Carte nel Vento
periodico on-line
del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
La mappa di questo quarto numero di Carte nel Vento si articola attraverso le parole dei poeti, le musiche che da queste prendono forma, le immagini.
Tutto racconta e documenta, oltre alla cerimonia conclusiva del Premio, la composita avventura della Biennale di Poesia, promossa da Anterem in collaborazione con la Biblioreca Civica di Verona e nata nel 2004 intorno al Premio Lorenzo Montano.
Protagonisti della Biennale sono infatti i “poeti scelti” di ogni edizione del Premio, invitati a leggere i propri testi in luogo d’incontro e ascolto reciproco, in una rete che unisce esperienze e poetiche, oltre che varie arti. Quest’anno si è trattato di un vero e proprio reading.
Come testimoniato dal nuovo bando, questa esperienza proseguirà con rinnovate idee e ulteriori approfondimenti legati alla poesia e ai suoi sconfinamenti.
E continua, con sempre nuove proposte qui documentate, la presenza di Anterem all’interno del Festival “Veronapoesia”. Queste proposte nascono dai temi trattati dalla rivista e si intrecciano con le letture dei poeti selezionati nell’ambito del premio. E’ il caso della performance poetico-musicale della durata di 24 ore dedicata a “Vexations” di Erik Satie, con quaranta poeti che si sono alternati, in vari momenti della giornata, al microfono.
Prosegue con nuovi impulsi anche la collaborazione del Premio con l’Editrice Cierre Grafica per la collana “Opera Prima”. Consiglio a tutti coloro che non hanno ancora pubblicato in volume la lettura dell’intervento di Flavio Ermini.
Nel corso di questi 20 anni, aumentando continuamente gli spazi intorno al Premio, abbiamo cercato di far sì che la partecipazione al “Lorenzo Montano” non fosse fine a se stessa, esaurendosi una volta proclamati i vincitori, ma potesse per molti poeti aprire ulteriori, impreviste e bellissime strade.
La mappa è tracciata. Descrive un luogo interamente abitato dalla poesia.
Ranieri Teti
Collana di poesia edita da Cierre Grafica
e curata da Flavio Ermini
via Zambelli 15 - 37129 Verona, Italia
e-mail direzione@anteremedizioni.it
Cierre Grafica ha dato vita a un nuovo progetto editoriale: una collana di poesia dedicata ad autori che ancora non hanno pubblicato i loro testi poetici in volume. La collana si chiama esplicitamente “Opera Prima”.
L’iniziativa non ha fini di lucro, tanto che i volumi, caratterizzati da alta qualità grafica e accuratezza nelle tirature, non vengono posti in vendita, ma inviati a università, centri culturali, biblioteche, oltre che a storici della letteratura e filosofi.
L’intento è questo: far sì che la pubblicazione apra all’autore la possibilità di entrare in contatto con i settori intellettualmente più vivaci del mondo letterario, filosofico e artistico.
Nella scelta dei testi non si dà per scontato o prevedibile nessun percorso stilistico. “Opera Prima” si propone di mettere in scena eventi di scrittura che spingono a portarsi più in là degli esiti espressivi, verso il pensiero: quella particolare forma di pensiero che nasce dalla poesia.
Ogni opera è introdotta da un breve saggio ed è accompagnata da un disegno originale di un artista contemporaneo. Particolare impegno viene dedicato alla pubblicizzazione di ogni singolo volume su quotidiani e riviste, e in occasioni pubbliche.
Negli anni editoriali 2003-04 e 2004-05 sono state pubblicate, dopo una selezione rigorosissima, sette opere prime:
Tale gesto editoriale ha un’ambizione: non far ricadere i costi editoriali e di distribuzione interamente sull’autore. A questo proposito sono stati costituiti due Consigli:
— un Consiglio dei Garanti formato dai poeti Yves Bonnefoy e Andrea Zanzotto, e dal filosofo Umberto Galimberti;
— un Consiglio Editoriale formato da note personalità della critica letteraria e della filosofia, oltre che da poeti e artisti.
I due Consigli hanno il duplice compito di garantire la qualità delle scelte editoriali e di sostenere per buona parte il costo della pubblicazione.
La realizzazione di questo progetto si sta istituendo come un vero e proprio evento.
Non è frequente, infatti, che un gruppo di intellettuali produca e promuova, in modo assolutamente disinteressato, una collana di poesia dedicata ad autori inediti. Così come è raro in questi anni un impegno editoriale volto alla promozione di nuovi poeti.
Nel programma editoriale 2005-06 sono state incluse tre opere che hanno partecipato alla diciannovesima edizione del Premio Lorenzo Montano. È prevedibile che con sempre maggior frequenza le migliori opere prime che parteciperanno al Premio vengano selezionate per questa importante iniziativa.
A questo proposito invitiamo i poeti che aderiranno al Premio Montano e che non hanno mai pubblicato in volume a segnalare, come indicato sul bando, che l’opera inedita inviata è un’opera prima.
In questa seconda edizione di Veronapoesia, la rivista di ricerca letteraria “Anterem”, che proprio quest’anno celebra i suoi trent’anni di attività, ha presentato ben quattro eventi. Sono stati curati da Flavio Ermini, direttore di questo periodico dalla fondazione, e da Ranieri Teti, segretario del Premio di poesia Lorenzo Montano, iniziativa che affianca il lavoro della rivista da ormai vent’anni.
La rassegna ha come titolo generale: “Pensare senza balaustre”, ripreso dall’imperativo di Hanna Arendt: «Denken ohne Geländer». Cosa significa? Vuol dire che è necessario aprirsi al sentire: non a ciò che si oppone al pensiero, ma al suo volto in ombra.
“Pensare senza balaustre” significa infatti approssimarsi a quell’originario ante rem che rifiuta di articolarsi nella sintassi della ragione. Significa partecipare al formarsi dell’essere quale custode della differenza. Significa esporsi alla libertà del senso e al senso della verità.
Curato da Flavio Ermini, il 4 ottobre si è svolto al Foyer del Teatro Nuovo il primo della trilogia di eventi proposti dalla rivista “Anterem”. Aveva per titolo “Dall’Assoluto all’Eresia”. Protagonista della serata è stato Luigi Reitani, docente di germanistica dell’Università di Udine e curatore del Meridiano Mondadori di Hölderlin. Reitani è assunto il compito di guidarci - attraverso alcune esemplari opere letterarie - dalla sacra elevatezza che ci sta alle spalle al protendersi dell’uomo verso il proprio essere finito.
L’itinerario è stato accompagnato dalla lettura di testi di quattro raffinatissimi autori di lingua tedesca: Ingeborg Bachmann, Paul Celan, Christine Lavant, Thomas Bernhard, nell’inedita traduzione dello stesso Reitani. Tali testi, ci ha confermato Ermini, verranno pubblicati sul numero 72 della rivista “Anterem”.
La lettura dei testi è stata proposta da Carla Totola e Massimo Totola ed è stata introdotta da una lettura in lingua originale di Elisabeth Jankowski, lettrice di tedesco all’Università di Verona.
Il secondo evento si è svolto il 5 ottobre sempre al Foyer del Teatro Nuovo. Il titolo era “Da New York all’Antiterra”, a cura di Ranieri Teti.
L’apertura è stata affidata a una vivace relazione di Iain Chambers, filosofo dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
E’ seguita una lettura di Jana Balkan e Isabella Caserta del poema The Murder Mystery di Lou Reed, lettura proposta nella traduzione italiana di Luigi Ballerini e Beppe Cavatorta, entrambi docenti di Letteratura italiana contemporanea all’Università della California a Los Angeles.
A seguire una relazione di Carlo Sini, filosofo, accademico dei Lincei. Tale relazione - affascinante, com’è nello stile di questo grande pensatore – è stata accompagnata da una lettura di testi poetici di Marina Cvetaeva, Yves Bonnefoy, Nicole Brossard, a cura del Teatro Scientifico. Tutti i testi proposti sono tratti dal n. 69 di “Anterem”.
Alcune poesie sono state lette anche in lingua originale da Bruno Mathieu Albanese, lettore di francese dell’Università di Verona.
Sabato 8 ottobre, sempre al Foyer del Teatro Nuovo, si è conclusa la trilogia proposta da “Anterem”. Il titolo di questo appuntamento è stato: “Da Zarathustra alla Controparola”, curato da Flavio Ermini.
La prima parte della serata è stata dedicata alla lettura dello Zarathustra di Nietzsche laddove annuncia la morte di tutti gli dei (“Della virtù che dona”), subito seguita dalla lettura della poesia “Tenebrae” di Paul Celan.
La seconda parte è consistita una relazione di Vincenzo Vitiello, docente di Filosofia all’Università di Salerno, che ci ha traghettato da Zarathustra verso la preghiera del dio mortale – rivolta all’uomo perché ne custodisca la memoria –, fino alle attuali poetiche della controparola, a cui è stata dedicata la terza parte dell'incontro.
Questa terza parte è stata riservata proprio a quelle poetiche della contemporaneità, in cui strettamente il linguaggio è connesso al dolore per la creaturalità di Dio. I poeti in questione saranno: Osip Mandel’stam, Vladimir Holan, Flavio Ermini, Claude Ollier, Ranieri Teti, Marcello Gombos, Davide Campi, Friederike Mayröcker.
Le letture dei testi, tutti tratti dalla rivista “Anterem”, sono state affidate a Carla Totola e Massimo Totola.
Oltre a questa trilogia di eventi, “Anterem” ha proposto nell’ambito di questa seconda edizione del “Veronapoesia” una manifestazione eccezionale. Si è trattato di una performance poetico-musicale della durata di 24 ore, che ha avuto inizio alle 22.50 di sabato 8 ottobre ed è proseguita ininterrottamente fino alle 23 del giorno successivo. Il titolo è: “Dalla Musica alla Parola”. Cura e coordinamento sono di Flavio Ermini e Ranieri Teti.
Francesco Bellomi e altri pianisti si sono alternati al piano per l’opera di Erik Satie: Vexations. L’opera è stata eseguita poche volte nel mondo, di cui una fortemente voluta da John Cage a New York nel 1963, e solo tre in Italia. Ogni esecuzione ha richiamato un appassionato e numeroso pubblico internazionale.
Nel corso dell’esecuzione è stato proiettato, in un video a ciclo continuo, il film Entr’acte di René Claire, girato nel 1924 e della durata di 22 minuti con Satie attore, alcuni poeti che leggono loro poesie (tra cui Picabia) e artisti come attori (Duchamp e Man Ray).
Come accade nel film di René Claire, alcuni noti poeti, selezionati nell’ambito della 19^ edizione del Premio Lorenzo Montano, sono stati chiamati durante l’esecuzione a leggere loro testi. Nel corso della giornata di domenica, sempre sulle note di “Vexations”, si sono svolti "Satie a teatro" (con la recitazione di alcuni brani teatrali di Erik Satie da parte Jana Balkan e Isabella Caserta) e “Satie poeta”, con la recitazione di alcuni rari testi poetici a cura di Massimo Totola.
Al pianoforte si sono alternati Paolo Baccianella, Francesco Bellomi (curatore del concerto), Alberto Falezza, Ilaria Rigoli.
I poeti che hanno partecipato a questo evento sono stati:
alle ore 11: Valentina Albi, Gilberto Antonioli, Roberto Cogo, Luca Maria Del Punta, Diego Fantin, Roberto Fassina, Maddalena Gabaldo, Fabia Ghenzovic, Daniela Piazza, Paolo Pucciarelli, Liliana Tedeschi, David Wilkinson, Maria Grazia Zamparini, Silvia Zoico;
alle ore 15: Primerio Bellomo, Simone Cangelosi, Stefano Cappelletti, Giarmando Dimarti, Paolo Donini, Gennaro Grieco, Michele Lalla, Marcello Marciani, Francesca Monnetti, Luca Rizzatello, Serena Savini, Liliana Ugolini, Marco Zulberti;
alle ore 18: Maria Grazia Calandrone, Lucia Gaddo Zanovello, Andrea Gigli, Stefano Guglielmin, Emidio Montini, Alberto Mori, Carla Paolini, Alessandro Pugno, Domenico Settevendemie, Giovanna Zoboli;
alle ore 21: Giorgio Bonacini, Davide Campi, Flavio Ermini, Marco Furia, Marcello Gombos, Ranieri Teti, Ida Travi.
Con la partecipazione straordinaria, in apertura, del filosofo Vincenzo Vitiello in una lettura di Paul Celan.
Quando alle 22,50 Albertina Dalla Chiara ha appoggiato le mani sul piano a coda nella stanza della Letteraria per il primo turno di due ore di “Vexation”, l’opera musicale di 24 ore scritta da Erik Satie nel 1893, forse in pochi si rendevano conto della sfida che stava per iniziare. La Letteraria era gremita di gente e posti a sedere disponibili erano pochi. Per la verità erano in pochi anche quelli che ascoltavano la musica che dopo un minuto aveva già detto, in termini di puro pentagramma, tutto. C’era chi guardava il cortometraggio surrealista “Entr’acte” firmato nel 1924 da Renè Clair con Erik Satie, Man Ray e Picabia, un capolavoro di cui circolano pochissime copie e che è stato proiettato a ciclo continuo per la durata di tutta la performance. Qualcun altro infine ascoltava l’introduzione che Francesco Bellomi ha fatto alla nottata leggendo brani dal libro “Quaderno di un mammifero” (Adelphi) in cui Satie dà una serie di indicazioni non solo ai pianisti alle prese con le sue opere, ma anche al pubblico. Un libro che alcune sere fa Quirino Principe aveva utilizzato per raccontare, sempre sulle note di Albertina dalla chiara, il Satie meno noto. E’ un testo, l’unico forse, in cui si racconta molto sul misterioso e l’esoterico Satie che tra le tante bizze della sua vita ebbe anche quella di nascondere decine di spartiti tra cui alcuni che comprendevano l’intervento di scimmie e cani. Anche questa surreale maratona pianistica di un’intera giornata, in cui uno o più pianisti sfidano noia e prostrazione fisica e ripetono in continuazione un brano di un minuto, fu ritrovato solo in un cassetto alla fine degli anni quaranta. Dopo le letture dei poeti Ida Travi e Marcello Gombos è iniziata ufficialmente la lunga notte della Letteraria. Una notte in cui, forse per la prima volta nella sua storia il palazzo di Scalette Rubiani è rimasto completamente aperto a tutti così come il microfono di fronte al pianoforte a disposizione di chiunque volesse leggere poesie e altro. E tra i nottambuli di passaggio almeno fino alle 2 di mattina non è mancato chi si è cimentato di fronte ad un pubblico che dopo l’una era ridotto ad una quindicina di persone. Parole e versi tutti seccamente e immancabilmente scanditi dalle poche note e dai tritoni di Satie suonati “eroicamente” alla tastiera dopo Albertina Dalla chiara, Giancarlo Rizzi, Nicolas Bugolo, Paolo Baccianella (che, suonando nel turno più duro, dalle 3 alle 7, è stato imboccato con brioche e cappuccino poco prima di passare il testimone) Alberto Fralezza, Ilaria Rigoli, Marco Dal Bon. La giornata è ripresa con le letture dei poeti della rivista Anterem e, prima della conclusione della maratona pianistica e di tutta la rassegna Verona Poesie, alle 23, alle 17 si sono ascoltati alcuni brani teatrali di Jana Balkan e Isabella Caserta, mentre alle 22 Massimo e Carla Totola hanno recitato alcuni suoi rari testi poetici. Adesso che tutto è finito l’evento (che ha pochi precedenti nel mondo e uno solo in Italia) verrà certificato come una sorta di guinness alla fondazione Erik Satie di Parigi.
Luigi Sabelli
Un sentimento inabile?
Vigile fino al limite del visionario, Giorgio Bonacini, in
“ Quattro metafore ingenue “, propone immagini la cui
innegabile attrattiva muove da una versificazione intimamente
tesa, contratta, ma capace di distendersi, improvvisa,
concedendo “ biologico “ respiro, in espressioni tanto
enigmatiche, quanto liberatorie.
Non troppo “ ingenuo “, in verità , del tutto spontaneo
all’ origine del gesto poetico, il Nostro presenta esiti di
scrupolose indagini risolte in dialogo con lo stesso strumento
linguistico: dialogo, più che analisi, dato il tono garbato,
ottenuto anche grazie a melodie segrete, appena evocate,
implicite e onnipresenti.
Conscio di un ineffabile diffuso oltre confine, nonché
dei fondamenti non logici dell’ idioma, Bonacini,
con repentina sincerità, dichiara: “ non ho visto niente “.
Niente di quanto, in effetti, risulta escluso dall’ umano
campo visivo, se è vero che la vita, specie la propria, si vive,
semplicemente.
Raffinata la scansione verbale.
(Giorgio Bonacini, “Quattro metafore ingenue”, Manni editore,2005)
La piega del tempo
Memore, già allievo di Adriano Spatola, della lezione surrealista, Giacomo
Bergamini, con “ Il viaggio”, presenta immagini, sospese eppure gravide
d’ intenso impatto emotivo, suggestivi spezzoni di una storia avvertita quale
inenarrabile.
Lineari tratti di prosa, per lo più brevi, dagli stravolgenti ipnotici effetti,
ricchi di peculiare efficacia visionaria, tradiscono, così, un disarmato stupore
di fronte all’ acuta percezione dell’ esistere e degli insuperabili limiti
dell’ umano linguaggio nel renderne testimonianza: la reazione sarà poetica,
notevole senza dubbio, ma non mancheranno esiti drammatici.
Nel ricordare l’ amico Giacomo, mi chiedo da quale “piega del tempo”
comunicasse, affidando alla scrittura il compito di trasmettere, per misteriose
vie, la sua enigmatica, dolorosa, maniera di stare al mondo: domanda che,
con quel tono affabile e provocatorio, tipico di chi intende, pur affettuoso,
canzonare, avrebbe restituito, a ragione, priva di risposta, al mittente.
(Giacomo Bergamini, “Il viaggio”, “Anterem” n°71, pag. 24 e sgg.)
Possibilità del non luogo
In un contesto forse memore di certe atmosfere alla Magritte,
si susseguono, intervallate da sei disegni di gusto onirico –
surrealista, le “Egostanze” di Bruno Conte.
Stanze in cui “fremito d’ ali immobili” si accompagna a “segno
di nessuno”, o in cui lungo l’ “ennesimo corridoio” s’ incontrano
tende dal “passante assente”, secondo scansioni precise, consapevoli
del suggestivo effetto di una (apparente) noncuranza, priva di
difficoltà nell’ esibirsi in vere e proprie descrizioni, non tanto
assurde, quanto enigmatiche.
E l’ enigmaticità pare, davvero, l’ oggetto precipuo di un testo in cui,
non a caso, sul finale, si sottolinea il passaggio “da disegno cieco” a
“cieco disegno”, complice un intreccio che, a tratti quasi generatore
di claustrofobia, riesce, nondimeno, ad aprirsi ad una dimensione
offerta quale comune, proprio per il fatto di essere intimamente
vissuta.
Quasi una presa di posizione, un dichiarare, perciò, non implicante
altro all’ infuori di sé, ma capace di proporre, con quella specifica
carica di energia nascente dall’ analisi rigorosa, il risultato, poetico,
di una ricerca certo non priva di filosofiche evocazioni.
Peculiare il ritmo.
(Bruno Conte, “Egostanze”, Anterem Edizioni, Verona, 2005)
Nervature di inchiostro
Compatte partiture, veloci battiti, delimitano fulgidi spazi
dai contorni netti, come se Giulio Marzaioli, latore d’ istanze
di definizione quasi geometrica, riferisse, con immediatezza,
sorprendenti messaggi.
Sorprendenti, certo, riportati nella versificazione con lucida
eleganza, colti da occhio vigile e ritratti, nella loro suggestiva
enigmaticità, tra i cardini di uno stile asciutto, controllato.
Una misteriosa “ frase” che “ vira in bianco sul foglio “ e
“ non racchiude “ ( ma anche una “ trama del disastro “ quale
“ ricamo “, o un “ taglio “ nascosto nella lama “ ) viene
presentata, così, nella distaccata maniera tipica di chi avverte
motivi di sorpresa diffusi, in grande copia: lo stupore, insomma,
non deve stupire?
(Giulio Marzaioli, “In re ipsa”, Anterem, Verona, 2005)
Possibilità estreme
Con toni chiari, a tratti quasi divulgativi, senza nulla perdere quanto
ad intensità, Tiziano Salari e Mario Fresa, in dialogo, offrono illuminanti
spunti, indicano suggestive vie di approfondimento, non rinunciando,
tuttavia, a manifestare, in maniera decisa, militante, le proprie opinioni
sull’ arte di comporre versi.
Tanti inutili steccati, così, vengono abbattuti, tante nefaste idiosincrasie
perfino derise, a efficace difesa di un uso linguistico con evidenza
distinto da quello ordinario e ritenuto, a ragione, maggiormente capace di soddisfare ineludibili esigenze espressive.
Una “possibilità estrema”, insomma, secondo Flavio Ermini, che,
nell’ elegante saggio conclusivo, presenta un’ immagine del poeta
quale liberatore dall’ opprimente, fitta, “tela concettuale”, i cui plurimi
intrecci risultano talvolta così mortificanti da richiedere opportune
terapie.
Nulla fu più condivisibile.
(Mario Fresa, Tiziano Salari: “Il grido del vetraio”, con un saggio di
Flavio Ermini, Nuova Frontiera, Salerno, 2005)
Notizie dagli Autori e dagli Editori
Performer vocale-gestuale e autore “fonografico”, tra i protagonisti della Mostra internazionale Living Theatre/Labirinti dell’Immaginario (Napoli, Castel Sant’Elmo, 3 luglio-28 settembre 2003), Massimo Mori è da oltre un trentennio sperimentatore solista della poesia visiva e fonetica con una particolare predilezione per la gestualità, la creazione di oggetti, l’”onomalingua” e lo psicodramma teorizzati e variamente attuati dal futurista Fortunato Depero (…).
Dalla presentazione di Stefano Lanuzza a “Performer” di Massimo Mori, Giubbe Rosse 2005
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Nel 2004 Ida Travi, redattrice di Anterem, ha pubblicato presso La Tartartuga, Baldini Castoldi Dalai Editori, l’atto tragico “Diotima e la suonatrice di flauto”, con prefazione di Luisa Muraro. Pubblichiamo alcuni estratti di recensioni.
Estratto dalla nota di Elisabetta Rasy
Corriere della Sera
Magazine -6 marzo 2005
“Nei film vengono definite comparse: figure che compaiono e scompaiono attraversando la scena per il tempo di una battuta, o un gesto solo. Per servire l’azione degli altri. Spesso nel cinema come in letteratura sono figure femminili decorative ma irrilevanti. Una poetessa italiana, Ida Travi, ha pescato o piuttosto ripescato una di queste umili stelle filanti in uno dei testi fondamentali della nostra cultura Il Simposio di Platone: nel celebre dialogo ambientato durante una festa, gli amici riuniti –tutti uomini- quando decidono di conversare sul tema dell’amore allontanano la suonatrice di flauto che fino a quel momento aveva rallegrato la serata. La flautista scompare nel nulla. Da questo nulla l’ha riportata in scena Ida Travi dedicandole un testo che è una concentrata tragedia tutta al femminile” (…)
Da l’Indice dei Libri
Estratto dalla recensione di Luisa Bistondi
(marzo 2005)
‘Ida Travi definisce il suo Diotima e la suonatrice di flauto un testo anomalo. Anomale perché cancella le distanze tra poesia e filosofia? Tra scrittura teatrale e filosofia? Poetessa Ida Travi dice che la poesia orale è la base da cui nasce il teatro e germina il pensiero (L’aspetto orale della poesia - Anterem 2000 -Selezione Premio Viareggio 2001)Ne consegue che questa sua opera npon è più così anomala, soprattutto se si pensa alla lezione di Maria Zambrano, la quale si è rivolta agli albori della nostra cultura, a quel ‘prima in cui poesia e filosofia erano uno, prima che poesia e filosofia diventassero due e fra loro molto diversi.
Estratti dalla recensione di Annarosa Buttarelli
Leggere Donna- gennaio febbraio 2005
(…) Siamo avvertiti: ciò che leggeremo nell’“atto tragico” non è il prodotto di un’esercitazione poetica, ma è una creazione poetica che permette a voci silenziate di farsi udire secondo la loro verità. La rivendicazione di verità è la stessa di María Zambrano quando ci assicura che è Sofocle ad avere sbagliato la conclusione della sua tragedia per difetto di pratica dell’ascolto.
È la stessa rivendicata da Marguerite Yourcenar quando, in stato quasi estatico, ascolta e trascrive la voce dell’imperatore Adriano. Sono rivendicazioni di verità frequenti come gesti della differenza femminile che cerca di farsi largo nei contesti di occultamento o di negazione. Si tratta certamente di una necessità per la mente e anche per il sentimento di una certa giustizia. (…)
Il ricco saggio introduttivo di Luisa Muraro, In versi e in prosa, intercetta e sottolinea anche un aspetto non secondario dell’opera di Ida Travi, non facile da comprendere: è un atto tragico perché Anna, la suonatrice di flauto, alla fine si suicida, nonstante la cure amorevoli di Diotima e della nutrice. Perché? Luisa Muraro vede, in questa scelta drammaturgica, l’accettazione da parte della poetessa della legge canonica degli atti tragici: si deve finire con una o più morti.
Secondo la filosofa, Ida “è attratta dal fascino dell’Atto tragico con la sua caratteristica, di un agire che la casualità e la morte impediscono di fare arrivare alla sua compiutezza, e tuttavia non disperso, trovandosi tutto raccolto nello spazio peculiare del teatro greco”. Insomma, la mancanza del lieto fine onorerebbe il fatto che c’è il caso e c’è la morte che fanno deporre ambizioni di compiutezza rappresentabili con l’esito positivo della vicenda della protagonista. Lettura suggestiva che lascia aperta comunque una domanda sulla morte di Anna, la suonatrice di flauto, tanto più che Ida Travi in un’altro testo molto importante (L’aspetto orale della poesia, Anterem 2000 –Selezione Premio Viareggio 2001) prova a condurre la sua riflessione fino al “superamento del tragico”, dato che le interessa mostrare – non abbiamo dubbi al proposito – che “mettere al mondo, porre all’aperto, non significa solo mettere in pericolo”. (Annarosa Buttarelli)
Giancarlo Calciolari
Ida Travi in Diotima e la suonatrice di flauto. Atto tragico (La Tartaruga, 2004, pp. 82, € 10) legge le fiabe della filosofia e si trova a inventarne altre.
La restituzione in qualità del testo occidentale, senza più decostruzione né archeologia, non è facile. Occorre la scienza della parola che è sorta con il rinascimento sulla scia delle istanze dell'ebraismo e del cristianesimo, tra Gerusalemme e Roma. Non la scienza del discorso, che viene formalizzata a Atene, nel momento che sorge l'impero, con Alessandro allievo di Aristotele, sino a essere diventata oggi canone occidentale.
Come dissipare il canone e restituire il testo, che non è mai stato scritto? Infatti, se il più grande filosofo della fine del novecento è stato Jacques Derrida, è pur vero che il suo lavoro è consistito in una postilla a Platone, essendogli servito Heidegger per precisare questo aspetto.
(…)
Forse la modalità narrativa di Ida Travi è ancora filosofica? Ida Travi propone il terzo incluso o istruito, come Michel Serres, al posto del terzo escluso? Nell'incluso è dato il terzo? Tertium datur? Oppure la genealogia dell'esclusione e dell'inclusione toglie l'Altro scegliendo obbligatoriamente la morte. In effetti, l'atto è tragico. Obbligatoriamente. Nel senso che l'unica libertà prevista dal canone è quella di morire. Nel senso che la suonatrice di flauto muore. Si suicida e nemmeno poi tanto velatamente. Anche la suonatrice di flauto ha scherzato con la morte? Non era riuscita a formulare un progetto e un programma di vita, malgrado la guida di Diotima?
(…)
"Chi consegna alla vita consegna alla morte e lo fa per amore", scrive Ida Travi ne L'aspetto orale della poesia. Anterem 2000- Selezione Premio Viareggio 2001 ) Questo è il mito delle tre parche. Le parche, le fasi della luna? Il naturalismo? Il fatalismo naturale? Possiamo leggere in altro modo Atena, Afrofite, Era, Ecuba?
Estratto da ‘Il Segnale ’n° 71
Recensione di Giuseppina Rando
‘Come la filosofa Maria Zambrano la poetessa Ida Travi cerca nel mondo greco gli albori della nostra cultura, quel prima che unificava poesia e filosofia :’ ‘…le accomuna’ – scrive Luisa Muraro nell’Introduzione ‘ un tratto della scrittura che trascende ogni polemica. Entrambe inseguono una scrittura in cui prima della parola, viene l’ascolto: viene e si esprime nella scrittura styessa come una cavita….’ Questo discorso richiama un’altra importante opera della Travi (L’aspetto orale della poesia Anterem 2000- Selezione Premio Viareggio 2001) dove tra l’altro si legge ‘Nella sensualità del primo vagito, del peimo suggere un seno, nel primo abbraccio dopo la lunga emersione dal nulla si tesse una trama tragica :chi consegna alla vita consegna alla morte e lo fa per amore’
Estratto dalla recensione di Sara Zanghì
L’Immaginazione sett. 2005
‘Un libro avvincente formato da un’opera teatrale ‘Atto tragico’, da un racconto La Verità, e da un’appendice Ritratto di Anna che per le loro intrinseche corrispondenza si presentano come un testo unico.
(…) niente di meglio che citare qualche brano del saggio introduttivo di Luisa Muraro ‘Si tratta di uno stare o di un andare dentro/fuori rispetyto a una scena illuminata, popolata da personaggi di rango superiore, dei o filosofi, da parte di chi non appartiene a quel mondo e ci sta a disagio, o ne sta fuori, o ne va fuori perchè segnata- spesso è una donna, qualche volta è un uomo- da un ‘meno’ che apre un buco nell’orizzonte dell’autosufficienza, così che altro possa avvenire, un incontro, un dio, un testo…’
Una nuova forma d’invenzione. Per la quale è necesario ‘fare il vupoto’. Un buco, o una specie dio traforo. O: straforo, extraforo, scrive ancora Luisa Muraro e conclude: ‘La combinazione delle due figure femminili da lei (Ida Travi) inventata è ‘opera di straforo’nella cultura tradizionale.’
Lo è anche L’aspetto orale della poesia, della stessa autrice (Anterem 2000 – Selezione Premio Viareggio 2001), che si richiama direttamente alla Grecia arcaica, a un prima in cui la poesia fu un dono orale, un’enciclopedia del mondo, un’epica…..’
Una nota di Daniela Cabrini
Il libro di Ida Travi si situa in una ben precisa intenzione che muove un percorso creativo del 900.
Si tratta di ripensare figure del mito nel mito, riascoltarle, dare loro altra voce alla luce della storia e di una nuova consapevolezza poetica.
Mi riferisco a Christa Wolf e alla sua Medea, a Maria Zambrano e alla sua Antigone, a Marina Cvetaeva e alla sua Fedra.
Ida Travi in verità compie una doppia azione, un doppio attraversamento del dialogo platonico Simposio: dona altra voce a Diotima, e dà voce ad Anna, nome che Ida Travi attribuisce alla suonatrice di flauto che, pur invitata, viene allontanata prima che gli uomini invitati al simposio comincino a discutere su Amore e che nel Dialogo scompare con il suo allontanamento.
Ida Travi ripensa Diotima, già degna di grande stima e riferimento da Socrate stesso, non solo figura della saggezza, ma figura della pietà e come nutrice, anzi nutrimento lei stessa, cosciente in queste nuove parole, che gli uomini “ dopo aver bevuto alla mia fonte si convincono che il merito sia loro che sono stati bravi a dissetarsi. Si scordano la fonte stessa”.
Qui c’ è un salto temporale incrociato: nel Simposio Socrate racconta di un incontro con la sacerdotessa Diotima accaduto almeno venti anni prima, Ida fa comparire Diotima mentre il Simposio si tiene.
Diotima è dunque la voce nel tempo, del tempo. È colei che accoglie, è la pietà senza tempo come “lei” stessa dice:
“E molte cose Socrate non sa sul mio pensiero (..). A volte ( ..) un’immagine viene (…) d’una Pietà vivente, una figura umana che ha il volto femminile della cura,”
E’ con Anna che Diotima assume questa ulteriore voce: tiene sulle proprie ginocchia Anna, la accarezza, e nel suo voler trasmettere ad altra donna la propria conoscenza di donna, è nutrice.
E’ con Anna che la storia si scrive nuovamente e si muove una nuova voce.
Anna racconta di essere rimasta – non vista- in ascolto di parte degli interventi degli uomini, e di essere poi fuggita in preda all’inquietudine mossa da pensieri e lontano da Aristide, uno fra gli invitati e padre della sua piccola figlia, prima che questi tenesse il suo discorso.
Anna vede e capisce che il peso più grande – essere madre ed esserlo sola – può essere rovesciato nel punto d’inizio, in quel punto delicato ma denso di possibilità che è l’accogliere la differenza, vivere proprio della mancanza.
Ma la piccola figlia muore e ad Anna non resta che mettere fine alla propria esistenza “ debole è la madre che non basta a se stessa, debole la donna che aspetta troppo a lungo…. Adesso è tardi..”.
E al poeta non resta altro che il canto e la tragedia come scelta autentica ed etica di resa di/a ciò che è successo e di rinnovo di una parola poetica iniziale che torni a raccontare.
Rari sono i libri in cui la narrazione è così vicina alla parola, in cui lo scorrere delle pagine sussurra il ritmo della storia stessa.
La morte di Anna è necessaria ed è un rovesciamento, segna la differenza come il silenzio segna la voce. E la tragedia qui è la “giusta finzione”, è il ricorso al mito come racconto, così come Socrate stesso rinuncia al suo metodo di disputa dialettica per esporre la verità attraverso il racconto dell’incontro con Diotima.
Il mito-racconto come anima della tragedia nella sua forma poetica più antica.
Questa aderenza alla parola originaria, caratteristica saliente della ricerca poetica di Ida Travi, viene qui sigillato al testo poetico dell’atto tragico, ma anche confessato dall’autrice stessa che, nella terza parte del libro “Ritratto di Anna”, conclude con “ Non posso più cambiare questa storia, però ve la racconto.”
Si torni a raccontare perché è storia l’azione tragica, è storia ciò che accade e ciò che è storia è relazione, ponte fra le esistenze “ a cavallo del tempo, a cavallo del tempo”.
(Daniela Cabrini)
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Mara Cini, redattrice di Anterem, ha in corso di stampa presso una casa editrice della Svizzera italiana un libretto costruito in collaborazione con Rita Degli Esposti e il pittore PAM (Paolo Mazzucchelli: "Specchio convesso".
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Nell'antologia “Parola Plurale” edita da Luca Sossella nel settembre 2005, sono stati pubblicati, a cura di Giancarlo Alfano, alcuni testi di Rosa Pierno tratti dai suoi volumi "Buio e Blu", "Musicale" e "Arte da camera". Rosa Pierno è redattrice di Anterem.
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Sul primo numero del 2006 della rivista "La Clessidra” saranno pubblicate 10 poesie inedite di Giorgio Bonacini, redattore di Anterem. Sulla rivista “Capoverso” apparirà la recensione di Tiziano Salari al suo libro “Quattro metafore ingenue”, Manni 2005.
Sul numero de “Il Segnale” uscito a novembre ha trovato spazio la recensione di Giorgio Bonacini ai sette volumi finora pubblicati nella collana “Opera Prima”, edita da Cierre Grafica e diretta da Flavio Ermini.
Gennaio 2006, anno III, numero 4
Caffè Storico Letterario
GIUBBEROSSE
Piazza della Repubblica 13/14r –50123 Firenze
Tel. 055.212280 – Fax 055.290052
INCONTRI LETTERARI ALLE GIUBBEROSSE
A CURA DI MASSIMO MORI
Fiorenzo Smalzi Vi invita
mercoledì 25 gennaio 2006
ore 17
Flavio Ermini, direttore della rivista “Anterem”,
eRanieri Teti, responsabile del Premio “Lorenzo Montano”,
raccontano lanascita, gli anni di formazione e le attuali esperienze
di un gruppo dipoeti che da oltre trent’anni mette al centro
della propria attivitàeditoriale le questioni cruciali
del pensiero poetico.
Le riflessioni di Ermini e Teti
sono accompagnate dallalettura di alcune poesie
pubblicate dal 1976 a oggi sulla rivista di ricercaletteraria “Anterem”
e nelle collane del Premio “Lorenzo Montano”.
I poeti proposti sono:
Luigi Ballerini, Angela Maria Bedini, Ginevra Bompiani,
Yves Bonnefoy, Edoardo Cacciatore, Nanni Cagnone, Franco Cavallo,
Alfredo Giuliani, Silvano Martini, Friederike Mayröcker, Giulia Niccolai, Michele Ranchetti, Amelia Rosselli, Tiziano Salari, Edoardo Sanguineti,
Adriano Spatola, José Angel Valente, Christa Wolf, Yu Jan, Andrea Zanzotto.
Il percorso è tracciato dalla voce recitante di Massimo Totola
e promuove uno speciale quadro antologico della ricerca
letteraria degli ultimi trent’anni.
Per ulteriori informazioni:direzione@anteremedizioni.it
Gennaio 2006, anno III, numero 4
PRESENTAZIONE DELLA RIVISTA “ANTEREM”
E DEL PREMIO LORENZO MONTANOIl 10 febbraio 2006 presso la Sala della Promoteca in Campidoglio in Roma alle ore 17,30 si terrà
la presentazione della rivista “Anterem”.
Relatori
Rosa Pierno, poetessa, redattrice di “Anterem”
Lucio Saviani, filosofo
Giulio Marzaioli, poeta
Cesare Cuscianna, psicoanalista
Alcuni dei vincitori, dei finalisti e dei segnalati
del Premio Lorenzo Montano 2005
leggeranno le proprie poesie.
Nei diversi interventi, saranno messe in evidenza
le questioni che “Anterem” nei suoi trent’anni
di attività non ha smesso di porre:
1
è ancora possibile dare vita a una parola in grado
di nominare ciò che ancora non è stato pensato?
2
è ancora consentiti al poeta di collocarsi,
con la sua voce, nel luogo della nascita delle parole?
3
in questo luogo, che possiamo chiamare “ante-rem”, dove cioè ancora le cose non ci sono,
è ancora possibile accedere alla lingua che crea?
Premio «Raccolta Inedita»
Patrocinio: Biblioteca Civica di Verona
Al Premio si concorre con una raccolta inedita di poesie non inferiore a 200 versi. Tra i lavori pervenuti, la Giuria del Premio sceglierà l’opera vincitrice, che sarà pubblicata, grazie alla partecipazione della Biblioteca Civica di Verona, nella collana “La ricerca letteraria” di Anterem Edizioni, con una riflessione critica di uno storico della letteratura. Il volume sarà inviato a quotidiani, riviste, critici, biblioteche e università. Al fine di valorizzare i poeti che non hanno mai pubblicato in volume, sono previsti particolari riconoscimenti per le opere prime. A tale proposito le stesse dovranno essere evidenziate nella nota biobibliografica.
Premio «Opera Edita»
Patrocinio: Assessorato alla Cultura della Provincia di Verona
Al Premio si concorre con un volume di scritture poetiche pubblicato dopo il 1° gennaio 2003. Non sono escluse le scritture in forma di immagini o di musica, su supporti video o audio. La Giuria del Premio seleziona tre vincitori, ai quali l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Verona attribuirà la somma di Euro 500,00 ciascuno. Grazie alla collaborazione del quotidiano “L’Arena”, una Giuria Popolare sceglierà tra questi poeti il supervincitore, al quale sarà attribuita dal medesimo Assessorato un’ulteriore somma di Euro 500,00. Particolari riconoscimenti saranno attribuiti agli studenti che, partecipando alla Giuria Popolare, svolgeranno le migliori tesi sui libri premiati. A questo proposito, sarà chiamata a esprimersi una Giuria di docenti e giornalisti. È prevista una segnalazione particolare della Giuria del Premio per gli editori più sensibili alla produzione poetica.
Premio «Una Poesia Inedita»
Patrocinio: Prima Circoscrizione di Verona
Al Premio si concorre inviando una poesia inedita, che costituisca per l’autore un momento privilegiato nell’ambito della sua ricerca poetica: un testo che proprio nell’unicità trovi la sua ragione. Al vincitore sarà attribuita dalla Prima Circoscrizione di Verona la somma di Euro 500,00. Le poesie finaliste saranno designate dalla Giuria del Premio. La poesia vincitrice sarà scelta da una Giuria Critica formata da storici della letteratura e dell’arte, filosofi, critici letterari e docenti universitari.
Premio speciale della Giuria «Opere Scelte»
Patrocinio: Regione Veneto
Il riconoscimento è destinato dalla Giuria del Premio a un autore che abbia contribuito ad ampliare i percorsi di conoscenza che conducono alla verità poetica nella contemporaneità. Grazie alla partecipazione della Regione Veneto, allo scrittore sarà riconosciuta la pubblicazione, da parte di Anterem Edizioni, di una raccolta di testi selezionati tra le sue opere edite e inedite. Il lavoro antologico, introdotto da un’ampia riflessione critica e corredato da un’esauriente bibliografia, si configurerà come un vero e proprio profilo dell’esperienza letteraria e conoscitiva dell’autore.
PER TUTTE LE SEZIONI DEL PREMIO sono previsti riconoscimenti, segnalazioni di merito e menzioni da parte delle varie giurie.
Manifesto Biennale Verona Poesia XIX edizione
A partire da questa 19ª edizione del Premio Lorenzo Montano abbiamo istituito un riconoscimento riservato agli allievi dei quattro licei che collaborano facendo parte della giuria per l’Opera edita. A questi ragazzi, oltre a leggere e votare il preferito tra i tre volumi vincitori, per determinare il “supervincitore”, chiediamo di produrre una “tesina”, individuale o di gruppo, sui libri letti. Le prime tre, prescelte da una giuria composta da Francois Bruzzo (Docente di Liceo), Agostino Contò (Bibliotecario), Massimo Donà (Filosofo), Stefano Guglielmin (Docente di Liceo), Giampaolo Marchi (Università di Verona), Emanuela Raffi (Università di Padova) e Lorenzo Reggiani (Giornalista) sono premiate con un buono acquisto libri.
3ª classificata
Sguardi nel nulla: la poesia ossimorica di Albino Crovetto
Di Evelyn Cristanin, Francesca Frattini, Guido Morina, Valeria Rossini, Silvia Sandri,
Alessia Veronese, coordinati dalla prof. Perini
Liceo Classico “Cotta” di Legnago - Vr
Occhi bucati, bruciati, bianchi, come “inutili fessure di vita”, scrutano nelle tenebre di un notturno infinito, smarriti nella gelida bufera di un’anima senza più voce né grido. La poesia di Albino Crovetto è una continua ricerca del ricordo perduto, in un tormento interiore a cui nulla sembra poter dare pace. Il poeta cerca il “grido di una foto” o le tracce di “volti in caduta libera” che appaiono come il flash di uno scatto fotografico, come il tentativo di fermare il caos interiore per carpire un’istantanea nella labile memoria, percossa incessantemente da un gelo di bufere e tempeste.
Il tema dello sguardo si intreccia finemente con quello della luce e dell’ombra. La luce esiste, infatti, solo nella notte di questi occhi che sembrano quasiosservare il lettore mentre si immerge nell’affascinante oscurità rappresentata dall’interiorità dell’autore. La “zona fredda”, titolo della raccolta, è allora proprio l’io del poeta, rischiarato a tratti da “dolorosi lampi”, poiché l’attimo di verità non è che “una sottile sanguinante linea” dove la realtà e la memoria portano sofferenza all’inconsapevole sonno dell’uomo.
Questa dialettica chiaroscurale è accentuata sinesteticamente anche dalla dimensione uditiva di grida e silenzi. La natura e la vita, consegnate al caso, non offrono risposte. L’individuo può disperarsi e implorare, ma le sue urla si affievoliscono fino a diventare un “diminuito grido” e poi tutto svanisce, diventa aria, e ciò che resta non è altro cheil silenzio del nulla.
E il nulla di Crovetto è freddo, “un nulla di fiamma nella mente in altra luce fredda”, una zona metafisica di inverni dove si snoda il cammino di un’esistenza sofferta e il gelo avvolgente rimane come incollato alla pelle di un uomo cui ormai non rimane più nemmeno il calore della memoria.
Il mondo è friabile sostanza, tutto è destinato a crollare, a frantumarsi, a spegnersi in un “mare prosciugato” dove affiorano “gocce appuntite” che accendono il dolore per poi svanire immediatamente. Restano “spenti crateri”, un “gelido rogo”, un “fuoco lento”: immagini ossimoriche di angoscia materica.
2ª classificata
Relazione dell’opera “Una zona fredda” di Albino Crovetto
Di Guglielmo Arrigoni, Manuel Calzolai, Matteo Marin, Andrea Ongaro, Giulia Semplicini, Enzo Tavoso, coordinati dalla prof. Cerpelloni
Liceo Scientifico “Fracastoro” di Verona
Dai difficili versi si percepisce una spinta alla vita, sentita come desiderio malato che pulsa nel presente.
Evidente è la forza traumatica di un dolore riscoperto che, come in un incubo, costringe a sentire ora come allora l’impeto opprimente di immagini taglienti.
Nell’opera, inoltre, è manifesta la difficoltà di conciliare la vita come flusso e la tensione di tradurla in atto, come in un frenetico assedio dove il soggetto non sembra trovare scampo e il dolore proviene da ogni luogo.
Il mondo viene concepito come insieme di sguardi che sembrano concentrarsi su un’esistenza che di esso è parte, mada cui è spaventata.
La forma è complessa, sono utilizzati simbolismi che lasciano spazio a molteplici interpretazioni senza mai rinunciare alla traumatica ossessione dalla quale non vi è fuga.
Inoltre l’angoscia non sembra sfuggire alle parole che la anticipano, invade i versi e colpisce il lettore prima ancora che la mente operi un’analisi. Il dolore, che la comprensione non sminuisce, risulta il topos dominante nella raccolta, un dolore assoluto, mai attenuabile e immodificabile.
1ª classificata
Dialogo sulla poesia tra realtà e sogno
Di Silvia Dellino e Alessandra Frison, coordinate dal prof. Bragaja
Liceo Classico “Maffei” di Verona
Silvia: Tra tutte le dimensioni della realtà ne esiste una di cui solo l’essere umano, in quanto tale, può considerarsi partecipe. Mi riferisco alla storia e all’uomo di Cefalonia di Luigi Ballerini, sintesi del processo storico, che si manifesta ai suoi occhi come il risultato di condizioni precedenti, rendendolo nel medesimo istante vittima e carnefice. È su di lui, infatti, che pesano le colpe di un terribile passato, forse non vissuto (Hans D), ma compenetrato in quella stessa natura che lo vede tuttora voce sofferente di fronte a ciò che è accaduto e che lo ha visto cadere (Ettore B).
Alessandra: Anche in Una zona fredda di Albino Crovetto vi è la presenza di un soggetto, del quale però non si ode la voce, perché è l’autore che a lui si rivolge di continuo utilizzando a volte una seconda persona singolare, altre volte una terza persona. Forse questa seconda figura, seconda rispetto alla voce del poeta, è in realtà generata dall’autore stesso che dialoga con il suo io, un io che in alcuni componimenti emerge come dal sonno e apostrofa se stesso, in altri immerso nel sonno vede agire sé come personaggio altro nell’esperienza onirica.
Silvia: Ma proprio questo, benchè su un altro piano, quello della coscienza storica, è lo scopo del “monologo a due voci” di Ballerini: ricomporre l’eterno dualismo dell’uomo moderno, grazie all’abilità dialetticadei suoi personaggi, che interpretano la realtà rivivendola in un flusso ritmico carico di emotività, senza per questo privarla di concretezza. La prosasticità di superficie del testo, ciò che si vede a occhio nudo, è composita e garantisce uno spessore stilistico plurale, in cui si fondono lessico tragico e quotidiano al fine di attualizzare la drammaticità degli eventi. Questo autore tende a fare dell’espressione poetica, tramite un linguaggio talora metaforico talora descrittivo, una forma di comunicazione efficace, incisiva, insieme calibrata e sperimentale.
Alessandra: Apparentemente la lingua di Una zona fredda è più spoglia, tende all’essenzialità. Ma spesso la singola parola è carica di significato, intrisa di musicalità e incisività. Talvolta la parola diventa immagine, un’unione di suono e visione che si condensa in un solo verso concluso, quasi monolitico. D’altra parte tutto il libro si aggira, come in una casa buia, in una dimensione interiore senza appigli esterni di ordine storico o cronachistico, presenti invece in Cefalonia. Non mi convince, in effetti, quella trovata della radiocronaca di Italia-Germania. Il rischio del voler mostrare la “banalità del male”è banalizzare la scrittura, ridurla verso uno stile giornalistico…
Silvia: L’espediente della radiocronaca calcistica viene qui utilizzato come occasione critica nei confronti della società odierna, perennemente volta a spettacolarizzare e falsificare anche l’avvenimento più tragico escludendone l’aspetto intimo. La banalizzazione non riguarda unicamente l’ambito linguistico, ma, in dipendenza da questo, quello dei significati, in cui dovrebbe venire espressa l’insensatezza della guerra. La morte eroica dei soldati italiani non è esaltata in quanto stoica risposta ad una ragion di stato o al richiamo patriottico, come sostengono i politici, ma come frutto di una pulsione tipicamente umana dettata da uno spassionato amore per la vita e da un istinto di sopravvivenza morale che si traduce tragicamente in scelta di morte. Essa quindi non rispetta una legge razionale, un diritto riconosciuto comunemente come valido, ma il sentimento di un atto estraneo alla concretezza del mondo e riconducibile ad una personale integrità. La vera vittoria, coperta da quell’urlo di tifosi accecati dalla violenza, che sembra accompagnare i goals, i tradimenti e gli abbandoni, viene espressa dall’aver preferito morire, capovolgendo una realtà informe e precipitandola nella forma del fatto storico e delle voci che ne ricercano i significati.
Alessandra: in modo molto più diretto, uno dei temi ricorrenti nella poesia di Crovetto è il dolore fisico inteso come disgregazione del corpo ed esposizione delle parti più friabili e vulnerabili di esso alle intemperie. Il dolore è un modo per avvicinarsi alla morte ma, allo stesso tempo, per sfiorare la vera essenza della vita, una vita intima fatta di soffi e rapide visioni oniriche. La vita si slega, quindi, dalla realtà, perdendo il contatto con quest’ultima ed affidandosi ai sogni, da ricordare e da dilatare nuovamente nell’esperienza interiore. Il sogno è un altro dei temi portanti di Una zona fredda. Al suo interno navigano tutti i componimenti, che sembrano essere molto spesso dei resoconti di notturne visioni legate tra loro da sottili legami di significato, e tutte vicine ad un punto di spegnimento. Forse un libro che condensa in sé la presenza della realtà come contraddizione continua e interiorizzata, e l’aggirarsi in uno spazio mentale onirico e surreale, è Nature improprie di Franco Falasca. Qui c’è anzi, pare, l’intenzione di superare l’idea stessa di realtà e di soggettività grazie ad un progetto di scrittura che fa del caso la propria regola ma sotto il caso nasconde una o più linee di significati. Purtroppo il tentativo di raggiungerle e di capire, attraverso paradossi e incongruenze viene continuamente frustrato. Credo di preferire il sogno, sia pure di una zona fredda.
Da alcuni anni il compositore e pianista Francesco Bellomi, partendo dalla lettura dei testi dei sei autori premiati dal “Montano”, compone sei brani musicali ispirati dalle opere stesse. Le musiche vengono eseguite per la prima volta durante la cerimonia di premiazione.
I sei file musicali allegati in questo numero di “Carte nel Vento” offrono solo un’idea di massima del lavoro svolto dal compositore. La qualità sonora è evidentemente inferiore a quella dell’esecuzione dal vivo, con pianoforte.
20 righe su musica/poesia.
Quando un musicista scrive musica a partire da testi poetici c’è un criterio che deve assolutamente tenere presente: che non esiste nessun criterio prestabilito da seguire. Di solito funziona così, si legge il testo, e ci si mette in ascolto. Quasi sempre i suoni arrivano da soli. A volte arrivano subito, a volte cominciano a coagulare dopo un po’ di tempo.
Se proprio si lavora di fretta, come capita sempre a me, mentre leggo, lavoro di matita e sulle pagine metto degli strani segni il cui significato non mi è del tutto chiaro: cerchio certe parole, metto delle frecce, traccio delle linee che collegano alcune parole ad altre, sottolineo delle righe, metto tra parentesi delle parole o frammenti di parole, ecc.
Alla fine non saprei dire qual è la logica, ma sono sicuro che ce n’è qualcuna. Poi prendo il quaderno di musica e comincio a scrivere. Non guardo più le poesie, comincio dalla prima nota e vado avanti, senza ripensamenti, direttamente in bella, come hanno fatto sempre i musicisti prima dell’invenzione della gomma.
Non ho un piano di lavoro, faccio seguire a ogni nota quella che mi viene in mente per prima e vado avanti così fino a quando non mi viene più in mente niente. Allora il pezzo è finito. In realtà i pezzi sono già scritti dentro di me e non devo far altro che trovare la prima nota per riuscire a tirare fuori, suono dopo suono, il resto.
Se lavoro così tutto funziona e solo alla fine mi rendo conto che non sono passati dieci minuti ma ore. Se invece lavoro di tecnica, di mestiere, il risultato sembra lo stesso, ma il tempo non passa mai, la musica suona male e, alla fine, butto via tutto.
Sezione “Una poesia inedita”
Patrocinio: Circoscrizione “Centro storico” di Verona
Testo premiato
“Dagli antichi flutti”
di Marcello Gombos
Commento a “Dagli Antichi Flutti”, dell’Autore
Sono spesso fattori biografici minimi, eventi insignificanti, a fornire l’occasione che ci spinge alla scrittura poetica. Nel caso di “Dagli Antichi Flutti” è stata, ad esempio, per quanto posso ricordare, la sensazione di “sradicamento” percepita in un periodo di frequenti spostamenti dovuti al lavoro universitario.
Ma non sono questi eventi minimi, di per se stessi, a costituire la sostanza della poesia, quanto (anche) le sue risonanze.
La pratica poetica (e forse la letteratura in genere), ha aspetti negromantici, vive della convinzione cabalistica che la parola possa ricreare l’oggetto, che il “nome” scritto nel cartiglio possa animare il Golem. Perciò nelle poesie, nei nostri “sortilegi” tendiamo a ricreare le nostre ossessioni, a rianimare i nostri fantasmi, e ad evocarli per gli altri e negli altri.
Le ossessioni, le risonanze, che ho introdotto in “Dagli Antichi Flutti” le avrete già identificate: Atlantide, Bisanzio, sono simboli, nel mito e nella storia, di morte e rigenerazione, morte che porta alla disseminazione di cultura in terre lontane, di “diaspora” (altra parola dalle risonanze infinite…).
Simboli di mortte e rinascita, come la Fenice, simboli di sradicamento: ed è questa la nostra condizione di uomini, di esseri mortali, senza radici, ma “pronti a dar frutto in una terra sconosciuta”, che ci impone di rinascere da ogni Diluvio, dal “Day After” di ogni Bomba, di attraversare gli elementi in tempesta, di affrontare la rivelazione della nostra finitezza e di oltrepassare i nostri stessi confini, per ricominciare al di là, oltre, o qualunque significato si voglia dare all’ “altrove”, “da una nuova Genesi”.
Dagli Antichi Flutti
(Canto Dell'Onda)
Viviamo sempre sul bordo di Atlantide
in attesa dell' ultimo flutto
che sommerga finalmente le nostre creazioni
le case, le navi nel porto e i templi dorati che ci imprigionano
che ci cancelli infine espandendosi nei nostri polmoni
e schiacciandoci sul fondo dell' oceano
O che invece ci scaraventi su di un atollo sconosciuto
feriti e nudi tra i frammenti della nostra canoa
stremati
ma liberi e pronti a ricominciare da zero
Viviamo sempre sulle mura di Bisanzio
in attesa dell'ultima invasione
che sommerga in un mare di fuoco e di acciaio
le persone e i luoghi a cui il nostro cuore è incatenato
che ci cancelli infine esplodendo nelle nostre viscere
gettandoci massacrati in una fossa comune
O che ci spinga alla fuga lontani dalle cupole dorate di Santa Sofia
frammenti di un'antica erudizione come semi dispersi dal vento
feriti, disperati, derelitti
ma pronti a dar frutti in una terra sconosciuta
Viviamo sempre come la Fenice
alla ricerca disperata di un posto dove morire
dove bruciare infine e fecondare con le nostre ceneri
una nuova terra meno sterile dove rinascere di nuovo
pronti per ricominciare
Viviamo sempre in attesa del Diluvio
della Bomba, dell'Apocalissi, della catarsi finale
di attraversare fuoco, acqua, terra, aria, acciaio e veleno
e purificati infine e nudi in una terra vergine
ripartire altrove da una nuova Genesi
Sezione “Raccolta Inedita”
Patrocinio: Biblioteca Civica di Verona
Opera vincitrice
“In re ipsa”
di Giulio Marzaioli
Anterem Edizioni, 2005
*
Traccia l’intonaco
come vetro, come
una mano che dietro
scrive. La trama del
disastro è un ricamo
che infrange. Piano.
*
Quantomeno somigli il crollo
perché sia familiare la rovina.
La mappatura nel distacco,
un tratto ad ogni spaccatura.
Che insomma cos’era prima
resti: rotto, ritratto, replica.
*
Intanto la voce
si piega, curva
nel silenzio, tace.
Non sbatte, non
rimbalza, non va
per linee rette
il suono. Il moto,
resistendo, stona.
*
(notizia – la ferita dall’esterno:
il tempo si ricuce nella carne)
*
(notizia – la ferita dall’interno:
nascosto nella lama il taglio resta)
Sezione “Opera Edita”
Patrocinio: Provincia di Verona
Testi tratti dai tre volumi vincitori
Luigi Ballerini
Cefalonia, Mondadori 2005
Dalla “Notizia dell’Autore”:
“Cefalonia è un poemetto dialogato, in realtà un momologo a due voci, in cui la funzione contestuale è affidata al racconto, per brevi e saltuari cenni, dello sterminio dei soldati italiani della Divisione Acqui compiuto dai tedeschi nei giorni successivi all’armistizio divulgato l’8 settembre 1943.
Parlano Ettore B, soldato italiano caduto in combattimento (ma forse fucilato), e Hans D, uomo d’affari tedesco nato con la camicia, ovvero capace di cadere in piedi, sia prima, sia durante, e sia, soprattutto dopo i combattimenti.” (…)
Ettore B
le tinga dunque un altro le camicie aborrite dal regime, le rifaccia drip
and dry, le affidi a un mercato eccitato, splendidamente rinnovato,
assiepato, più dinoccolato di Gary Cooper, più allampanato di Buster
Keaton, vittima d’insidia, non di eroico furore. Ma io vago insepolto,
elargito a sroposito, e mi è chiara la violenza di un pensiero in linea
retta, che si posa sui clivi e sui colli, con arpe d’oro, e riposa su torri
atterrate, un pensiero che non sa dirsi: “torna indietro”, come carta
giocata incautamente, come parola accolta ma non da noi generata (…)
Hans D
fortunato al gioco, in amore, coi libri che ho letto e non ho letto,
non sto qui a sifolare l’Aida giorno e notte. Il problema è che una
Deutschland uber alles sorride, implacata e vile, nel volto idiota
del presidente texano , con abito medio, macchina e moglie medie.
Nessuno è più libero di non strafare, nessuno che abbia diritto
di sapere come andrebbe a finire se amore fosse amare per forza
chi ci ama o ci guarda da sotto in su per ricordarci chi è che comanda.
Non è peccato, no, per carità, non è peccato, ma giocare per vincere,
sapendo di avere già perduto, questo, mi dispiace, non era nei patti
Albino Crovetto
Una zona fredda, Niebo-La Vita Felice 2004
Dalla “Presentazione di Milo De Angelis”:
La poesia di Albino Crovetto, aguzza e scheggiata, parla di una dimora che viene meno, di un uomo che non abita più dove respira, di un esilio nel cuore del luogo amato. Poesia che un furioso assedio disincarna fino alla linea. Poesia attraversata da fenditure, solchi, materia screpolata. Figure di buio, freddo, sparizione, ferite senza sangue. (…)
Da Scaglie
quietamente gli occhi
bucati dalla veglia
aprono fiumi
macerie in movimento
per difendere memorie
ora un furioso assedio
*
ma passano il fiume
con clamore e lutto
spenti
dentro il mese più caldo
crollano
dentro un quadrato vuoto
dentro un gelido rogo
Da Una zona fredda
Sono due luci lontane
esistono solo nella notte
dei suoi occhi
negli atomi perfetti
segnati con violenza
ogni volta che crollano
di colpo nella neve
se gridano
se diventano linee
o due fessure di vita.
Franco Falasca
Nature improprie, D’Ambrosio 2004
Dalla “Postfazione di Francesco Muzzioli”:
(…) Una poesia della complessità, dunque, che punta sulla mescolanza, l’incrocio, il montaggio, componendosi in una sorta di geroglifico verbale. Il punto di partenza di Falasca può essere trovato nel modo che la sensazione assume nell’epoca della modernità avanzata, in presenza di una focalizzazione percettiva che dilata i particolari e inventaria il loro evento rispettando l’occorrenza caotica della vita. (…)
Appunti descrittivi
Ruote
Schiacciate sopra i sassi del viale
E tra gli sterpi zingari
Dai volti scuri coperti d’ombre
E di riflessi
-le tende
a formare un vano triangolare-
…
l’asfalto
d’estate caldo e dall’odore di bitume
l’asfalto viscido scuro e bituminoso
…
tra gli steli spinosi e le foglie verde-chiaro
e larghe delle leguminose
…
ed intorno sulle rocce, qualche portone
con il vestito bianco
…
le tende grigie e bagnate dei venditori
…
dal contorno ovale
con i capelli scomposti sollevati
in due ciocche
…
gli edifici giallastri
sui prati dalle superfici ineguali
…
sotto l’insegna di lamiera arrugginita
i cerchioni adagiati in buche del terreno
…
il volto ombreggiato
le mani sotto il mento
i capelli sulla fronte
la guancia inclinata da un lato
…
TIZIANO SALARI
Per Giulio Marzaioli
1
Proprio un copista di uno scriptorium veronese,probabilmente intorno all’anno 800 dopo Cristo, trascrisse, su un foglio di un codice di preghiere latine,un indovinello di due versi (esametri ritmici) che nelle storie letterarie viene indicato come uno dei primi documenti in lingua volgare:
Se pareba boves, alba pratalia araba
Et albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
È il famoso Indovinello veronese che allude all’operazione di scrittura attraverso un paragone con quelle di aratura e di semina. Può essere tradotto così:
Si spingeva avanti i buoi (le dita),
arava un bianco prato (la pergamena),
reggeva un bianco aratro (la penna)
seminava nero seme (l’inchiostro).
Ed è proprio l’indovinello veronese che mi è venuto irresistibilmente in mente leggendo il manoscritto di Giulio Marzaioli, In re ipsa, e chiedendomi che cosa significasse quel titolo latino che alludeva allo stare, all’essere nella cosa stessa. In re ipsa. Nella cosa stessa. La risposta mi venne quando lessi i seguenti versi:
L’inchiostro si annoda tra riga e pausa.
È una rete in cui riposa il nero,
quasi un nido se non fosse che la frase
vira in bianco sul foglio, non racchiude.
Essere nella cosa stessa significava forse, per Marzaioli, essere nella scrittura stessa? Ma il negro semen (l’inchiostro) che calava sul foglio per racchiudere qualcosa non riusciva tuttavia a racchiudere niente (vira in bianco sul foglio, non racchiude). Qualche pagina dopo il poeta parla addirittura di un ago che incide la carta, come se la carta fosse la carne del poeta, e, addirittura, della nervatura d’inchiostro sul foglio come se fosse la monta, una specie di coito, e la scrittura il piacere. Quindi un piacere in sé e per sé, al di là del fatto che la scrittura racchiuda qualcosa o non racchiuda niente. Ma forse la cosa è ancora più complicata.
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L’espressione la cosa stessa, come raggiungere, esprimere, “la cosa stessa” è un problema che ha occupato la filosofia fin dalle origini,da Platone (la celebre VII Lettera), una formulazione che è stata usata per definire “la cosa del pensiero” e che il pensiero moderno ha ereditato come una parola d’ordine, ha scritto qualcuno, passata di bocca in bocca, in Kant, in Hegel, in Husserl, in Heidegger, qualcosa che si esprime nel linguaggio ma allo stesso tempo lo trascende, e non può esistere all’infuori del linguaggio. Anche nella poesia , quando Baudelaire, ad esempio, scrive di avere teso, nella dedica dello Spleen di Parigi, al miracolo di una prosa in grado, come nella poesia di un amico, “ di tradurre in una canzone il grido stridente del Vetraio, e di esprimere in una prosa lirica tutte le desolanti suggestioni che questo grido invia fino alle mansarde attraverso le più alte nebbie della strada”, vuole ritrovare l’equivalente espressivo di un fenomeno unico e irripetibile, della cosa stessa.
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E allora, da sempre, filosofia e poesia sono attraversate da questo dilemma, il rapporto che intercorre tra il linguaggio e la cosa di cui si occupa, in cui certo, ne va della ricerca della verità, sia questa l’idea filosofica o il grido del vetraio. Tutto l’ultimo secolo, filosofico e poetico, è occupato dal problema della differenza tra linguaggio e realtà. Si pensi all’ossessione da quando Hofmannsthal scrisse, in persona di Lord Chandos, del logoramento delle parole e dello stupore di trovarsi di fronte a degli oggetti , a cui non sembrava più corrispondere la parola che li designava. Un erpice, un prato, una capanna. La poesia, per accentuare la propria distanza dal linguaggio comune, ha teorizzato nel corso del secolo la separazione tra significato e significante, come se solo attraverso questa separazione fosse concesso di allargare gli spazi del sentire ed esplorare nuovi mondi. Marzaioli, mi sembra, non crede alla possibilità di questa separazione. La sua “cosa stessa” diventa la scrittura all’interno della quale significante e significato si schiacciano l’uno sull’altro fino a diventare righe allineate sul foglio (o aghi che incidono la carne del poeta, il foglio bianco , l’alba pratalia ,come il corpo del poeta). La scrittura, che è perennemente ricerca del senso, tentativo di afferrare la cosa stessa, diventa essa stessa la cosa, in una sorta di fascinazione in cui la realtà, piuttosto che essere afferrata dalla scrittura, si sottrae perennemente dall’essere compresa.
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Marzaioli è consapevole in questo corpo a corpo con la scrittura (che è un corpo a corpo con la cosa, chiamiamola vita, essere, realtà, senso dell’essere), di essere sempre in presenza di una mancanza, è consapevole di non andare certo, con l’esercizio della scrittura, come diceva Blanchot, verso un mondo più certo, migliore, meglio giustificato, dove tutto si ordini secondo la chiarezza di una luce giusta. Anzi, in una sezione del libro, definisce quello che resta sulla pagina spazzatura, in cui allineare come in una discarica i propri resti di uomo e di poeta Grafia di una storia minore, dice, (storia con la s minuscola) sullo sfondo di una Storia (con la S maiuscola), che scorre come qualcosa d’inesorabile e distante dalla nostra storia soggettiva, ma insieme la interseca , in un’evanescenza da cui entrambe sono travolte in una continua produzione e perdita e nuova produzione e nuova perdita di senso.
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Questa evanescenza della cosa stessa, o questa metamorfosi della cosa stessa nella scrittura che dice l’evanescenza della cosa, in un suo libro precedente l’aveva chiamata elementi di fuga. Gli elementi sono i quattro elementi primordiali della filosofia presocratica,che suddividono il libro in quattro sezioni: Aria, Acqua, Terra, Fuoco. Come ogni vero poeta in ogni suo libro non fa che allargare il proprio orizzonte iniziale Elementi di fuga è l’antecedente necessario di In re ipsa. Nella sua prima raccolta Marzaioli s’interrogava sulle manifestazioni più percepibili di quegli elementi, l’aria che ci circonda, la pioggia che cade, la terra investita dalla luce, il debole fuoco luminoso di una candela, colti sia nella loro presenza fisica e insieme come fondamenti dell’essere. Anche qui il linguaggio e la cosa cercavano una difficile congiunzione vivendo drammaticamente la loro dissociazione. Elementi di fuga/ in fuga. Forme allo stesso tempo concrete e astratte che si dissolvevano in relazione al nostro essere nel tempo. Così Marzaioli chiudeva quella sua prima opera:
è questo il tempo della fuga
prima che la breccia chiuda,
ci trattenga fuori?
Allora s’apre dentro la ferita
come una finestra.
Perché non si disperda il volo
perché prosegua nel ritorno
quasi una risposta.
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La ferita , aperta come una finestra , significa che attraverso la ferita si mantiene un collegamento tra interiorità ed esteriorità, tra linguaggio e cosa, che In re ipsa tornerà come problema di ferita che, attraverso la scrittura, sembra rimarginarsi, ma nella consapevolezza che nella scrittura non si rivela la cosa stessa ma solo il suo fantasma, e che quindi ogni comprensione è fondata nell’incomprensibile. E riaffiora il problema della cosa ,che un tempo rinviava a qualcosa di concreto, a Dio, alla vita, all’inconscio, allo spirito, che ora sono diventati nomi vuoti, essendo il pensiero contemporaneo (includendo in questo anche il pensiero poetico) arrivato ad un punto estremo di esaurimento. Parafrasando Heidegger, l’uomo è gettato nel linguaggio senza che nessun fondamento gli garantisca una possibilità di scampo dal gioco infinito e insensato della scrittura, del negro semen, dell’inchiostro che moltiplica le righe nere sul foglio bianco, sull’alba pratalia, negli infiniti spazi bianchi all’interno dei quali deve essere riarticolato il senso, ritrovata un’apertura (Allora s’apre dentro la ferita/come una finestra, dice Marzaioli) al movimento del pensiero. E qui poesia e filosofia s’incontrano nello stesso compito della ricerca di un varco che trascenda la cosa stessa (il linguaggio, la scrittura) in una sempre rinnovata interrogazione rivolta al cuore dell’essere, al di sotto del velo che gli ha tessuto, e continua a tessere intorno, il linguaggio.
Tiziano Salari
Verona, 24 settembre 2005