Manifesto Biennale Verona Poesia XIX edizione
A partire da questa 19ª edizione del Premio Lorenzo Montano abbiamo istituito un riconoscimento riservato agli allievi dei quattro licei che collaborano facendo parte della giuria per l’Opera edita. A questi ragazzi, oltre a leggere e votare il preferito tra i tre volumi vincitori, per determinare il “supervincitore”, chiediamo di produrre una “tesina”, individuale o di gruppo, sui libri letti. Le prime tre, prescelte da una giuria composta da Francois Bruzzo (Docente di Liceo), Agostino Contò (Bibliotecario), Massimo Donà (Filosofo), Stefano Guglielmin (Docente di Liceo), Giampaolo Marchi (Università di Verona), Emanuela Raffi (Università di Padova) e Lorenzo Reggiani (Giornalista) sono premiate con un buono acquisto libri.
3ª classificata
Sguardi nel nulla: la poesia ossimorica di Albino Crovetto
Di Evelyn Cristanin, Francesca Frattini, Guido Morina, Valeria Rossini, Silvia Sandri,
Alessia Veronese, coordinati dalla prof. Perini
Liceo Classico “Cotta” di Legnago - Vr
Occhi bucati, bruciati, bianchi, come “inutili fessure di vita”, scrutano nelle tenebre di un notturno infinito, smarriti nella gelida bufera di un’anima senza più voce né grido. La poesia di Albino Crovetto è una continua ricerca del ricordo perduto, in un tormento interiore a cui nulla sembra poter dare pace. Il poeta cerca il “grido di una foto” o le tracce di “volti in caduta libera” che appaiono come il flash di uno scatto fotografico, come il tentativo di fermare il caos interiore per carpire un’istantanea nella labile memoria, percossa incessantemente da un gelo di bufere e tempeste.
Il tema dello sguardo si intreccia finemente con quello della luce e dell’ombra. La luce esiste, infatti, solo nella notte di questi occhi che sembrano quasiosservare il lettore mentre si immerge nell’affascinante oscurità rappresentata dall’interiorità dell’autore. La “zona fredda”, titolo della raccolta, è allora proprio l’io del poeta, rischiarato a tratti da “dolorosi lampi”, poiché l’attimo di verità non è che “una sottile sanguinante linea” dove la realtà e la memoria portano sofferenza all’inconsapevole sonno dell’uomo.
Questa dialettica chiaroscurale è accentuata sinesteticamente anche dalla dimensione uditiva di grida e silenzi. La natura e la vita, consegnate al caso, non offrono risposte. L’individuo può disperarsi e implorare, ma le sue urla si affievoliscono fino a diventare un “diminuito grido” e poi tutto svanisce, diventa aria, e ciò che resta non è altro cheil silenzio del nulla.
E il nulla di Crovetto è freddo, “un nulla di fiamma nella mente in altra luce fredda”, una zona metafisica di inverni dove si snoda il cammino di un’esistenza sofferta e il gelo avvolgente rimane come incollato alla pelle di un uomo cui ormai non rimane più nemmeno il calore della memoria.
Il mondo è friabile sostanza, tutto è destinato a crollare, a frantumarsi, a spegnersi in un “mare prosciugato” dove affiorano “gocce appuntite” che accendono il dolore per poi svanire immediatamente. Restano “spenti crateri”, un “gelido rogo”, un “fuoco lento”: immagini ossimoriche di angoscia materica.
2ª classificata
Relazione dell’opera “Una zona fredda” di Albino Crovetto
Di Guglielmo Arrigoni, Manuel Calzolai, Matteo Marin, Andrea Ongaro, Giulia Semplicini, Enzo Tavoso, coordinati dalla prof. Cerpelloni
Liceo Scientifico “Fracastoro” di Verona
Dai difficili versi si percepisce una spinta alla vita, sentita come desiderio malato che pulsa nel presente.
Evidente è la forza traumatica di un dolore riscoperto che, come in un incubo, costringe a sentire ora come allora l’impeto opprimente di immagini taglienti.
Nell’opera, inoltre, è manifesta la difficoltà di conciliare la vita come flusso e la tensione di tradurla in atto, come in un frenetico assedio dove il soggetto non sembra trovare scampo e il dolore proviene da ogni luogo.
Il mondo viene concepito come insieme di sguardi che sembrano concentrarsi su un’esistenza che di esso è parte, mada cui è spaventata.
La forma è complessa, sono utilizzati simbolismi che lasciano spazio a molteplici interpretazioni senza mai rinunciare alla traumatica ossessione dalla quale non vi è fuga.
Inoltre l’angoscia non sembra sfuggire alle parole che la anticipano, invade i versi e colpisce il lettore prima ancora che la mente operi un’analisi. Il dolore, che la comprensione non sminuisce, risulta il topos dominante nella raccolta, un dolore assoluto, mai attenuabile e immodificabile.
1ª classificata
Dialogo sulla poesia tra realtà e sogno
Di Silvia Dellino e Alessandra Frison, coordinate dal prof. Bragaja
Liceo Classico “Maffei” di Verona
Silvia: Tra tutte le dimensioni della realtà ne esiste una di cui solo l’essere umano, in quanto tale, può considerarsi partecipe. Mi riferisco alla storia e all’uomo di Cefalonia di Luigi Ballerini, sintesi del processo storico, che si manifesta ai suoi occhi come il risultato di condizioni precedenti, rendendolo nel medesimo istante vittima e carnefice. È su di lui, infatti, che pesano le colpe di un terribile passato, forse non vissuto (Hans D), ma compenetrato in quella stessa natura che lo vede tuttora voce sofferente di fronte a ciò che è accaduto e che lo ha visto cadere (Ettore B).
Alessandra: Anche in Una zona fredda di Albino Crovetto vi è la presenza di un soggetto, del quale però non si ode la voce, perché è l’autore che a lui si rivolge di continuo utilizzando a volte una seconda persona singolare, altre volte una terza persona. Forse questa seconda figura, seconda rispetto alla voce del poeta, è in realtà generata dall’autore stesso che dialoga con il suo io, un io che in alcuni componimenti emerge come dal sonno e apostrofa se stesso, in altri immerso nel sonno vede agire sé come personaggio altro nell’esperienza onirica.
Silvia: Ma proprio questo, benchè su un altro piano, quello della coscienza storica, è lo scopo del “monologo a due voci” di Ballerini: ricomporre l’eterno dualismo dell’uomo moderno, grazie all’abilità dialetticadei suoi personaggi, che interpretano la realtà rivivendola in un flusso ritmico carico di emotività, senza per questo privarla di concretezza. La prosasticità di superficie del testo, ciò che si vede a occhio nudo, è composita e garantisce uno spessore stilistico plurale, in cui si fondono lessico tragico e quotidiano al fine di attualizzare la drammaticità degli eventi. Questo autore tende a fare dell’espressione poetica, tramite un linguaggio talora metaforico talora descrittivo, una forma di comunicazione efficace, incisiva, insieme calibrata e sperimentale.
Alessandra: Apparentemente la lingua di Una zona fredda è più spoglia, tende all’essenzialità. Ma spesso la singola parola è carica di significato, intrisa di musicalità e incisività. Talvolta la parola diventa immagine, un’unione di suono e visione che si condensa in un solo verso concluso, quasi monolitico. D’altra parte tutto il libro si aggira, come in una casa buia, in una dimensione interiore senza appigli esterni di ordine storico o cronachistico, presenti invece in Cefalonia. Non mi convince, in effetti, quella trovata della radiocronaca di Italia-Germania. Il rischio del voler mostrare la “banalità del male”è banalizzare la scrittura, ridurla verso uno stile giornalistico…
Silvia: L’espediente della radiocronaca calcistica viene qui utilizzato come occasione critica nei confronti della società odierna, perennemente volta a spettacolarizzare e falsificare anche l’avvenimento più tragico escludendone l’aspetto intimo. La banalizzazione non riguarda unicamente l’ambito linguistico, ma, in dipendenza da questo, quello dei significati, in cui dovrebbe venire espressa l’insensatezza della guerra. La morte eroica dei soldati italiani non è esaltata in quanto stoica risposta ad una ragion di stato o al richiamo patriottico, come sostengono i politici, ma come frutto di una pulsione tipicamente umana dettata da uno spassionato amore per la vita e da un istinto di sopravvivenza morale che si traduce tragicamente in scelta di morte. Essa quindi non rispetta una legge razionale, un diritto riconosciuto comunemente come valido, ma il sentimento di un atto estraneo alla concretezza del mondo e riconducibile ad una personale integrità. La vera vittoria, coperta da quell’urlo di tifosi accecati dalla violenza, che sembra accompagnare i goals, i tradimenti e gli abbandoni, viene espressa dall’aver preferito morire, capovolgendo una realtà informe e precipitandola nella forma del fatto storico e delle voci che ne ricercano i significati.
Alessandra: in modo molto più diretto, uno dei temi ricorrenti nella poesia di Crovetto è il dolore fisico inteso come disgregazione del corpo ed esposizione delle parti più friabili e vulnerabili di esso alle intemperie. Il dolore è un modo per avvicinarsi alla morte ma, allo stesso tempo, per sfiorare la vera essenza della vita, una vita intima fatta di soffi e rapide visioni oniriche. La vita si slega, quindi, dalla realtà, perdendo il contatto con quest’ultima ed affidandosi ai sogni, da ricordare e da dilatare nuovamente nell’esperienza interiore. Il sogno è un altro dei temi portanti di Una zona fredda. Al suo interno navigano tutti i componimenti, che sembrano essere molto spesso dei resoconti di notturne visioni legate tra loro da sottili legami di significato, e tutte vicine ad un punto di spegnimento. Forse un libro che condensa in sé la presenza della realtà come contraddizione continua e interiorizzata, e l’aggirarsi in uno spazio mentale onirico e surreale, è Nature improprie di Franco Falasca. Qui c’è anzi, pare, l’intenzione di superare l’idea stessa di realtà e di soggettività grazie ad un progetto di scrittura che fa del caso la propria regola ma sotto il caso nasconde una o più linee di significati. Purtroppo il tentativo di raggiungerle e di capire, attraverso paradossi e incongruenze viene continuamente frustrato. Credo di preferire il sogno, sia pure di una zona fredda.
Da alcuni anni il compositore e pianista Francesco Bellomi, partendo dalla lettura dei testi dei sei autori premiati dal “Montano”, compone sei brani musicali ispirati dalle opere stesse. Le musiche vengono eseguite per la prima volta durante la cerimonia di premiazione.
I sei file musicali allegati in questo numero di “Carte nel Vento” offrono solo un’idea di massima del lavoro svolto dal compositore. La qualità sonora è evidentemente inferiore a quella dell’esecuzione dal vivo, con pianoforte.
20 righe su musica/poesia.
Quando un musicista scrive musica a partire da testi poetici c’è un criterio che deve assolutamente tenere presente: che non esiste nessun criterio prestabilito da seguire. Di solito funziona così, si legge il testo, e ci si mette in ascolto. Quasi sempre i suoni arrivano da soli. A volte arrivano subito, a volte cominciano a coagulare dopo un po’ di tempo.
Se proprio si lavora di fretta, come capita sempre a me, mentre leggo, lavoro di matita e sulle pagine metto degli strani segni il cui significato non mi è del tutto chiaro: cerchio certe parole, metto delle frecce, traccio delle linee che collegano alcune parole ad altre, sottolineo delle righe, metto tra parentesi delle parole o frammenti di parole, ecc.
Alla fine non saprei dire qual è la logica, ma sono sicuro che ce n’è qualcuna. Poi prendo il quaderno di musica e comincio a scrivere. Non guardo più le poesie, comincio dalla prima nota e vado avanti, senza ripensamenti, direttamente in bella, come hanno fatto sempre i musicisti prima dell’invenzione della gomma.
Non ho un piano di lavoro, faccio seguire a ogni nota quella che mi viene in mente per prima e vado avanti così fino a quando non mi viene più in mente niente. Allora il pezzo è finito. In realtà i pezzi sono già scritti dentro di me e non devo far altro che trovare la prima nota per riuscire a tirare fuori, suono dopo suono, il resto.
Se lavoro così tutto funziona e solo alla fine mi rendo conto che non sono passati dieci minuti ma ore. Se invece lavoro di tecnica, di mestiere, il risultato sembra lo stesso, ma il tempo non passa mai, la musica suona male e, alla fine, butto via tutto.
Sezione “Una poesia inedita”
Patrocinio: Circoscrizione “Centro storico” di Verona
Testo premiato
“Dagli antichi flutti”
di Marcello Gombos
Commento a “Dagli Antichi Flutti”, dell’Autore
Sono spesso fattori biografici minimi, eventi insignificanti, a fornire l’occasione che ci spinge alla scrittura poetica. Nel caso di “Dagli Antichi Flutti” è stata, ad esempio, per quanto posso ricordare, la sensazione di “sradicamento” percepita in un periodo di frequenti spostamenti dovuti al lavoro universitario.
Ma non sono questi eventi minimi, di per se stessi, a costituire la sostanza della poesia, quanto (anche) le sue risonanze.
La pratica poetica (e forse la letteratura in genere), ha aspetti negromantici, vive della convinzione cabalistica che la parola possa ricreare l’oggetto, che il “nome” scritto nel cartiglio possa animare il Golem. Perciò nelle poesie, nei nostri “sortilegi” tendiamo a ricreare le nostre ossessioni, a rianimare i nostri fantasmi, e ad evocarli per gli altri e negli altri.
Le ossessioni, le risonanze, che ho introdotto in “Dagli Antichi Flutti” le avrete già identificate: Atlantide, Bisanzio, sono simboli, nel mito e nella storia, di morte e rigenerazione, morte che porta alla disseminazione di cultura in terre lontane, di “diaspora” (altra parola dalle risonanze infinite…).
Simboli di mortte e rinascita, come la Fenice, simboli di sradicamento: ed è questa la nostra condizione di uomini, di esseri mortali, senza radici, ma “pronti a dar frutto in una terra sconosciuta”, che ci impone di rinascere da ogni Diluvio, dal “Day After” di ogni Bomba, di attraversare gli elementi in tempesta, di affrontare la rivelazione della nostra finitezza e di oltrepassare i nostri stessi confini, per ricominciare al di là, oltre, o qualunque significato si voglia dare all’ “altrove”, “da una nuova Genesi”.
Dagli Antichi Flutti
(Canto Dell'Onda)
Viviamo sempre sul bordo di Atlantide
in attesa dell' ultimo flutto
che sommerga finalmente le nostre creazioni
le case, le navi nel porto e i templi dorati che ci imprigionano
che ci cancelli infine espandendosi nei nostri polmoni
e schiacciandoci sul fondo dell' oceano
O che invece ci scaraventi su di un atollo sconosciuto
feriti e nudi tra i frammenti della nostra canoa
stremati
ma liberi e pronti a ricominciare da zero
Viviamo sempre sulle mura di Bisanzio
in attesa dell'ultima invasione
che sommerga in un mare di fuoco e di acciaio
le persone e i luoghi a cui il nostro cuore è incatenato
che ci cancelli infine esplodendo nelle nostre viscere
gettandoci massacrati in una fossa comune
O che ci spinga alla fuga lontani dalle cupole dorate di Santa Sofia
frammenti di un'antica erudizione come semi dispersi dal vento
feriti, disperati, derelitti
ma pronti a dar frutti in una terra sconosciuta
Viviamo sempre come la Fenice
alla ricerca disperata di un posto dove morire
dove bruciare infine e fecondare con le nostre ceneri
una nuova terra meno sterile dove rinascere di nuovo
pronti per ricominciare
Viviamo sempre in attesa del Diluvio
della Bomba, dell'Apocalissi, della catarsi finale
di attraversare fuoco, acqua, terra, aria, acciaio e veleno
e purificati infine e nudi in una terra vergine
ripartire altrove da una nuova Genesi
Sezione “Raccolta Inedita”
Patrocinio: Biblioteca Civica di Verona
Opera vincitrice
“In re ipsa”
di Giulio Marzaioli
Anterem Edizioni, 2005
*
Traccia l’intonaco
come vetro, come
una mano che dietro
scrive. La trama del
disastro è un ricamo
che infrange. Piano.
*
Quantomeno somigli il crollo
perché sia familiare la rovina.
La mappatura nel distacco,
un tratto ad ogni spaccatura.
Che insomma cos’era prima
resti: rotto, ritratto, replica.
*
Intanto la voce
si piega, curva
nel silenzio, tace.
Non sbatte, non
rimbalza, non va
per linee rette
il suono. Il moto,
resistendo, stona.
*
(notizia – la ferita dall’esterno:
il tempo si ricuce nella carne)
*
(notizia – la ferita dall’interno:
nascosto nella lama il taglio resta)
Sezione “Opera Edita”
Patrocinio: Provincia di Verona
Testi tratti dai tre volumi vincitori
Luigi Ballerini
Cefalonia, Mondadori 2005
Dalla “Notizia dell’Autore”:
“Cefalonia è un poemetto dialogato, in realtà un momologo a due voci, in cui la funzione contestuale è affidata al racconto, per brevi e saltuari cenni, dello sterminio dei soldati italiani della Divisione Acqui compiuto dai tedeschi nei giorni successivi all’armistizio divulgato l’8 settembre 1943.
Parlano Ettore B, soldato italiano caduto in combattimento (ma forse fucilato), e Hans D, uomo d’affari tedesco nato con la camicia, ovvero capace di cadere in piedi, sia prima, sia durante, e sia, soprattutto dopo i combattimenti.” (…)
Ettore B
le tinga dunque un altro le camicie aborrite dal regime, le rifaccia drip
and dry, le affidi a un mercato eccitato, splendidamente rinnovato,
assiepato, più dinoccolato di Gary Cooper, più allampanato di Buster
Keaton, vittima d’insidia, non di eroico furore. Ma io vago insepolto,
elargito a sroposito, e mi è chiara la violenza di un pensiero in linea
retta, che si posa sui clivi e sui colli, con arpe d’oro, e riposa su torri
atterrate, un pensiero che non sa dirsi: “torna indietro”, come carta
giocata incautamente, come parola accolta ma non da noi generata (…)
Hans D
fortunato al gioco, in amore, coi libri che ho letto e non ho letto,
non sto qui a sifolare l’Aida giorno e notte. Il problema è che una
Deutschland uber alles sorride, implacata e vile, nel volto idiota
del presidente texano , con abito medio, macchina e moglie medie.
Nessuno è più libero di non strafare, nessuno che abbia diritto
di sapere come andrebbe a finire se amore fosse amare per forza
chi ci ama o ci guarda da sotto in su per ricordarci chi è che comanda.
Non è peccato, no, per carità, non è peccato, ma giocare per vincere,
sapendo di avere già perduto, questo, mi dispiace, non era nei patti
Albino Crovetto
Una zona fredda, Niebo-La Vita Felice 2004
Dalla “Presentazione di Milo De Angelis”:
La poesia di Albino Crovetto, aguzza e scheggiata, parla di una dimora che viene meno, di un uomo che non abita più dove respira, di un esilio nel cuore del luogo amato. Poesia che un furioso assedio disincarna fino alla linea. Poesia attraversata da fenditure, solchi, materia screpolata. Figure di buio, freddo, sparizione, ferite senza sangue. (…)
Da Scaglie
quietamente gli occhi
bucati dalla veglia
aprono fiumi
macerie in movimento
per difendere memorie
ora un furioso assedio
*
ma passano il fiume
con clamore e lutto
spenti
dentro il mese più caldo
crollano
dentro un quadrato vuoto
dentro un gelido rogo
Da Una zona fredda
Sono due luci lontane
esistono solo nella notte
dei suoi occhi
negli atomi perfetti
segnati con violenza
ogni volta che crollano
di colpo nella neve
se gridano
se diventano linee
o due fessure di vita.
Franco Falasca
Nature improprie, D’Ambrosio 2004
Dalla “Postfazione di Francesco Muzzioli”:
(…) Una poesia della complessità, dunque, che punta sulla mescolanza, l’incrocio, il montaggio, componendosi in una sorta di geroglifico verbale. Il punto di partenza di Falasca può essere trovato nel modo che la sensazione assume nell’epoca della modernità avanzata, in presenza di una focalizzazione percettiva che dilata i particolari e inventaria il loro evento rispettando l’occorrenza caotica della vita. (…)
Appunti descrittivi
Ruote
Schiacciate sopra i sassi del viale
E tra gli sterpi zingari
Dai volti scuri coperti d’ombre
E di riflessi
-le tende
a formare un vano triangolare-
…
l’asfalto
d’estate caldo e dall’odore di bitume
l’asfalto viscido scuro e bituminoso
…
tra gli steli spinosi e le foglie verde-chiaro
e larghe delle leguminose
…
ed intorno sulle rocce, qualche portone
con il vestito bianco
…
le tende grigie e bagnate dei venditori
…
dal contorno ovale
con i capelli scomposti sollevati
in due ciocche
…
gli edifici giallastri
sui prati dalle superfici ineguali
…
sotto l’insegna di lamiera arrugginita
i cerchioni adagiati in buche del terreno
…
il volto ombreggiato
le mani sotto il mento
i capelli sulla fronte
la guancia inclinata da un lato
…
TIZIANO SALARI
Per Giulio Marzaioli
1
Proprio un copista di uno scriptorium veronese,probabilmente intorno all’anno 800 dopo Cristo, trascrisse, su un foglio di un codice di preghiere latine,un indovinello di due versi (esametri ritmici) che nelle storie letterarie viene indicato come uno dei primi documenti in lingua volgare:
Se pareba boves, alba pratalia araba
Et albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
È il famoso Indovinello veronese che allude all’operazione di scrittura attraverso un paragone con quelle di aratura e di semina. Può essere tradotto così:
Si spingeva avanti i buoi (le dita),
arava un bianco prato (la pergamena),
reggeva un bianco aratro (la penna)
seminava nero seme (l’inchiostro).
Ed è proprio l’indovinello veronese che mi è venuto irresistibilmente in mente leggendo il manoscritto di Giulio Marzaioli, In re ipsa, e chiedendomi che cosa significasse quel titolo latino che alludeva allo stare, all’essere nella cosa stessa. In re ipsa. Nella cosa stessa. La risposta mi venne quando lessi i seguenti versi:
L’inchiostro si annoda tra riga e pausa.
È una rete in cui riposa il nero,
quasi un nido se non fosse che la frase
vira in bianco sul foglio, non racchiude.
Essere nella cosa stessa significava forse, per Marzaioli, essere nella scrittura stessa? Ma il negro semen (l’inchiostro) che calava sul foglio per racchiudere qualcosa non riusciva tuttavia a racchiudere niente (vira in bianco sul foglio, non racchiude). Qualche pagina dopo il poeta parla addirittura di un ago che incide la carta, come se la carta fosse la carne del poeta, e, addirittura, della nervatura d’inchiostro sul foglio come se fosse la monta, una specie di coito, e la scrittura il piacere. Quindi un piacere in sé e per sé, al di là del fatto che la scrittura racchiuda qualcosa o non racchiuda niente. Ma forse la cosa è ancora più complicata.
2
L’espressione la cosa stessa, come raggiungere, esprimere, “la cosa stessa” è un problema che ha occupato la filosofia fin dalle origini,da Platone (la celebre VII Lettera), una formulazione che è stata usata per definire “la cosa del pensiero” e che il pensiero moderno ha ereditato come una parola d’ordine, ha scritto qualcuno, passata di bocca in bocca, in Kant, in Hegel, in Husserl, in Heidegger, qualcosa che si esprime nel linguaggio ma allo stesso tempo lo trascende, e non può esistere all’infuori del linguaggio. Anche nella poesia , quando Baudelaire, ad esempio, scrive di avere teso, nella dedica dello Spleen di Parigi, al miracolo di una prosa in grado, come nella poesia di un amico, “ di tradurre in una canzone il grido stridente del Vetraio, e di esprimere in una prosa lirica tutte le desolanti suggestioni che questo grido invia fino alle mansarde attraverso le più alte nebbie della strada”, vuole ritrovare l’equivalente espressivo di un fenomeno unico e irripetibile, della cosa stessa.
3
E allora, da sempre, filosofia e poesia sono attraversate da questo dilemma, il rapporto che intercorre tra il linguaggio e la cosa di cui si occupa, in cui certo, ne va della ricerca della verità, sia questa l’idea filosofica o il grido del vetraio. Tutto l’ultimo secolo, filosofico e poetico, è occupato dal problema della differenza tra linguaggio e realtà. Si pensi all’ossessione da quando Hofmannsthal scrisse, in persona di Lord Chandos, del logoramento delle parole e dello stupore di trovarsi di fronte a degli oggetti , a cui non sembrava più corrispondere la parola che li designava. Un erpice, un prato, una capanna. La poesia, per accentuare la propria distanza dal linguaggio comune, ha teorizzato nel corso del secolo la separazione tra significato e significante, come se solo attraverso questa separazione fosse concesso di allargare gli spazi del sentire ed esplorare nuovi mondi. Marzaioli, mi sembra, non crede alla possibilità di questa separazione. La sua “cosa stessa” diventa la scrittura all’interno della quale significante e significato si schiacciano l’uno sull’altro fino a diventare righe allineate sul foglio (o aghi che incidono la carne del poeta, il foglio bianco , l’alba pratalia ,come il corpo del poeta). La scrittura, che è perennemente ricerca del senso, tentativo di afferrare la cosa stessa, diventa essa stessa la cosa, in una sorta di fascinazione in cui la realtà, piuttosto che essere afferrata dalla scrittura, si sottrae perennemente dall’essere compresa.
4
Marzaioli è consapevole in questo corpo a corpo con la scrittura (che è un corpo a corpo con la cosa, chiamiamola vita, essere, realtà, senso dell’essere), di essere sempre in presenza di una mancanza, è consapevole di non andare certo, con l’esercizio della scrittura, come diceva Blanchot, verso un mondo più certo, migliore, meglio giustificato, dove tutto si ordini secondo la chiarezza di una luce giusta. Anzi, in una sezione del libro, definisce quello che resta sulla pagina spazzatura, in cui allineare come in una discarica i propri resti di uomo e di poeta Grafia di una storia minore, dice, (storia con la s minuscola) sullo sfondo di una Storia (con la S maiuscola), che scorre come qualcosa d’inesorabile e distante dalla nostra storia soggettiva, ma insieme la interseca , in un’evanescenza da cui entrambe sono travolte in una continua produzione e perdita e nuova produzione e nuova perdita di senso.
5
Questa evanescenza della cosa stessa, o questa metamorfosi della cosa stessa nella scrittura che dice l’evanescenza della cosa, in un suo libro precedente l’aveva chiamata elementi di fuga. Gli elementi sono i quattro elementi primordiali della filosofia presocratica,che suddividono il libro in quattro sezioni: Aria, Acqua, Terra, Fuoco. Come ogni vero poeta in ogni suo libro non fa che allargare il proprio orizzonte iniziale Elementi di fuga è l’antecedente necessario di In re ipsa. Nella sua prima raccolta Marzaioli s’interrogava sulle manifestazioni più percepibili di quegli elementi, l’aria che ci circonda, la pioggia che cade, la terra investita dalla luce, il debole fuoco luminoso di una candela, colti sia nella loro presenza fisica e insieme come fondamenti dell’essere. Anche qui il linguaggio e la cosa cercavano una difficile congiunzione vivendo drammaticamente la loro dissociazione. Elementi di fuga/ in fuga. Forme allo stesso tempo concrete e astratte che si dissolvevano in relazione al nostro essere nel tempo. Così Marzaioli chiudeva quella sua prima opera:
è questo il tempo della fuga
prima che la breccia chiuda,
ci trattenga fuori?
Allora s’apre dentro la ferita
come una finestra.
Perché non si disperda il volo
perché prosegua nel ritorno
quasi una risposta.
6
La ferita , aperta come una finestra , significa che attraverso la ferita si mantiene un collegamento tra interiorità ed esteriorità, tra linguaggio e cosa, che In re ipsa tornerà come problema di ferita che, attraverso la scrittura, sembra rimarginarsi, ma nella consapevolezza che nella scrittura non si rivela la cosa stessa ma solo il suo fantasma, e che quindi ogni comprensione è fondata nell’incomprensibile. E riaffiora il problema della cosa ,che un tempo rinviava a qualcosa di concreto, a Dio, alla vita, all’inconscio, allo spirito, che ora sono diventati nomi vuoti, essendo il pensiero contemporaneo (includendo in questo anche il pensiero poetico) arrivato ad un punto estremo di esaurimento. Parafrasando Heidegger, l’uomo è gettato nel linguaggio senza che nessun fondamento gli garantisca una possibilità di scampo dal gioco infinito e insensato della scrittura, del negro semen, dell’inchiostro che moltiplica le righe nere sul foglio bianco, sull’alba pratalia, negli infiniti spazi bianchi all’interno dei quali deve essere riarticolato il senso, ritrovata un’apertura (Allora s’apre dentro la ferita/come una finestra, dice Marzaioli) al movimento del pensiero. E qui poesia e filosofia s’incontrano nello stesso compito della ricerca di un varco che trascenda la cosa stessa (il linguaggio, la scrittura) in una sempre rinnovata interrogazione rivolta al cuore dell’essere, al di sotto del velo che gli ha tessuto, e continua a tessere intorno, il linguaggio.
Tiziano Salari
Verona, 24 settembre 2005