierebbe il fragore
dell’istante senza dimora
pulsanti attimi sulle cose
il pensiero si fa anima
la parola fuoco
sul bordo estremo
l’abisso si fa curvo
incerto sigillo

 

Stefania Roncari (1963) vive a Milano . E’ diplomata in lingue straniere e in arte drammatica presso la scuola Paolo Grassi di Milano. Ha partecipato a diversi concorsi letterari con esiti positivi, e pubblicato in alcune riviste letterarie. Ha vinto il Premio S. Cipriano al Naviglio con la poesia ‘Excelsium’. Ha partecipato alla Biennale Anterem di Poesia nel 2006 e 2007.

Cecilia Rofena: Agogiche

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Nota critica di Giorgio Bonacini

 

L’arte della musica è una componente fondamentale di ogni forma di poesia: nel senso che anche la poesia è ritmo e suono, e tutto quanto da essi si sviluppi nella composizione ed esecuzione del testo, anche come sola voce mentale. La raccolta di Cecilia Rofena è, in tal senso, di una coerenza assoluta: sia in superficie (la titolazione, generale e specifica, si richiama ad aspetti musicali tecnici ed espressivi), sia nella sua struttura profonda, dove la gestualità sonora interagisce alle fondamenta dei significati che il verso genera.

Tutti i testi sono intessuti da un linguaggio ricchissimo di rime, allitterazioni, consonanze e dissonanze che ne fanno una vera e propria partitura. Tanti sarebbero gli esempi, ma questa poesia, intitolata In atto (ellittica) che cito per intero, nella sua brevità è esemplare: Attratto/ traguardo/il limite/astratto/azzardo/cui riesco,/pensiero/come/dardo. Ed è anche, e forse più, significativa per andare oltre la musica verso un pensiero poetico di esuberanza emotiva, mai ingenua, dove si coglie il senso del lavoro che l’autrice scava in sé: “Mi volto e cerco il volto/che sorprende e comprende/che il caso sospende/.../” Una versificazione, dunque, dove tutto concorre a fondere un’idea di poesia in un’idea di vita: “contro la solitudine/si spinge il verso/.../contro la sete/versa il verso/.../contro la morte/diverso verso/.../contro e accanto/.../sostare nel canto.”

Ecco la caratteristica portante di questa raccolta poetica: attraversare con la parola la sua stessa superficie sonora, dandole un rilievo che la porta a far emergere dal presente umano i temi di un soggetto profondamente addensato nella creazione in versi: “essere in versi/lentamente essere/limpidamente vivere.” Una dichiarazione, come si vede, di limpidezza assoluta e di forte naturalezza.

 

Testi poetici

 

Allemanda

Ogni errore conserva il sapore
amaro il danno, forte il rumore
delle parole avare, copre il suono
di verità afferrate, scoprendo
il passo di realtà poco mature
per scolpire un destino,
forse d’avvenire già sature.

Satire amare della corsa a vivere
furiosa aria alla finestra
si affaccia uno sguardo:
strada maestra, nuova via
dove non perdere, dove vedere
le sere promettere fedeli, e via
ritornare precoci e sapute

infinite nascite e morti,
infine morti e rinascite.

 

Mentalmente o par coeur

Avere a mente volti
veri scopi, corpi esatti
ansie leggere d’istanti
predetti i moti e voci
di un ritmo di attimo
in attimo più prossimo
a perfezioni
del minimo battito
tenere a mente
teneramente.

 

Cecilia Rofena (La Spezia, 1973) si è laureata in filosofia con Remo Bodei e Aldo Giorgio Gargani presso l’università di Pisa. E’ autrice di contributi su riviste filosofiche. Sue poesie sono comprese in antologie, tra cui Altramarea, poesia come cosa viva (Campanotto, 2006).

Edgardo Donelli: Cantata profana

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Nota critica di Flavio Ermini


In Cantata profana, l’intenzione di Edgardo Donelli è quella di raggiungere il senso degli accadimenti seguendo strade minori e impervie. L’articolazione della frase si fonda su elementi verbali che possono sembrare secondari – in quanto appartenenti alle voci del limite e del confine –, mentre sono precisi attestati di riconoscibilità: «scabra muda», «sterpi e marruche», «corona di gabelle», «fratta», «balcone di botro e sfagno», «vanni»…

Donelli sa scegliere quel punto di osservazione da cui sia possibile posare per un momento lo sguardo sull’essenza delle cose. Un gesto, un atteggiamento, un’ostentazione – forme di un vasto rituale – vengono catturati da Donelli e trasformati in pagine poetiche limpidissime, dense di minuziosità, penetranti come un bulino. Sono pagine ampie, il cui campo semantico non include mai elementi esornativi che possano far deviare la nostra attenzione.

Voci dotte, antiche, poetiche, rare o semplicemente desuete: Donelli bada a conservare nella sua opera la massima concentrazione descrittiva attraverso la massima ricercatezza lessicale. Richiede che il nostro occhio sia divorato dal primo piano. Avviene infatti un fenomeno di appropriazione che assomiglia a una totale immersione da parte del lettore nella pagina poetica.

Ogni pagina è polarizzata da dettagli verbali che secondo il poeta possiedono specifici elementi esplicativi e definitori, ovvero è «consapevole di un fine». Questo minimo appiglio serve a generare la scintilla del senso. Ed è rivelazione, spiraglio di molti suggerimenti, luogo per una verità che preferisce sporgersi sul «disperso verziere» del quotidiano piuttosto che affacciarsi ai grandi balconi dell’essere.

È palese in queste pagine la vocazione a una ricerca di tipo proustiano. Nella quale la passione e l’idolatria per quegli indizi che escono dalle pieghe di una comune parvenza, dal «minuto raggio … mattutino» e dal riecheggiare di una vicenda «al primo annuncio del vento», inducono a pensare che i veri portatori dell’identificazione siano il collaterale, l’adombrato, l’inevidente.

Donelli ci fa comprendere efficacemente che solo i dati fuggevoli, liminari sanno avvicinarci alla scoperta di acute risposte a molte delle domande che andiamo formulando nel maturare della nostra esperienza.

 

Testi poetici

 

I.

Nel giorno che primi i colori
senza veli sboccino al blu notte,
dalle imposte quel poco socchiuse
voce di altro sentire al mare
di case reciti comando
cui non trasgredire, un la
unisono d’avemaria, ironica
orchestra punteggi il dialogo
a due lungo i banchi d’uso
in avvento; un cielo
senza gioia a minuscole biche
riparo, le devozioni lascito
gentile: il libro da messa

qualche santino, le monete
di quei viaggi, cingolo di un credo
innato al soffrire. Da finestre
letti mai vuoti per turni di pietà
grigio tepore remoto l’oggi,
altri di casa ala dolente
rintocco la nera ombra
sollievo la pur breve visita.

Guai alla stagione sola,
i giorni alterni il soffio
modifichi il presente
la rotta il sole a picco,
lettere a caso la creatura
cosmica bizzarria, a volte
pericope di non facile
traduzione; non tema
la notte di libeccio lo spirare
dimentico il patto
cedimento il respiro, da poco
mantello la tenebra
accenni la storia curiosa

l’ospite. Un credito di sterpi
e ceppaie, nota passione
lungo l’argine incolto
sveli un possesso geloso
vuoto dominio al vento.

 

Edgardo Donelli (1937) vive a Milano. Ha pubblicato: Dictamen (Scheiwiller, 1970), Athema (Scheiwiller, 1979), Fogli di Stanze e Bagatelle (Anterem, 2003).

Giorgio Bona: Signora dell’intimità

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Nota critica di Giorgio Bonacini
Biobibliografia di Giorgio Bonacini

 

“La tempesta che porta il cielo ha coperto sapessi il mondo di linguaggi senza poesia”. Può iniziare da queste parole un’analisi, pur sintetica, delle pagine di Giorgio Bona, da questa consapevolezza: il mondo e la sua lingua muoiono perché  in essi vi parlano linguaggi dove la poesia è esclusa. Ciò nonostante  quello che leggiamo in questi testi non è solo un’invettiva contro le cose che miseramente sono, ma, nella distensione lirica della pagina, vi è un nitido atto d’amore per un mondo personale (ma non individualistico) vissuto e trasfigurato in poesia.

Venti capitoli senza punteggiatura e senza versi, un flusso interiore di vastità tale da pensarlo incontenibile. Formalmente non si direbbero poesie, ma l’esteriorità inganna: la poesia è nella tensione profonda del discorso che Bona invoca con tantissimi oh di esclamazione, stranianti per il loro essere così desueti nel linguaggio poetico contemporaneo. E qui il paesaggio interiore si sviluppa e si concretizza, incessante, in biografia e in una figura d’amore, iperletteraria, ma nello stresso tempo viva e reale, di nome Felicita.

Ma in questo modo di scrittura è ben presente anche il lavoro del poeta: un “piacere del testo” nel suo farsi, dove si trova il “piacere di dover dire la lingua”  e dirla in tutte le sue diramazioni: pensanti/fisiche (“...il modo dei corpi di star compatti il mio ritmo la lingua nuda furba sveglia...”); biografiche/emotive (“Come batte il cuore se muove...il nome di un verso una lingua accesa turbamento d’anima...”); sociali/vissute (“...sopra la marea la vecchia onda della rivoluzione il quarto stato di Pelizza da Volpedo...”).

E in tutto questo sono grandi la capacità e lo sforzo che la mente del poeta deve fare per aprire dei varchi, a volte molto stretti, ma pur sempre aperture per dare un senso originario al reale in cui siamo immersi, e che alle volte ci devasta: “...fin dove arriva il respiro c’è un verbo che significa remare a ritroso c’è nella prigione un’eco che ripete i richiami dei passanti ovunque...”

 

Testo poetico

 

Sette

Ciao a te che hai trovato la mia isola gira al largo come un branco di tonni ti ho vista partire e mi mancava il cuore la sua corrente è il tuo spasmo non lasciare dentro la testa perchè uguale la questione del sapere ciò che sai mi fa star zitto qui sono vivo ma allora il filo rosso il labirinto che dire mia cara chi ha orecchio ascolti chi può leggere per te conoscere se chiudi tutto ciò davanti a te è aperto a proposito si può lo rivela l’amore il tuo bel cuore che si mostra e allora non sapere senza limite per guardare all’interno dobbiamo essere lucidi come dice la maga nessuno ha mai detto sì o no apri i tuoi bei sentimenti mostrami il tono con i mille desideri ponte che mette insieme i bei discorsi è diverso se il grande poeta russo fosse ancora vivo cosa direbbe stiamo attenti mica eravamo fuori dalla storia chi è comodo come un pensiero senza soggetto il dolore ha un principio qui lei dice che buono è da scrivere ah aperti alimenti del mondo passi che spingono dall’interno fino a sentire la tua bella voce il tuo bel viso incorniciato come una Madonna ah apis floraris dorsata un corpo nell’atto di dire arrivederci non risponde la lingua effetto della musica è là che lavora o parla o sta zitta fai modo che nessuno abbia ragione eh sì è aperta e qui a me no o me oh tapis troculant sei sempre uguale materia che passa in mezzo alla materia rimango qui a pezzi mandami per posta il tuo respiro quando apri i tuoi occhi un’invocazione uguale a te.

 

Giorgio Bona (1956) vive a Frascaro (Al). Suoi testi sono apparsi in numerose riviste e antologie. Ha pubblicato Newton (poesie, 1992), Omaggio il tempo (poesie, 2002), Ciao, Trotzkij (racconti, 2003), Erano voci (romanzo, 2006), La lingua dimenticata della cometa (romanzo, 2007).

Ermanno Guantini: La cospirazione

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Nota critica di Giorgio Bonacini


La difficile (se non impossibile) traduzione in parola di un’esperienza fisica, perché sempre manchevole nei suoi elementi concreti, offre al poeta la possibilità di una vera e propria prova: riuscire a imprimere (più che esprimere) la significatività del fare e dell’essere in forma di scrittura. E la forza poetica di Guantini è proprio la capacità di dare senso e forma a una estesa sensorialità; riuscire, cioè, a rendere leggibili le percezioni dei cinque sensi, mentre si svolge il cammino tra gli oggetti naturali: luce, erba,aria, bosco, monti, ecc., fino allo “smarrimento dell’orma”  che è configurabile, crediamo, nel percepirsi confusi e fusi completamente nel paesaggio.

C’è una tracimazione lessicale che ricrea i movimenti, gli sguardi, i respiri e le connessioni emotive e mentali che si svolgono nel teatro di una natura vera dove “decanta la delizia del mirto nella lucida esposizione della selva...”.

Ma questo muoversi reale, fisico, completamente immerso in una sensibilità d’attrito e nella ricca fatica di una totalità percettiva (il piede, l’inclinazione dell’occhio, il freddo, il bacio artico, l’olfatto, il palato, la palpebra), è una esperienza talmente avvolgente da portare l’in-terpretazione di ciò che si vive a sregolarsi; ma con lucidità, in una elencazione paradigmatica dove il soggetto pensante (il poeta/cammi-  natore-ascoltatore) quasi scompare. Anzi, si diffonde in ogni particella sintattica, fino allo “stermino del verbo”, che è “senso, argine nella consuetudine del verde...”.

Una poesia, dunque, dove l’immersione e la percettività sono, nel magma di una scrittura tesa, il ribollire di un percorso di dura, aspra, ma anche felice concretezz
a.

 

Testi poetici

 

I.

E che cade: e come, ora, come cieco risiede e incauto avvede, che rivela una minima scansione, il piede, la parentela, l’inclinazione dell’occhio, la percezione cede al di fuori dell’ascendenza; l’assenza nell’incarcerazione della stanza, il plagio della parte sotto la polvere esatta, l’ordine intona il freddo, il bacio artico, l’arte: la circostanza – la riesumazione della luce, la coscienza della perdita, scivola nel comune olfatto la contraffazione del lutto, la luce scende in gradi di cenere, la scena cade nell’acume del palato, la glottide apre, la palpebra imita, l’equilibrio del pudore, senza fermarne il profilo

assiduo, caduco male: colline metallifere, il velluto concede vaioli, screziature in diverse canizie, il precetto della creanza nella contrazione del paesaggio, fertile rinunzia: simulazione di luce, consuetudine in timide putredini, imita; tritone che arride all’escursione consueta, sei costellazioni nella convenzione del bianco, intona distonia sul battente sinistro: il germoglio e il pregio, il silenzio velato, l’apparenza il pregio, l’indugio, appunto, novella coscienza intona la consuetudine del verde, ne diano senso: il cielo, l’ecchimosi, voci di anime, rovi intendi, breve corame – senso, che diano le voci, ad una; l’esibizione madornale nel verde, il padre – la ramificazione, l’orientamento

 

Ermanno Guantini (1973) vive a Livorno. ha pubblicato: Variazioni (Cierre, 2003), Aperto a inverni (D’if, 2004). E’ presente nell’antologia “Nodo sottile” 4, (Crocetti, 2004).

Maurizio Solimine: Ouverture al rancore

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Nota critica di Ranieri Teti

 

In poesia può accadere una perfetta alchimia: che il senso di un’opera si rifletta pienamente nella sua forma. E’ quanto avviene in Ouverture al rancore di Maurizio Solimine.

Sin dal titolo l’autore coniuga due forze che convivono in contrasto: il momento poetico dell’ouverture, con i suoi rimandi musicali, e quello più strettamente psicologico del rancore. I rimandi musicali sono inizialmente evidenziati da una forma molto sonora. La tensione è resa da una scrittura che sembra metrica e  che continuamente spiazza il suo stesso ordinamento con i leggeri, quasi impercettibili, spostamenti sillabici di alcune rime, che immettono nel testo un effetto noise: “fresca” e “fosca”, “imbriglia” e “spoglia”, “confini” e “sublimi” per citarne alcuni.

Queste rime volutamente imperfette si succedono a rime invece esatte. A rendere ancora più forte la tensione intervengono continui cambi di ritmo. 

Alcuni versi non hanno contraltare rimato, rimangono sospesi sul vuoto. Soprattutto nella prima parte, dove la struttura metrica è più compatta, Solimine talvolta rimane esposto, e ci sospende, nei luoghi più impervi: succede “sul greto della strada”, che è “peste di passaggi”, succede “all’ombra della luce”.   

La struttura di questo poemetto è funzionale allo svolgersi del testo, che si dipana in un dolente viaggio attraverso un’Italia “superba e latente”: “Qui (...) / giunge debole l’eco, quasi pesto / e arcano, d’un remoto richiamo / la cui voce non è che stentoreo / silenzio”. In questo percorso si incontrano la poetica dei luoghi, con la loro antica bellezza, e il rimando a una possibile filosofia civile che già racchiude il senso di nostalgia per un’alternativa sfuggita: “rovine macilente / sono la mia ricchezza: dove men rado / il mondo non mi è che vivo riflesso / d’un’elegia perduta”.

Riuscirà la poesia a restituire il senso di un’elegia perduta nei luoghi di “questa terra di livore”, nelle aporie della storia e della politica?

Rifiutando l’happy end, la poesia non chiuderà il cerchio né sarà consolatoria: “Ho trasformato come un ossesso / questa lieve, piccola sfumatura / in una tela da buttare, in un’altra / patetica mia ouverture al rancore”.


 

Testi poetici

 

*

Accorata e spersa in questa fresca
giornata d’agosto, più imbelle
ai ruvidi lineamenti, alla fosca

luce che mutila il senso, il ribelle
clamore sopito nell’aria assente
della festa, della domenicale

allegria – la traccia della vita mente
dove più indietro il corso proietta.
E dalla vita svetta dolcemente

l’imberbe testimonianza infetta
che essa, all’ombra della sua luce,
muoia lentamente. Sospetta

d’eresia, o di sibilline, mordaci
impressioni, questa mia aria di famiglia
così mesta, cos’ vicina alle audaci

fenditure, all’ira fonda che imbriglia
la gola a un Munch, o più fonda
del terreo dorare dell’estate, spoglia

di orpelli e spezzati gore di gronda,
questa mia ouverture al rancore
sprofonda in sé, nell’immonda

mondità delle cose. Albicatura
di un’esistenza oltremodo violenta,
pure vedo in queste livide more

sparute le mie passioni lente
rovesciarsi sul greto della strada
peste di passaggi; rovine macilente

sono la mia ricchezza: dove men rado
il mondo non mi è che vivo riflesso
d’un’elegia perduta, come rado

lampeggiare che più chiaramente
s’oscura e oscurando muta.

 

Maurizio Solimine (1985) vive a Roma dove è laureando in Filosofia. Già menzionato al premio Lorenzo Montano, è inedito in volume.

Una poesia inedita: poesie dei finalisti e del vincitore, commenti di Marco Furia

Versione stampabilePDF versionL’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, alle due precedenti.

Jacopo Ricciardi: Non altro

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Nota critica di Marco Furia

 

Dice, in esordio, Jacopo Ricciardi “ho sentito il sangue cercare/ come fuoco/ la parola” e, in chiusura, "Calmo …/ il poeta”. Le due espressioni, contrastanti, che potrebbero costituire poetica testimonianza di un mutamento, forse di un’ evoluzione, a mio avviso semplicemente convivono: una richiama l’ altra e viceversa. Non siamo in presenza, qui, della storia di una contraddizione, bensì della presa d’ atto di come elementi opposti possano coesistere, soprattutto in un linguaggio rivolto verso l’ aperto, specchio di un io inteso non quale rigido classificatore, ma elastica membrana quasi coincidente, di volta in volta, con gli impulsi che la sollecitano. Furono, insomma, armonie di contrasti.

 

Non altro

Non altro
che vicino a lui fino a oggi,
ma quando, mentre muore,
per forza d’infinito
con la morte ha fine l’eternità,
ho sentito il sangue cercare
come fuoco
la parola.

Vedo senza tristezza bruciare
l’identità portata
da me senza fatica
con l’anima dura d’universo, qui,
in un fuoco ignoto che la separa.

La morte distrutta nel mondo,
si ferma,
e tutto di me si ferma,
per il tempo della vita,
prima di questo universo
e di questo testo
che lo compone
senza mondo,
e io migro in questa scrittura.

Calmo, nel vuoto dell’universo,
nel vuoto del sole,
il poeta lascia
la poesia
nello spazio di quella luce.

 

Jacopo Ricciardi (1976) vive a Roma. E’ ideatore e curatore, per gli aeroporti di Roma, del progetto culturale “Playon”. E’ direttore dell’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato un romanzo, Will (Campanotto, 1997), e sei libri di poesie: Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (Exit, 2002), Poesie della non morte (Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006). E’ presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

Adelio Fusè: Non diramo io da madre o padre

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Nota critica di Marco Furia

 

L’ “immedicata ombra” di Adelio Fusé “si spantana”, cioè si disimpaccia, si districa, ma anche, liberandosi, tende a dissolversi. L’ intreccio tiene assieme, implica coesione, emanciparsene significa affrontare profondi mutamenti, trasformazioni spesso non agevoli. Questo il senso dell’ articolata poesia le cui magmatiche sequenze, non prive di efficaci immagini, contribuiscono allo svolgersi di un linguaggio misterioso, affascinante nel suo richiamare un quid ineffabile e avvertibile nel contempo. Una “goccia” “è avventizia” quanto incredibilmente duratura, pare suggerire, per silenziosa allusione, il poeta: ogni cosa, insomma, può pure essere diversa da come è.

 

Non diramo io da madre o padre

non diramo io da madre o padre
ma da impari immaterica matrice
necessitata carnale purpurea
nel fastoso mercimonio - mattanza
il Tempo

è cornucopia e di teschio il seme
mani non lasche loro almeno
foggia e posa variate
barrano il vano
al numinoso terragno avvinte

in erosi miraggi lacerto tarlato
di concrezioni tritume
lubrichi residui infiocino

è avventizia la goccia?
a trasmodato burbanzoso allaccio
immedicata la mia ombra
si spantana

eternato amnio

 

Adelio Fusé (1958) vive a Milano dove lavora in editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno, il romanzo North rocks (Campanotto, 2001), due libri di poesia Il boomerang non torna (Book, 2003) e Orizzonti della clessidra distesa (Book, 2005), entrambi segnalati al “Montano”. Suoi testi sono apparsi sulle riviste “Alfabeta”, “Lengua”, “Tratti”, “Atelier”. Ha fatto parte della direzione di “Legenda” (Tranchida 1988-1995).

Marcello Angioni: Cintura di sicurezza

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Nota critica di Marco Furia

 

Se è vero che “la sottrazione non rende l’ idea”, potrebbe sembrare opportuno chiedersi se l’ addizione ne sia capace. Si tratterebbe di un quesito mal posto. Ambedue, invero, concorrono, nell’ àmbito linguistico, a produrre proficui effetti e la loro contemporanea presenza, se ben calibrata, conduce a esiti tutt’ altro che trascurabili: pare questo il caso della versificazione in parola, in cui suggestivi toni di quieta ansia provocano ricadute di immagini e parole tali da porre in essere quel dinamismo pacato costituente, direi, caratteristica precipua dei versi presentati. Se nulla, nell’ originale idioma di Marcello Angioni, viene sottratto, possono essere consentiti, come in effetti accade, accostamenti giustificati soltanto da esigenze espressive la cui intima coerenza, oltre ogni regola del linguaggio ordinario, risulta capace di conferire quel particolare senso proprio di ogni felice esercizio dell’ arte della parola. E’ necessaria o no, in poesia, la cintura di sicurezza?

 

Cintura di sicurezza

ecco la coltura del punto
trascrivo la versione attuale
marcando più che retro
comparazione negli antri bui
la sottrazione non rende l’idea
si vuole un moto orientato
verso ordinazione verso posa
qualche prima pietra
anche talun secondo
tutti gli arti si protendono
il disturbo passa come accidente
contrazione infortuita del
centro che è il coso del duolo
come per corsi obbligati
di un sentiero cuneiforme
allure di riposo provvisorio
solo per estroflessione
solo per questo
son fatto venire fin qui
con tutti e tanti carriaggi
affuocare nel frattempo
scegliere un ritmo daffermo
brandeggio di masserizie
nell’alito di quei cosi
gli animali
hanno occhi per la forma
algoritmi per la distanza
mentre cala iperconscia
la palpebra saracinesca
sul racconto del sole
per il muschio
come tante cose
pretese dalla geometria più pallida
non sono forti precostituiti
pretesti di taglio
di vettori
la manovra non è dramma
sofferenza miniaturizzata
ansia azzerata in principio
ecco la marcia assente dei pesi
scavano lo spazio per procura
rodimenti sugli argini dei miti
ritorno logicamente insostenibile
non andiamo in nessun luogo
basta apporre le mani alla roccia
senza acuire
già sempre all’erta
scenario di morte della sibilla
agitazione prestodetta
anche trascurabile la cancellazione
possiamo non volere anche questo
possiamo volere altro ancora
non si cade nè si ristagna
la riuscita è contenuta nell’osservanza
dissoluto silenzio

 

Marcello Angioni (1939) vive in Lussemburgo, dove è stato traduttore presso la Commissione europea. Sue poesie sono apparse su “Nuova corrente”, “Il Verri”, “Anterem” e altre riviste e antologie. Insieme con Franco Beltrametti ha curato, negli anni ’70, l’edizione della rivista “Abracadabra”. Ha pubblicato Preludiomeni (Geiger, 1975) e Analfabetica (Tam Tam, 1982).

Silvia Comoglio: In fa maggiore 1.I (Lullaby)

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Nota critica di Marco Furia

 

Il breve componimento proposto da Silvia Comoglio, ricco di evocativi richiami a mondi onirici, o pre-onirici, a fanciulleschi dormiveglia consumati al cospetto di premurose madri, presenta una dimensione linguistica in cui semplici parole e minime sequenze, separate da trattini, sembrano affiorare obbedendo a esigenze biologiche, più che logiche. Una scrittura enigmatica, per nulla dispersiva, racchiusa entro un guscio costruito ad hoc, l’ unico capace di contenerla. Furono (anche) precisi perimetri.

 

In fa maggiore 1.I (Lullaby)

òmbra a cui vènne – il sògno – ancora chiaro,
io – sono nìnna - che nasce dal mio bimbo,
fòlle nome solo – portàto – sempre ovunque
--> sono - imbròglio nato dove esatto
è il tèmpo di passaggio, il vènto - sèmpre solo stato
in càse – dello scambio, in nòtti – già decise.
sòno – il pàllido tuo corso, l’èlmo - abbandonato

 

Silvia Comoglio (1969) vive a Verrua Savoia (To). Laureata in Filosofia, ha pubblicato la raccolta Ervinca (Lietocolle, 2005). Attualmente divide la sua attività tra poesia, pittura, e e l’approfondimento dello studio della lingua russa.

Gabriele Pepe: Il tratto è dato

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Nota critica di Marco Furia

 

Mediante l’ uso di versi precisi e battenti, Gabriele Pepe mostra quanto una (sapiente) poesia, non ignara delle regole metriche, possa costituire efficace distacco da non soddisfacenti costumi linguistici quotidiani. La tendenza all’ aperto, d’ altronde, come già ebbi occasione di dire, può intendersi non soltanto con riferimento agli aspetti esteriori, poiché qualunque forma, in presenza di consapevole intento, risulta suscettibile di usi proficui. Non sussistono gerarchie tra i linguaggi, tanto meno tra quelli poetici, suggerisce, con elegante gesto, il poeta.

 

Il tratto è dato

Non muoio a sangue pisto ed ossa rotte
ma a cauti vezzi e vizi di rimpallo
che gaia incuria e vaga strategia
di lampi prodigiosi disadorno
luce inferno nell’occhio mi strabordo
fomento e supponenza di eresia
dei miei santi non valgo il piedistallo
ma drago di mulino e donchisciotte

sui campi di battaglia faccio il morto
ramengo oziando in quieta frenesia
lesto sonnecchio e bradipo sfarfallo
tra simboli fuggenti e lune estorte
tra ombre e luci al chiuso riprodotte
burba tempesta in bolla di cristallo
di vento e di bufera scheggio via
che scorpione mi scodo e capricorno

mi strappo delle corna e a muso inerme
tra le corazze e gli armamenti vago
carcassa appesa al morso della fiera
eunuco consumato a fiamma casta
dal dogma mi distacco per scissione
e sguardo al cielo e membra tra le ortiche

a fior di pelle sbocciano vesciche
all’occhio s’addolora la visione
pupilla allucinata che sovrasta
sovranità dell’iride frontiera:
prisma dell’essere coscienza-imago
che tutto scinde e carne mi prosterne

 

Gabriele Pepe (1957) vive a Roma. Presente in riviste e antologie, ha pubblicato Parking luna (Arpanet, 2002), Di corpi franti e scampoli d’amore (Lietocolle, 2004), L’ordine bisbetico del caos (Lietocolle, 2007).

Giacomo Rossi Precerutti: Salvezza

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Nota critica di Marco Furia
Biobibliografia di Marco Furia

 

In un suggestivo scenario poetico in cui le parole si susseguono fitte, collegate da nessi allusivi, si svolge, intensa, la scrittura di Giacomo Rossi Precerutti. Attento a similitudini implicite nella lingua, sapiente nell’uso del materiale idiomatico, il poeta accosta e connette elementi, anche non affini, con spiccata propensione a una particolare musicalità interna, quasi trattenuta, tale da conferire alla composizione inconfondibili caratteri. Sulla “soglia/ che può far pietra il pensiero” il Nostro deve aver senza dubbio sostato e, con estrema franchezza, meditato fino a trovare, in un non comune slancio evocativo, scampo a quel letale pericolo di annichilimento. Fu, davvero, specifico consapevole canto.

 

Salvezza

Guidami come nido che ascende vasto
verso i frantumi innocenti di memorie,
sulle falde che l’anno benevolo lascia
dentro il fondale alto del cuore, altre
urne si aprono su terre già disfatte
dal boato delle fiamme mentre il gesto
vago di una mano feroce elude nudo
la volta del viso quando adombra
il supplizio che si regala il pensiero
negli indugi stremati dalla presenza
di una bruna chioma che nell’assenza
senza remore si spande e d’oblio vive.

E’ vicino l’istante in cui solo ombra
sarà la mia orma ad aprire la porta
breve di speranze che furtive fuggono
dai covi immoti, persi di folle salvezza
la bocca e gli occhi sconvolti da un grido
che dona a chi del giorno è nemico
un passo caldo d’esilio che affiora
nell’abbaglio duro della gloria e ride
della scialba dolcezza di un cuore
affamato di spoglie prose che congeda
lo splendore oscuro del trono del tempo
e la paura baratta con una quieta sedia.

Solo nube che smuove l’assurdo sonno
di un labirinto chiuso nella mia roccia,
così hai risposto nell’immobilità amara
del tuo volto alla sponda arida
offerta dal nascere di versi fecondi.
Non ha la pietra scelto la mutezza,
non alla fiducia di una morte bagnata
d’insonnia s’arrende, ansiosa di gloria
solitaria rubata dal silenzio soltanto
al tuo passo violento e puro s’allarma,
non un’onda che esulta allo squillo
del rosso può ammirare l’alba dell’oro.

Nella luce attonita, sigillo indolente
di steli levàti a donare la tua ferita
al maestoso protrarsi del gesto radioso,
è l’incauto vederti mentre lambisci
il tuo riflesso che rinnova il brivido
inquieto, ogni stupore si adagia privo
d’ardore nella torre del sonno, puniscano
i silenzi in cui scompari nell’estrema
nudità della mente le mie vuote promesse
di dedizione affollata e nera alla soglia
che può far pietra il pensiero e trafiggere
il tuo spettro tra le tenebre calde.

 

Giacomo Rossi Precerutti (1988) vive a Torino. Nell’ottobre 2006 ha pubblicato la sua prima raccolta poetica, Fuoco d’assenza (Crocetti).